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Virus (Clive Cussler)

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Tutti parlano di corona virus e io… leggo un libro intitolato “Virus” (anche se nella versione originale il titolo è Vixen 03).

Che ci posso fare? Io mi rilasso così.

E, fatalità, oggi, all’età di 88 anni, è morto Clive Cussler.

E’ una coincidenza strana, perché era un pezzo che non leggevo libri d’avventura. E c’è un motivo: questo, come altri del genere, è commerciale, banale e deludente.

Intanto non si scende nei particolari dell’agente patogeno, mescolando il concetto di virus con quello di batterio, senza dire quali organi va a intaccare per provocare la morte in diciotto minuti.

Poi c’è la solita caduta di tono delle coincidenze: guarda caso, Dirk Pitt, il protagonista bello-bravo-figo-intelligente-stallone ecc… sta insieme a una deputata che deve scegliere se appoggiare la richiesta di aiuti alla rivoluzione sudafricana; ed è proprio la guerra civile sudafricana che rischia di far detonare una testata batteriologica di cui Pitt ha scoperto l’esistenza per puro “caso”.

Questa è la coincidenza più evidente, ma ce ne sono altre che non meritano attenzione.

Altre cadute di tono? Questa, ad esempio: Pitt e la deputata vengono fotografati mentre fanno sesso, allo scopo di ricattare la donna e farla votare in un certo modo sulla questione degli aiuti alla rivoluzione sudafricana.

Dirk Pitt interviene e, ricattando a sua volta il ricattatore, risolve la questione. Peccato che non spieghino come abbia fatto lui a venire a conoscenza delle foto, visto che nessuno gliel’ha detto…? La questione non viene chiarita.

E poi, diciamolo, anche se dei morti non si può parlar male: Cussler era un lipofobico maschilista.

Le donne sono tutte belle, magre e assoggettate agli occhioni verdi di Pitt. Non ne scappa una. Se, di striscio, si passa davanti a una signora “in carne”, la si definisce obesa, lasciando intendere che è una casalinga frustrata che cerca di farsi passare la depressione entrando in una giostra dell’orrore.

Mi dispiace parlar male di un libro di Cussler proprio oggi che è deceduto, ma certe storie è meglio vederle sullo schermo che leggerle sulla carta.

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Una storia romantica – Antonio Scurati

Da un vincitore dello Strega mi aspettavo di meglio.

Sottolineo che questo è un romanzo storico, non lasciatevi fuorviare né dal titolo né dalla copertina di questa edizione.

La vicenda principale è ambientate nel marzo del 1848, durante le cinque giornate di Milano, ma viene rivissuta da uno dei suoi protagonisti, il senatore del Regno d’Italia Italo Morosini, solo nel 1885, quando lo stesso riceve un plico anonimo ove è narrato il tradimento ai suoi danni della moglie Aspasia col suo migliore amico, Jacopo.

Niente da dire sulla ricostruzione storica, né sulle licenze che l’autore si è concesso (e che ha espressamente elencato alla fine del volume). Lo stato d’animo del 1848, del popolo italiano (milanese) oppresso, della voglia di libertà e della confusione, morale e politica, di quei tempi, è reso molto bene.

Il linguaggio e lo stile ricalcano quelli delle opere dell’epoca. La ragione di questa capacità di resa storica è in parte dovuta al fatto che Scurati ha fatto largo uso di documenti originali con tanto di trascrizioni vere e proprie (minute di discorsi, lettere, libri, articoli di quotidiani…).

Bene si sente, dunque, la voglia di libertà e di martirio che si è impossessata dei milanesi di ogni ordine e grado davanti alle angherie del vecchio Radetzsky, e leggendo ci si infiamma per il tradimento del re Carlo Alberto, dopo che il popolo ha giocato il tutto per tutto sulla propria pelle.

Di più: leggendo, ci si chiede dove è finito il patriottismo di quegli anni, e che fine ha fatto l’amore per il suolo italiano che imbeve ogni parola dei personaggi. La dignità italiana, questa sconosciuta, dove è finita? (c’è mai stata? Italiana nell’insieme intendo, non piemontese o lombarda o veneta)

La debolezza del romanzo io la vedo nei protagonisti.

Forse il ricorso a documenti reali è una delle ragioni per cui i personaggi sono mossi da motivazioni deboli. I pensieri di Italo, Aspasia e Jacopo sono come segmentati, non sono ben legati tra loro; a volte perdo il nesso di causa ed effetto tra un pensiero e il successivo.

Già il fatto che Jacopo si innamori di Aspasia dopo averla vista pochi minuti (il tempo necessario per salvarla da uno stupro), è più romanticistico che verosimile. Però è il male minore: siamo nell’Ottocento, loro sono giovani, dai, ci può stare.

