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Un diario per raccogliere indizi su un assassinio

Sto leggendo “Tutto ciò che resta” di T. R. Richmond (uno pseudonimo che nasconde un giornalista inglese di cui ignoro il vero nome).

Alice Salmon, giovane giornalista allegra e benvoluta da tutti, muore in una gelida sera di febbraio cadendo in un fiume.

Sembra un suicidio.

Un suo ex professore decide di raccogliere ogni tipo di testimonianza su di lei: articoli di giornale, cartoline, blog, email…

La storia, dunque, viene raccontata da fonti diversissime tra loro, ma più di tutto attraverso delle lettere che il professore scrive a un suo amico, attraverso mail tra lui e la madre di Alice, e attraverso spezzoni del diario della ragazza.

Riporto qua alcuni passaggi in cui Alice spiega come ha iniziato a scrivere il diario, dopo un tentativo di suicidio di cui si è subito pentita:

Questa è sta la prima pagina del mio diario, e ben presto scrivere si è trasformato in una dipendenza. Scrivevo nei momenti liberi, in treno, in autobus, davanti a Pop Idol e quando non riuscivo a dormire.

(…) Scrivevo ovunque e custodivo con estrema religiosità i miei sfoghi: i cartacei dentro scatole e i digitali nelle chiavette USB.

Sapevo bene che nessuno avrebbe provato interesse per il mio diario e che chiunque l’avesse letto avrebbe concluso che ero una folle delirante, ma non me ne importava. Riuscivo a respirare.

Mi colpiscono le sincronicità dei libri: oggi pomeriggio, infatti, prima di leggere questo passaggio, dopo anni che non li prendevo in mano, ho perso un’ora a leggere i miei vecchi diari. Quinta superiore, primi anni dell’università… E un’ora è volata via senza che me ne accorgessi.

Mi sono ritrovata a rivivere le sensazioni di venticinque anni fa e a ricordare eventi e frasi che avevo dimenticato (alcuni avrei voluto continuare a dimenticarli, ma vabbé).

Io ancora oggi, a 46 anni, tengo un diario. Non ho mai smesso da quando, a sei anni, ho trovato una vecchia agenda e mi sono presentata. Poi ho presentato la mia famiglia, poi i miei amici, poi le ho raccontato quello che succedeva: succedeva molto poco, ma dalla passione che ci mettevo, capisco ora quanto sia importante vedere le cose in prospettiva.

Perché i diari sono utili.

Non solo per lo sfogo che ti permettono di buttare sulla pagina senza rovinare rapporti personali (devo tenere a freno la mia emotività o faccio danni), ma soprattutto perché ti permettono di vedere la differenza tra quello che sei ora e quello che eri una volta.

Avevo dei sogni che non ho realizzato (mi sarebbe piaciuto vivere viaggiando), ma avevo anche delle paure che ora non ho più: e mi sono passate senza fare granché, semplicemente maturando con gli anni.

Faccio un esempio.

A sedici anni il sacerdote della parrocchia mi aveva convinto ad andare a fare l’animatrice a un camposcuola e a tenere un gruppo di ragazzini più piccoli di me.

Sappiate che io non ho nessuno slancio educativo: per me, o ti educhi da solo o muori. Ma Don Pietro è sempre stato gentile e gli serviva qualcuno che rappresentasse la nostra parrocchia nel camposcuola diocesano.

Inutile dire che, nonostante le riunioni di preparazione, per me fu un’esperienza pesante. I ragazzini non mi prendevano sul serio, non obbedivano, non ascoltavano, si annoiavano platealmente (mi sarei annoiata anche io al posto loro, con un’animatrice che non animava nulla).

Ma quello che mi ha fatto soffrire di più allora, e risulta ben chiaramente dal mio diario, è che nella riunione post-camposcuola fatta con i colleghi animatori, una delle animatrici anziane si è alzata per denunciare apertamente i sacerdoti che mandavano animatori incapaci.

Stava parlando di me (e della mia amica, anche lei senza esperienza e anche lei fattasi convincere dal nostro Don).

Nel diario scrissi “Ecco un’animatrice che si fa passare per ultra-cattolica, che va sempre a messa ad ogni festa comandata e che quando vede qualcuno in difficoltà che non appartiene alla sua parrocchia attacca come farebbe un animale con un animale proveniente da un altro branco”.

Ci ero rimasta proprio male. Soprattutto perché nei miei anni di gioventù ero molto attiva nelle associazioni parrocchiali e, come tutti gli appartenenti a una setta, ero convinta che i cattolici praticanti fossero, in ultima istanza, più buoni dei non cattolici.

