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Cronache di un venditore di sangue (Yu Hua)

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Cina, seconda metà del secolo scorso.

Chi ha bisogno di soldi, l’equivalente di sei mesi di lavoro in campagna, vende il sangue.

La vendita del sangue è l’espediente a cui Yu Hua ricorre per narrare la vita di Xu Sanguan.

Il primo guaio che deve affrontare, e per il quale gli servono soldi urgenti, è quello procuratogli dal figlio Felice Uno, che spacca la testa al figlio del fabbro Fang.

Un’altra volta, vende il sangue per fare dei regali a una collega con la quale è finito a letto.

Un’altra volta per dar da mangiare alla famiglia, ridotta pelle e ossa a causa di un’inondazione e di una carestia (ma anche della politica di Mao).

Un’altra volta per offrire una cena sontuosa al capobrigata del figlio Felice Due, perché un’accoglienza insufficiente rischierebbe di causare al figlio grosse difficoltà.

Infine, Xu Sanguan ricorre alla vendita del sangue, più volte, per salvare la vita al figlio Felice Uno, ammalatosi di epatite, che deve essere curato a Shanghai: lo vende più volte, lungo il tragitto da casa fino all’ospedale, rischiando la vita (e attenzione, che Felice Uno non è suo figlio, anche se lui lo ha creduto per nove anni).

All’inizio, la lettura mi è risultata un po’ difficile: lo stile è molto ironico, i protagonisti parlano gesticolando molto, si ripetono, un po’ come nei film di Bruce Lee; poi però si capisce che dietro certe scene apparentemente comiche si celano dei drammi non indifferenti.

Lungo tutto il romanzo, serpeggiano paure: di morire di fame, di perdere la faccia davanti alla comunità, di scialacquare il sangue, simbolo di forza, vita e retaggio degli avi.

Della storia della Cina si parla solo indirettamente.

 

 

 

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Uccidere il cancro – Patrizia Paterlini-Bréchot

Bella questa autobiografia (anche se credevo si trattasse del solito manuale su cosa mangiare e quanto allenarti). La prof.ssa Paterlini, italiana con cattedra di biologia cellulare e molecolare all’università di Paris-Descartes, si racconta sia dal punto di vista professionale che personale.

E’ un testo pieno di speranza: la Paterlini ha sviluppato un sistema per verificare se nel sangue ci sono cellule tumorali circolanti, in modo da stanare un cancro prima che diventi visibile agli esami con imaging. La tecnica fa uso di una macchina che ha brevettato lei (si è dovuta anche improvvisare industriale, perché non trovava nessuno che le finanziasse la produzione dei prototipi) e che sfrutta la differente grandezza delle cellule ematiche e tumorali per scovare tumori allo stadio iniziale. E’ riuscita, partendo da una macchina che filtrava il latte, a crearne una che filtra il sangue in verticale (mentre di solito il sangue viene filtrato con una specie di centrifuga). Ed ha dovuto anche brevettare una sostanza per rendere filtrabile il sangue senza rovinarlo.

Lo ripete più volte nel corso del libro: il cancro è mortale solo quando gli si dà il tempo di diventarlo. Anche i c.d. tumori fulminanti sono tumori che sono rimasti nel corpo a lungo, a volte per anni, prima di dare sintomi: e quando i sintomi sono arrivati, è già troppo tardi, per qualcuno.

Durante la lettura, l’ho percepita, oltre che molto competente e determinata, anche umana: si sente investita di una missione perché soffre quando vede un paziente soccombere alla malattia, non lo fa per ottenere onori e attenzione mediatica, e dedica diversi paragrafi del libro a descrivere le vicende di alcuni suoi malati.

La macchina che permette di stanare cellule maligne nel sangue, e che potrebbe ridurre moltissimo i casi di decesso grazie alla tempestività dell’intervento, dunque, esiste, ma è ancora poco diffusa. Perché bisogna comprarla? No: perché non fa guadagnare alcuna multinazionale. Nel libro ci sono ampi passaggi dedicati alle multinazionali del farmaco e a come influenzano la ricerca scientifica, le prescrizioni di medicinali, le pubblicazioni sulle riviste.

E, a proposito di pubblicazioni sulle riviste scientifiche, la Paterlini ci dà un’ampia panoramica di come il sistema del peer-review mostri il fianco alle critiche. In pratica: per pubblicare su una rivista (ricordo che la pubblicazione è quasi l’unico modo per convincere enti e istituzioni e rilasciare fondi per la ricerca) bisogna passare l’esame di una commissione medica di pari (peer) che sono e restano anonimi. Il problema è che la concorrenza in campo scientifico è enorme. Se i revisori sono competenti nel campo su cui verte la ricerca, è probabile che si tratti di concorrenti che lavorano sullo stesso argomento: la mancanza di obiettività è sempre in agguato. Se invece i revisori sono più lontani da quel campo di ricerca, di solito sono meno compromessi, ma è anche probabile che non dispongano delle competenze necessarie per valutare bene tutti i contenuti della ricerca. E quel che è peggio, è che i revisori possono rifiutare la pubblicazione di una ricerca senza dare motivazioni (il che è quello che è successo alla Paterlini: se danno delle motivazioni insufficienti, ci si può appellare all’editore, ma se non ci sono motivazioni, non puoi attaccare il verdetto).

Dunque: da un lato, onore e gloria a ricercatori come la Paterlini che con tanta, tanta, tanta resilienza si danno da fare per combattere questa malattia. Dall’altra, vergogna, che una ricercatrice del genere, e tanti altri come lei, sia dovuta emigrare in Francia perché qui il baronaggio non le avrebbe dato via di uscire allo scoperto.

Sono sempre più stufa di questa Italietta.

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