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La mia vita di uomo (Philip Roth)

Peter Tarnopol, scrittore ebreo di New York, sposa Maureen e poi non riesce più a divorziare senza doverle un sacco di alimenti, finché la donna muore e… lui è libero.

La trama è brevissima, eppure Roth riesce a costruirci un libro di 374 pagine: questo grazie alle numerosissime riflessioni, a due racconti scritti dallo stesso Tarnopol, alle sue scaramucce con lo psicanalista, alla sua relazione con Susan e le altre.

La domanda che Tarnopol continua a farsi è: come sono finito in questo garbuglio? Io che ero uno scrittore promettente? Io che sono uscito dall’università con lode; io, bello, intelligente, pieno di risorse? Perché non riesco a liberarmi di questa donna?

E fa bene a chiederselo, perché, nonostante la moglie dimostri più volte comportamenti al limite della malattia mentale, nonostante le numerose scenate in pubblico e le aggressioni fisiche da entrambe le parti, lui verso di lei continua a provare un senso del dovere che non si capisce da cosa nasca.

Nonostante la storia raggiunga a volte punte grottesche, la vicenda di Tarnopol è anche quella di ognuno di noi: da giovani siamo pieni di speranze e capacità, e poi con gli anni, ci ritroviamo a svolgere un lavoro che non ci piace, in un’azienda che ci ha stancato, o a vivere in una famiglia per la quale siamo ormai dei soprammobili (quando va bene).

E allora che si fa?

Esiste un senso per la vita di ognuno di noi?

Ognuno di noi questo senso deve crearselo. Tarnopol ci prova mettendolo su carta: prima ci prova con due racconti in cui il protagonista è un “certo” Zuckermann (conosciuto a tutti i lettori di Roth), e poi raccontando la sua vera storia.

O perlomeno raccontando la sua versione.

Perché a volte ho davvero l’impressione che Tarnopol sia il classico narratore inaffidabile, che si dipinge intellettuale, colto, controllato, e poi salta fuori che picchia la moglie e si veste da donna.

Ma è proprio qui il punto: siamo tutti narratori inaffidabili delle nostre storie.

La vita è un succedersi di fatti: sono legati tra loro da cause ed effetti, certo, ma – sotto – non c’è alcun disegno. Il disegno dobbiamo farlo noi.

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