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La papessa (Donna Woolfolk Cross)

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Dopo la vera storia di Malala, una ragazza a cui si voleva impedire di studiare, passiamo a Giovanna, vissuta (forse) nel IX secolo, perché neanche lei avrebbe potuto studiare.

Il libro mi è piaciuto tantissimo: su una scala da 1 a 5, gli ho dato 5-, ed è il voto più alto di quest’anno.

Siamo nel Nord del Sacro Romano Impero ma Carlo Magno è morto e regna la decadenza: ignoranza, fame, malattie, scorrerie dei vichinghi, superstizioni.

Le donne non hanno alcun diritto: non possono possedere nulla, il marito è autorizzato a picchiarle, e se vengono violentate il colpevole viene punito in maniera più lieve che per un caso di furto.

Quando il curato, padre di Giovanna, si accorge che la bambina vuole studiare, va fuori di testa: una donna non deve studiare, è contro natura, e… tutti sanno che le dimensioni del cervello di una donna sono inversamente proporzionali alla capacità del suo utero. Insomma, se una donna studia, non fa figli.

Ma, in un modo o nell’altro, Giovanna riesce comunque a imparare a leggere e scrivere, anche in greco.

Il romanzo è molto avventuroso: lei si ritrova, dopo una serie di vicissitudini, camuffata da uomo nel monastero di Fulda. Diventa prete ma si inimica le alte gerarchie a causa delle sue capacità logiche e della sua apertura al nuovo.

Finisce a Roma, dove, dopo che gliene successe di tutti i colori, diventa Papa, anche se per poco tempo.

I testi che testimoniano l’effettiva esistenza di Giovanna Papessa sono pochissimi, frammentari e molto contestati. Può non essere esistita. Però, se non lei, ci sono stati altri casi di donne che si sono travestite da uomo per permettersi una vita più libera: in tutti i tempi (e alla fine del libro l’autrice ne cita alcuni).

Bello, bello, bello. Perché, se anche la storia individuale di Giovanna è stata inventata, il romanzo incarna una delle paure più ataviche dell’uomo: la donna che studia, che può fargli concorrenza.

Mi direte: altri tempi.

Lo credevo anch’io, finché qualche anno fa, un mio amico, professore di filosofia, non mi ha detto: “Le donne non possono fare davvero filosofia. Gli uomini sì”. Gli ho chiesto perché: è un tipo che legge tre o quattro libri alla settimana, poteva darmi delle ragioni da valutare. E invece la sua risposta è stata: “Perché… no. E’ così. Non so perché”.

Altro lato piacevolissimo del romanzo: ti mette davanti alla realtà quotidiana di quei tempi. Preti sposati, malattie e procedure mediche, amanuensi, i nomi locali dei mesi dell’anno…

Il “meno” della votazione non ho potuto evitarlo perché:

  • la trama è un po’ troppo infarcita di coincidenze, che rendono la storia più veloce ma che, dal punto di vista della verosimiglianza, abbassano la qualità finale del romanzo;
  • Richilde, la moglie dell’uomo di cui Giovanna si innamora, è troppo “macchietta”: l’autrice non mette in evidenza nessun suo lato positivo, e questo è poco verosimile.
  • Giovanna continua a difendere Matteo, suo fratello, nonostante lui dimostri più volte di invidiarla fino alle estreme conseguenze, e anche questo è poco verosimile.

Da leggere.

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La miglior vita – Fulvio Tomizza @RizzoliLibri

Ho fatto una fatica bestia a finirlo, e sono arrivata alla fine solo perché era il titolo della discussione del Gruppo di Lettura, altrimenti lo avrei messo da parte.

Motivo? Scrittura troppo elitaria per me. Ma mi consola il fatto che altri del GdL abbiano incontrato la stessa difficoltà.

Però… se non sono (siamo?) più abituati a leggere una certa narrativa, non è colpa dell’autore, che nel 1977 si è adeguato agli standard del tempo (by the way, con questo romanzo ci ha preso pure lo Strega). Da parte mia, Tomizza ha peccato un pelino di compiacimento per la prosa complessa, tuttavia, non si può dire che non fosse un bravo scrittore. Certo, non è un libro per la massa (di cui faccio parte).

Il romanzo narra la storia di quasi un secolo di una zona a confine tra Italia e Jugoslavia e dei passaggi di nazionalità da un paese all’altro con i conseguenti drammi. E’ tutto narrato in prima persona; il narratore è il sacrestano, che racconta le grandi e le piccole storie in sette capitoli, uno per ogni sacerdote che passa nel suo paesetto.

Ci sono alcuni episodi umoristici, ma l’atmosfera complessiva si assesta sul nostalgico e struggente. Personalmente, la parte che mi è piaciuta di più è quella relativa all’ultimo sacerdote, don Miro, che si è innamorato di una maestra ma che, non potendo amarla, si dà al bere.

Nonostante non sia un libro per me, ripeto, la storia è carina. Ci vedrei bene un film.

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