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La casa della gioia, Edith Wharton @CasaLettori

Lasciatemi un attimo, che mi riprenda dalla drammatica fine di questo romanzo…

Ecco, adesso ce la faccio.

Lily Bart è una bellissima donna della New York dei primi anni del Novecento. Viene da una famiglia caduta in rovina, è orfana, senza mezzi, ma è abituata al lusso e dotata di modi squisiti, e indispensabili, per l’alta società del tempo. Per queste ragioni, le signore se la contendono come fosse un trofeo da mostrare alle numerose feste della Saison.

Ma la vita che conduce, costringe Lily a spendere più di quello che la sua magra rendita e l’aiuto di una vecchia zia le permettono. L’unica soluzione davvero definitiva sarebbe sposare un ricco. E le occasioni non le mancano, data la sua bellezza e la sua grazia.

Eppure… eppure finisce sempre col mettersi nei guai. Parlerei quasi di autosabotaggio.

Perché Lily, in fondo, pur anelando ad appartenere a quel mondo pieno di luci, ne sente anche la vacuità.

Non è un personaggio facile, Lily. La sua smania di lusso me la fa sentire estranea, all’inizio: la nostra mentalità moderna ce la rende incomprensibile, soprattutto quando capiamo che si innamora del giovane e intelligente avvocato Selden, ma che non accetta di sposarlo perché lui non può garantirle il lusso che lei vorrebbe.

Pian piano Lily scende nella scala sociale, di gradino in gradino, fino a una delle infamie più dissacratorie: la necessità di lavorare per vivere (sob!!).

Lily Bart è un essere combattuto, che si comporta esternamente in un modo ma che, internamente, critica ciò che fa e le ragioni per cui è costretta a farlo. Le astuzie a cui si riduce per accalappiarsi i ricconi sono rese possibili dalla sua intelligenza e dalla sua capacità di indagare i fini ultimi delle persone; eppure tutto ciò non basta, e Lily finirà male. Molto male. Quando sembra che ci sia un filo di luce, un’ombra di redenzione… niente, finisce male.

Il finale tragico è inevitabile per due ragioni:

  1. l’orgoglio.
  2. L’educazione.

Sono questi i due diavoli che impediscono a Lily e Selden di capirsi; e sebbene le regole di quella società siano molto diverse dalla nostra, i moventi del comportamento individuale sono sempre gli stessi. Si cercano i soldi, per ottenere altro. Ma alla fine i soldi diventano lo scopo, e lo scambio tra obiettivo e mezzi diventa fatale.

Edith Wharton doveva fare la psicologa: certe sfumature emotive solo una psicologa (donna) poteva illuminarle così.

Solamente un neo nel libro: questa edizione è piena di refusi.

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Ritratto di signora – Henry James

Erano anni che leggevo solo romanzi contemporanei, e passare ad un autore dell’Ottocento è stato quasi uno shock culturale. Dopo poche pagine mi sono addirittura chiesta se ero ancora capace di leggere o se non mi fosse venuto un attacco improvviso quanto precoce di Alzheimer… ma alla fine ce l’ho fatta, e ci ho preso gusto.

Adoro l’ambiente descritto da James: gente che non deve lavorare per vivere e che può passare tutte le sue giornate a chiacchierare, viaggiare, leggere, visitare musei. Che invidia! E quanti miliardari oggi esistono che, non dovendo lavorare, si danno a questi piaceri?

La capacità di James di entrare nella psiche delle persone è inimmaginabile. E’ un grande nel giustificare i cambi di umore e nel descrivere i moti dell’animo. Le sfumature dei pensieri sono tratteggiate così bene che i personaggi sembrano persone reali, e James un chirurgo che sia entrato nelle loro teste per vedere cosa c’è.

La seconda metà del libro l’ho trovata molto più intrigante della prima, e sono caduta dal pero quando ho letto che Pansy non era la figlia della prima moglie di Osmond… ovviamente non ho visto nessun film tratto dal libro, ma ora sarei curiosa di vedere come un regista possa aver reso tutte le sfumature che rendono unico questo libro.

Il comportamento di Isabel, dall’alto della mia appartenenza al ventunesimo secolo, non lo capisco. Si sposta Gilberto Osmond perché si è lasciata irretire dalla sua doppiezza, e quando si rende conto che lui l’ha sposata solo per il suo denaro (è una ricca ereditiera), invece di lasciarlo… torna da lui. Perché?? Perché doveva accettare la responsabilità della sua scelta matrimoniale.

In realtà le ragioni di Isabel sono tutte ben sviscerate da James. Ci troviamo davanti un personaggio molto complesso, che all’inizio è bramoso di libertà e anticonformismo, ma che alla fine, per essere fedele a se stesso, sembra cedere proprio al conformismo. E non si capisce dove sta il limite tra rispetto delle apparenze e rispetto delle proprie responsabilità.

Così Isabel decide di essere infelice, di continuare a vivere con un uomo egocentrico che gode nel farla soffrire. E lo decide a dispetto di tutti i pretendenti che farebbero carte false pur di salvarla da quella situazione.

Non c’è lieto fine. La protagonista nel corso del romanzo non cresce, ma scende.

Isabel è diventata così reale, che quando finisci il libro continui a pensare a lei e a cosa si potrebbe dirle per convincerla a mollare quel sadico di suo marito. Però, pensandoci, alla fine la sua non è debolezza: non resta con Osmond solo per adeguarsi alle aspettative della società. Lo fa perché ha fatto una promessa, perché vuole assumersi la responsabilità della sua scelta. Nel bene e nel male, questa è la sua grandezza.

 

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