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Arlington Park – Rachel Cusk

Cinque donne abitano in Inghilterra, ad Arlington Park, una zona-bene, ma lontano dal traffico londinese.

Una giornata di 24 ore in cui non succede, praticamente, nulla.

Eppure, il romanzo me lo sono bevuto.

Perché quello che non succede fuori, succede dentro le teste di queste cinque giovani donne, tutte madri di famiglia, tutte con una situazione economica che non desta preoccupazioni.

E che succede in queste teste, come in tutte le teste delle donne medie contemporanee? Succede che… si preoccupano lo stesso.

Si preoccupano che il pollo per la cena non sia perfetto, che ci sia una macchia sul divano, che i mariti non aiutano, che le madri sono sole, che l’ambiente sta raggiungendo un punto di non ritorno, che il cibo che mangiamo non è più sano, che i figli vengano investiti… si preoccupano della ripetizione di tutto, perfino della ripetizione delle preoccupazioni:

Maisie era così abituata a percepire dentro di sì una forza di rinnovamento, che si era accorta in ritardo di averla perduta, di vivere ormai in una specie di spirale o circuito che la riportava continuamente negli stessi posti a fare le stesse cose.

Tutte e cinque ruotano attorno a se stesse in cerca di qualcosa, ma non sanno esattamente cosa.

E’ un romanzo sulla mancanza, sull’assenza di senso che ti prende quando non hai preoccupazioni economiche: non essendoci un vero e proprio problema, non c’è neanche una soluzione.

Ah, che bello sarebbe avere una soluzione! Ma niente, non si capisce dove sta, ‘sta soluzione; a volte sembra che il problema sia solo la stanchezza, o la mancanza di empatia col proprio partner, ma non è così.

E’ qualcos’altro.

Tutta la storia (…) si riduce a questo: un luogo di benessere puramente materiale, attraversato da pensieri segreti.

E’ una fatica di Ercole, questo cercare e cercare non si sa cosa. E’ faticosissimo pensare di continuo: gli uomini non lo capiscono. Guardano una donna che prepara un’insalata russa e pensano: sta preparando un’insalata russa.

Illusi…

Maisie, ad esempio: perché ha certi scatti di rabbia? E Juliet cosa ne ha fatto della sua eccezionalità, di quella capacità di distinguersi che le riconoscevano tutti quando andava a scuola?

Era un lavoro sporco, l’incessante lotta per mantenere la separazione tra dentro e fuori.

In un paio di occasioni, loro stesse dicono che hanno perso la capacità di divertirsi. Io direi invece, che hanno bisogno di preoccuparsi: è comunque un modo di darsi un senso, di distinguersi nel magma delle mamme che vanno al parco e che sembrano tutte uguali.

(…) si lasciava dietro il suggerimento che la vita dovesse andare nella direzione feconda del rischio e dell’eccentricità, piuttosto che in quella di un ordine mortale.

Voto: 4,5/5.

Rachel Cusk è bravissima coi dettagli: ti sembra di essere davanti a un personaggio e osservarlo con calma in tutte le sue sfumature senza che lui si accorga di questo esame. Non avete mai provato una forte curiosità davanti a una persona che incrociate per strada o in treno ma che non potete fissare perché risultereste maleducati? Be’, i personaggi della Cusk puoi fissarli fin che vuoi, dentro e fuori. Che soddisfazione!

Che consolazione sapere che in giro per il mondo ci sono tante donne che sono stanche senza neanche sapere bene ci cosa. Provo un senso di appartenenza alla categoria:

Si era aspettata di ritrovarsi in qualche dipartimento universitario, o nella redazione di un quotidiano nazionale. Anche altri l’avevano pensato. A scuola era lei, quella eccezionale. Era lei, quella di cui tutti parlavano. Era la prima in tutte le materie; aveva vinto una borsa di studio (…). Veniva da pensare (…) che non fosse affatto intelligente, dotata o eccezionale. Ma semplicemente brava a scuola.

Dunque non sono sola!

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Autofiction #Pordenonelegge 2018

Ieri sono stata al Pordenonelegge ad ascoltare un dibattito sull’autofiction tra Carlo Carabba ed Emanuele Trevi. L’incontro era presentato da Alberto Garlini.

Cos’è l’autofiction?

Bè, non è proprio un genere. Per spiegarvi cos’è, vi faccio subito due autori che la usano o l’hanno usata nelle loro opere: Carrére e Chatwin.

Carabba ci ha proposto una suddivisione:

Primo filone: autori che mettono direttamente a nudo la propria anima con lo scopo di cercare la Verità (es. Proust, S. Agostino)

Secondo filone: autori che presentano un racconto molto simile alla propria realtà individuale (es. Jack London col suo “Martin Eden” o Breston Ellis col suo “Luna Park”).

