La voce narrante appartiene ad un professore spagnolo di letteratura che deve tenere un corso biennale a Oxford negli anni Ottanta.

La sua esperienza è quella di un estraneo che non riesce ad integrarsi. Se si escludono due insegnanti e l’amante, il giovane professore continua a percepire un turbamento di fondo che lo isola dall’ambiente della cittadina: non giunge mai a dire che non gli piace (troppo raffinato per esprimersi con termini così terra-terra), ma ogni giorno annusa un odore di stantio e vecchiume che trasuda da ogni muro e da ogni toga.
Per due anni vive in uno dei più famosi santa sanctorum della cultura e dell’istruzione, e lui mai tradisce un alito di rispetto.
A un occhio esterno può sembrare strano, ma quando assistiamo alla prima delle cene tra professori e studenti, capiamo subito il motivo del suo estraniamento: è una cena assurda, regolata da consuetudini ridicole, con commensali al limite del morboso.
Anche gli altri insegnanti sembrano essere soli. Molti di loro hanno un passato di spia e collaboratore governativo, ma adesso sono isolati, senza scopo: l’insegnamento di certo non è più il fuoco sacro che ci si aspetta da professori togati di questo livello.
Il giovane spagnolo inizia una relazione con Claire, anche lei insegnante. Ma lei è sposata e ha un figlio: non parlano mai di cosa succederà una volta che terminerà il contratto biennale di lui, eppure i due si sentono legati dal fatto di non aver radici nella cittadina, di esser radicati altrove: lui in Spagna e lei in India ed Egitto.
Non c’è molta trama, quasi nessun evento: è un romanzo che gira attorno alle psicologie di pochi personaggi, ma ben approfondite, pur senza alcuna possibilità di raggiungere il cuore di ognuno – è un’impossibilità congenita, è la causa di ogni solitudine.
Un romanzo molto autunnale.