Ma guardiamo, ad esempio, agli spostamenti fisici dei personaggi: sembra che si muovano solo per andare in cerca dei luoghi in cui si svolgono le azioni principali e dove compaiono gli eroi più famosi.

Un altro esempio: Italo, ormai sessantenne, è appena venuto a conoscenza del tradimento giovanile della moglie. Che fa? Va al caffè a prendersi l’aperitivo e a leggere il giornale. Curati ci prova a giustificare questa ricerca dell’abitudine, ma il risultato è debole.

Oppure: un misterioso sconosciuto si siede vicino ad Italo al caffè e gli rivela che il suo amico Jacopo in realtà non è morto. E Italo che fa?

(…) profondamente scosso dopo aver sentito che quel tizio, anche se per errore, sosteneva di aver conosciuto Jacopo, era già pronto a rifugiarsi nuovamente nella lettura del giornale.

Insomma: ti hanno appena detto che il tuo migliore amico si è ciullato tua moglie; tu lo credevi morto, e invece uno ti dice che è ancora vivo. E tu che fai? Leggi il giornale. No. Mi dispiace: un romanziere dovrebbe rendere meglio la vicenda. Non dici che è “profondamente scosso” e subito dopo gli fai prendere il quotidiano in mano. Come minimo, devi fargli chiedere spiegazioni!

Insomma: la psicologia dei personaggi è sfalsata e frammentaria. Sembra un puzzle di emozioni raccolte alla rinfusa, ben descritte nella loro individualità ma collegate male.

Ho poi il dubbio, che nella foga di inserire testi originali, l’autore si sia lasciato trascinare la penna, e alcune parti, fossi io stata un’editor, le avrei bannate, considerando la sensibilità del lettore comune (se bisogna dar ascolto a tale sensibilità ai fini commerciali).

Però io non sono una editor e non ho neanche una cultura letteraria.

Qualcuno di voi lo ha letto? Che ne pensate?

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Le correzioni, Jonathan Franzen @Einaudieditore

Ora che l’ho finito, posso confessare (vergognandomene) che non ho letto questo romanzo tutto d’un fiato. Addirittura, l’avevo sospeso a metà, perché non sopportavo più le farneticazioni di Alfred e la depressione di Gary. Ma dovevo capirlo subito che quando i personaggi causano reazioni emotive così forti è perché lo scrittore è un grande scrittore.

La domanda del libro è: bisogna correggere le deviazioni? Dal buon gusto, dalla buona educazione, dal buon matrimonio, dal buon lavoro? E quanta vergogna è in grado di sopportare una persona quando quelle che lei considera deviazioni non vengono corrette?

Enid, alle prese con un marito col morbo di Parkinson, sogna di riunire i tre figli ancora una volta per Natale. Ma prima che il suo sogno si avveri, vediamo perché questi tre figli hanno difficoltà a tornare in famiglia, anche se solo per un giorno solo. Guardandoli con gli occhi di Enid, si vedono tre figli che non hanno raggiunto gli obiettivi classici del perbenismo americano: Gary è succube della moglie, nonostante sia ricco; Chip è rimasto senza lavoro perché ha sedotto una sua alunna e poi si è ingarbugliato in affari poco puliti; Denise è uno chef di successo ma è ancora confusa sulle sue preferenze sessuali.

Il casino di queste cinque vite sembra sia affievolirsi che gonfiarsi nella dimensione familiare. Ogni membro ha le sue difficoltà ad amare gli altri e a comprenderli, ognuno ha le sue difficoltà a dire quello che prova senza urlare o senza mettersi a piangere. E’ in questo che ho trovato molto verosimile la storia della famiglia Lambert: il dare per scontato certi sentimenti, il bisogno di nascondere le proprie deviazioni, per quanto insignificanti siano in un contesto più ampio.

La grandezza di Franzen si desume non solo dalla sua capacità di veicolare i temi generali attraverso una storia, ma anche da tante, tantissime frasi che mostrano come l’autore sia un acuto osservatore dell’animo umano:

(…) quell’anti-stile che le donne progressiste di una certa età ostentavano come emblema di identità femminista.

Non si intendeva di antiquariato o architettura, non sapeva disegnare come Sylvia, non leggeva come Ted, aveva pochi interessi e nessuna competenza. La capacità di amare era l’unica cosa che avesse mai davvero avuto.

Una persona è ciò che vuole.

(…) viaggiatori che per pazienza e isolamento sembravano più supplicanti da pronto soccorso che pendolari.

Chi di noi può dirsi esente dalla voglia di correggersi?

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