Terzo filone: autori che uniscono il racconto della propria vita a fatti di cronaca (uno su tutti: Emmanuel Carrère).

Dai pochi esempi elencati, si evince che l’autofiction non è un genere a sé, perché si può infiltrare in altri generi (letteratura di viaggi, autobiografia, horror, cronaca…). Trevi ha usato un verbo: parassitare.

Quale è la necessità di fondo dell’autofiction?

Fondamentalmente, è un modo di reagire all’inerzia dell’esistenza, alla mancanza di eventi significativi nella vita di tutti i giorni. La sua ragione d’essere, è la stessa ragione per cui amiamo le storie inventate: perché abbiamo bisogno di vedere un filo conduttore in tutto ciò che succede, abbiamo voglia di segni, di significato.

Abbiamo bisogno che la persona, che vive una vita banale, si trasformi in personaggio, cioè in una persona privata degli innumerevoli momenti in cui non succede nulla. Ecco perché agli autori piace mischiare la persona (autobiografia) al personaggio (fiction).

Emanuele Trevi ha espresso un suo parere su Carrère: dice che i suoi libri si leggono tutto d’un fiato, sì, ma a volte, annoiano. Perché? Perché Carrère si mette sempre in mezzo, come se avesse difficoltà ad accettare che la vita è costituita più da assenza di eventi significativi che da eventi significativi. Secondo Trevi, non si può rendere interessante tutta una vita in tutti i suoi momenti: se lo si fa, si gonfiano i contenuti, e, così facendo, ci si allontana dalla Verità (o dalla sua ricerca).

Carabba ha appena pubblicato un esempio di autofiction: “Come un giovane uomo”. Parla di una sua esperienza del lutto. Nel libro racconta della morte di una sua cara amica, e di come, il giorno del funerale, lui si trovi davanti ad un bivio: andare a darle l’ultimo saluto o a firmare un contratto di lavoro che significherà la fine di una vita di precariato.

Ecco: il bivio.

Il bivio spesso non è altro che un rito di passaggio, un evento significativo nella vita di una persona. Dunque vale la pena scriverne. E spesso il bivio riguarda la scelta tra sentimento/intuito/affetti (nel suo caso, il funerale dell’amica) e razionalità (la vita lavorativa).

Sia come sia, dice Trevi, l’arte, e dunque la letteratura, deve creare un cambiamento. Se non lo fa, allora è un romanzo da nevrotici (v. Freud e il chiacchiericcio mentale dei suoi malati), un meccanismo di difesa che non crea cambiamento; un tentativo, vano, di compensare il quotidiano.

Il cambiamento deve essere qualcosa che non ti aspetti, qualcosa di diverso dalla vita vera, in cui la direzionalità (forse) non c’è.

Sono così d’accordo con Trevi e la sua concezione della letteratura, che ho subito comprato il suo “Qualcosa di scritto”. Ma devo stare attenta a leggerlo: non devo guardarlo come un libro autobiografico, anche se l’autore parla a volte in prima persona. Come per stessa ammissione di Trevi, la sua autofiction ha sempre un taglio di critica letteraria. Nel caso di “Qualcosa di scritto”, si dedica a Pasolini.

E ora una nota personale, di autofiction, direi: mi sono ricordata di chiedere a Trevi una foto, ma non mi sono ricordata di fargli autografare il suo libro che tenevo sotto il braccio e che avevo appena comprato. Sì, sono reale, ma imbranata come un personaggio dei cartoni animati.

E adesso, da raccoglitrice compulsiva di autografi di scrittori, mi mangio le mani.

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La pioggia prima che cada, Jonathan Coe

Mamma mia che bel libro…

Ma non lasciatevi fuorviare dai miei giudizi: ricordatevi non mi piacciono i libri allegri, vi metto in guardia. Questo ha una bellissima storia che si dipana attraverso tre generazioni di donne, e viene raccontata da un’altra donna, Rosamund, poco prima di morire; e viene raccolta da un’altra donna ancora, Gill, che riceve l’incarico di trovare Imogen, che aveva conosciuto solo di sfuggita molti anni prima.

E’ un libro sugli effetti della mancanza di amore, e sul tentativo di dare un significato a questa mancanza. Ma non illudetevi: Coe questo significato non ce lo offre. O forse sì?

C’è un passaggio, verso la fine del libro, in cui sembra che tutto stia per tornare al suo posto, ma è solo una speranza…

Beh, io sono ottimista. Nel romanzo si dice che questo Significato è come la pioggia prima che cada: ok, ma come faccio a parlare di pioggia prima che cada, se poi non… cade??