Dunque questa animatrice che attaccava me (e che durante il campo-scuola non mi aveva mai preso in disparte per chiedermi come andava o se avevo bisogno di qualcosa, un consiglio o chessoio) era l’immagine simbolo del cattolico impegnato in parrocchia e, secondo la Serena di allora, doveva essere, per definizione, buona.

In gioventù si è manicheisti: sono tutti o buoni o cattivi, non ci sono vie di mezzo. Ma allora non lo sapevo.

Lo so adesso, che le persone sono molto complicate e piene di sfumature.

Questo non vuol dire che abbia perdonato quella stronza… ma se mi capitasse oggi, la prenderei in disparte e le chiederei, con un borioso atteggiamento taxidriveriano: ce l’hai con me? Eh? Ce l’hai con me?

Allora non l’ho fatto, perché pensavo che avesse ragione e basta. Ma adesso so che aver ragione non è sufficiente, se per esternarlo devi ferire le persone.

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L’amore molesto, Elena Ferrante @edizionieo @robadalettori

(English version: below)

Sono solo 170 pagine, ma sono dense di psicologia, luoghi, passioni e pensieri.

La madre di Delia annega la notte del 23 maggio, il giorno del compleanno della figlia. Non è chiaro se si tratti di suicidio, incidente o omicidio.

Delia lascia Roma e torna a Napoli per il funerale e per cercare di capire cosa è successo. Mentre ripercorre i luoghi della sua infanzia, salgono pian piano in superficie i suoi ricordi e ci permettono di ricostruire il passato della sua famiglia.

Veniamo così a scoprire che Amalia era una donna passionale, a volte civettuola, con molta voglia di vivere, che però veniva spesso picchiata dal marito gelosissimo. Che aveva un amico di lunga data, detto Catania, che frequentava anche in età avanzata. Che il padre di Delia aveva minacciato di uccidere la ex moglie solo una settimana prima della sua morte.

I ricordi però sono confusi, e non chiariscono del tutto il mistero della morte di Amalia. Pazienza: non è un giallo, questo. Vuole invece mettere sulla pagina una sofferta incomprensione tra madre e figlia, un rapporto in cui repulsione e voglia di immedesimazione si sovrappongono. E poi si parla di solitudine, tanta.

La Ferrante ha una bella scrittura che sonda nelle sfumature della psiche femminile come poche.

Però non mi piace molto l’immagine che dà degli uomini napoletani.

Io a Napoli non ci sono mai stata, ma i napoletani sono davvero così? Non se ne salva uno: tutti con tendenze violente, rozzi, con un’unica cosa in testa, sempre pronti a fissare nella scollatura delle donne, o a infastidirle nei mezzi pubblici, gelosi, braccano le sconosciute e i bambini per strada, fanno sesso con una che non vedono da trent’anni…

No, davvero, gente: è questa l’immagine del napoletano che vogliamo diffondere per il mondo?

Perché i libri della Ferrante sono tra i pochi libri di autori italiani che vengono pubblicati e letti all’estero. E io mi preoccupo, perché poi gli stranieri si fanno delle idee.

Inoltre, sebbene il libro mi sia complessivamente piaciuto, devo annotare una tendenza della scrittura della Ferrante che – secondo me – toglie un po’ di verosimiglianza ai suoi libro: le sue protagoniste pensano, sentono, ricordano molto. Però parlano poco, troppo poco.

Qualche parola, qualche frase smozzicata… le sue protagoniste me le immagino un po’ svagate, indecise sulle sensazioni da provare, sempre intente a studiare se stesse e gli altri. Donne che non agiscono per cause ed effetti, ma un po’ guidate dal momento, da sentimenti un po’ nebulosi…

So di toccare un mostro sacro, ma sono l’unica a pensarla così?


TROUBLING LOVE, by Elena Ferrante

The story takes place in Naple, where Delia comes back after 30 years for the funeral of her mother, who drowned the night of Delia’s birthday.

In a brief time Delia traces back her past: the violent father, the vivid mother, Caserta, the man who was perhaps in love with her mother, her uncle with one arm…

I never was in Naple, but I doubt that men there are very different from the men I know here in the North East of Italy. Ferrante’s men are all lustful, are always ready to touch women’s ass in buses, are violent and vulgar and have just one thing in their heads. No men in this book is safe from this stereotype.

Well, folk: this is not true, please.

Please: do not take this book as a realistic image of Italian male!!

Another thing that I do not like in Ferrante’s book is that her protagonists do not talk. Just few words or sentences, but in general, they seem absent-minded or too absorbed into their thoughts about themselves or other people.

That is true above all for this book, in Naple, where everyone is a chatterbox: here Delia seems an ET.

And you, abroad, have you ever read some of Ferrante’s books?

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