Non posso rivelare i dettagli della storia senza rovinarvi la lettura, dirò solo che Rosamund, che parla attraverso le cassette raccolte da Gill dopo la sua morte, è un bel personaggio: poco appariscente, per niente ribelle, anche se la sua omosessualità può farlo credere; ma è una donna che ha voluto molto bene, anche senza esserne ricambiata; ingenua, per lungo tempo, ma le sue disillusioni, alla fine, le sentiamo come nostre.

Da leggere.

Un’ultima considerazione personale: ultimamente molti dei libri che leggo trattano di omosessualità. Trovo più omosessuali nella letteratura che nella vita di ogni giorno. Strano. La letteratura dovrebbe rispecchiare la realtà, no?

Allora, o ci sono molti più omosessuali di quel che vedo nell’ambiente che frequento, o la letteratura sta andando oltre, o più veloce della realtà, per dare messaggi che bisogna un po’ urlare, per farli comprendere.

O forse dovrei farmi delle domande sulle persone che frequento?

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Una vita nel vuoto, Irwin Shaw

Mi piacciono i film americani, ma solo quando sono… film, non quando sono libri scritti sotto forma di sceneggiatura camuffata da romanzo.

Questa storia, poi, la trovo molto didascalica: il protagonista è malato di adrenalina, vive una vita senza significato e si sente rinascere solo quando si dedica agli sport estremi o rischia di morire.

Mi fa poi un po’ ridere la classica storia romantica in cui i due si sposano dopo appena cinque mesi che si conoscono: colpo di fulmine, amore per tutta la vita. E’ uno stereotipo così… americano, così… cinematografico!

Ho sospeso la lettura a p. 135 (su 314) perché non ce la facevo a continuare, e poi ho sbirciato la fine (attenzione: spoiler!!!), dove Mike si riconcilia con la moglie quando capisce da che parte stanno i veri valori.

Banale.

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Il nostro caro Billy – Alice McDermott @Einaudieditore

Grande scrittrice, la McDermott.

Il romanzo inizia nel Bronx con una veglia funebre per Billy, il vecchio caro Billy, di cui tutti parlano un gran bene ma del quale, sottovoce per non farsi sentire dalla vedova Mauve, tutti ricordano il primo amore, Eva, l’Irlandese morta di tubercolosi nella terra natia prima che il loro sogno potesse realizzarsi.

La storia è narrata dalla figlia di Dennis, che è stato il miglior amico (nonché cugino) di Billy. Dennis però è anche il personaggio che ha, per così dire, creato il mito di Billy, perché è lui che ha comunicato all’amico la notizia della morte di Eva, molti, moltissimi anni prima. Ed è l’unico che per tutti quegli anni ha saputo che questa era una bugia: perché Eva non è morta di tubercolosi; no. Eva si è semplicemente tenuta i soldi che Billy le aveva mandato per tornare negli Stati Uniti e li ha utilizzati come acconto per l’acquisto di una stazione di servizio, dove è andata a stare col nuovo marito.

In cosa consiste il “mito” di Billy?  E’ il mito del primo amore, quello che non si scorda mai. Infatti, anche se Billy poi si sposa con Mauve, anche se non nominerà più Eva per il resto della sua vita matrimoniale, tutti sentono che lui è ancora legato a quel sogno; e tutti sanno, anche se non lo dicono, che Billy è diventato un alcolizzato e si è ucciso a forza di bere per colpa di quel sogno.

La bugia di Dennis viene rivelata subito nel primo capitolo, e la narrazione va avanti e indietro lasciandoci capire subito come finisce la storia di Billy; ma la bellezza del romanzo sta nell’alone di fascino che circonda questo protagonista (morto). Tutti vogliono credere in questa magia ambigua, che può darti tutta la forza del mondo, ma che può anche distruggerti se non riesci a imbrigliarla.

Durante la lettura mi è spesso venuto il dubbio: Billy è morto alcolizzato per colpa della bugia di Dennis? Mi sono risposta: no, l’autrice non voleva darci questa interpretazione. Perché le persone come Billy avrebbero trovato un’altra scusa per bere (un alcolizzato trova sempre una scusa per bere); Dennis ha creato un mito perché se avesse rivelato subito a tutti la verità, il loro mondo sarebbe stato un po’ meno bello.

Come mi sembravano tutti soli quella sera, i familiari e gli amici di mio padre: anime solitarie, tutti quanti, nonostante i mariti, i figli, i cugini e gli amici, con tutte le loro speranze, tutto quell’accoppiarsi e generare, quella mania di tenersi in contatto, di non perdersi di vista, tutto così vano alla fine, perché prima o poi tutti quanti erano costretti a rendersi conto che niente di ciò che avevano provato aveva cambiato le cose.

Questa secondo me è il periodo che illumina tutto il senso del romanzo: tutti sperano nell’amore come unico mezzo per dare senso alla vita, quella vita che alla fine tutti devono lasciare.

Consigliato.

 

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