Tag Archives: Racconti pubblicati

Lettera ad Emily Bronte

Stonegappe 20 giugno 1839

Carissima Emily
Non inizio questa lettera chiamandosi Lavinia, stavolta: ogni riferimento alle letture che ad Haworth ci allietavano i sensi qui sarebbe tradito. Non solo durante il giorno i bambini non mi lasciano un momento di pace, ma Mrs. Sidgwick sembra sempre più determinata a rubarmi anche il tempo che vorrei dedicare a me stessa la sera: mi angustia coi suoi lavoretti come il gelo che d’inverno uccide l’erica nella nostra brughiera.
Perdonami se inizio questa lettera con tali sfoghi, e mi raccomando sempre di non dirne nulla a papà, ma mi accorgo ogni giorno di più che il lavoro di istitutrice non è il più adatto al mio carattere. Forse se i bambini fossero più dolci saprei adattarmi alla mancanza di libertà, potrei guardarmi le dita bucherellate dall’ago e dirmi: sì, posso continuare. Ma ogni giorno succede qualcosa che mi fa sentire la mancanza di casa come i fiori per un’ape.
Questa mattina sono entrata nella cameretta dei bambini per svegliarli: mi sono accostata alla finestra per aprire le tende – sono di velluto, rosso come la lingua di Keeper! – e quando la stanza si è illuminata di sole, ho visto che i letti erano vuoti. Puoi immaginare lo spavento! Mrs. Sidgwick è molto pignola negli orari e alla paura del ritardo si è aggiunto il terrore che i due monelli si fossero cacciati in qualche guaio. Non potevo chiamarli ad alta voce: nutrivo la speranza che si fossero nascosti nella camera degli ospiti, come fanno quando vogliono saltare lo studio del piano, e dovevo trovarli prima che la loro madre si accorgesse della scomparsa.
Ma quando sono entrata nella camera al secondo piano, quella col caminetto dai fregi in avorio di cui ti ho già scritto, l’ho trovata vuota. Le mani hanno cominciato a tremarmi. Sono scesa per la scala di servizio perché ho sentito che Mrs. Sidgwick stava salendo per la scada del salone: volevo cercare in cucina. Sono ghiotti di zucchero, soprattutto il piccolo, e hanno stretto alleanza con Mary, una delle serve, che in totale spregio delle direttive li rifornisce di zollette appena si allontanano dalla mia sorveglianza. Ma non erano neanche là.
A questo punto l’ansia si è impadronita di me. Se fossero usciti in giardino non sarebbero sfuggiti alle orecchie e agli occhi di Mrs. Sidgwick, perché quando si avvicinano alla fontana schiamazzano come cornacchie impazzite; e ad aggravare la situazione c’era il loro abbigliamento, perché di sicuro erano ancora in vestaglia.
Eppure, quando, facendo attenzione a non farmi scorgere dai signori, sono uscita in giardino, non erano neppure là.
Emily cara, solo tu puoi capire che fatica ho sopportato per non scoppiare in singhiozzi. Mi fa ancora male la gola da quanta saliva ho deglutito!
Allora ho cominciato a pensare come loro, a quale poteva essere il dispetto più grande che potevano architettare per farmi soffrire. E così li ho scovati: erano in camera mia, i diavoletti, e non immaginerai mai cosa stavano facendo, ancora in vestaglia, seduti sul mio letto: si erano impadroniti degli ultimi fogli che mi hai mandato e li stavano piegando e tagliuzzando per farne degli animali. Giocavano con la carta da lettere! Devono essersi intrufolati nella mia camera subito dopo che mi sono alzata, quando sono scesa in cucina a controllare se il loro porridge era pronto. Davvero non mi aspettavo una simile mancanza di sensibilità, non fino a questo punto, anche se sono solo bambini.
Perdona, ma ti devo chiedere di mandarmi altra carta da lettere, la sto finendo, e non posso restare senza l’unica possibilità di sfogo. Come vedi, ho ricominciato a scrivere in caratteri piccolissimi, proprio per consumarne il meno possibile. Mi sembra di esser tornata bambina, ai tempi dei nostri libricini in carta da zucchero: oh, come eri brava, tu, a legarli col filo!

Ecco, ho dovuto interrompere la lettera perché Mrs. Sidgwick mi ha fatta chiamare. Non trovava la cassetta del cucito. Lo sa che non sono io a riporre i suoi aghi e le sue mussoline, ma inizio a pensare che quando è seduta assorta davanti alla finestra che dà sul giardino, in realtà stia confabulando tra sé per inventare ogni tipo di scusa per privarmi dei miei spazi.
Ora basta! Non voglio più scrivere delle mie lamentele su Stonegappe. Le vacanze si stanno avvicinando e tra poche settimane potrò riabracciarvi (sic).
Sai già quando arriverà Anne? Nella sua ultima lettera si è dimenticata di scrivermelo.
Dimmi di Branwell: i tuoi silenzi su di lui mi rendono inquieta. Ho come l’impressione che tu non mi racconti tutto. Temo che il suo soggiorno a Bradford, più che giovargli, abbia deformato alcune tendenze del suo carattere. Va ancora spesso al Black Bull? Ti prego Emily, cerca di tenerlo lontano da quella bettola: Branwell cerca gli stimoli di Bradford in luoghi che mettono a rischio il morale di un giovane sensibile come lui.
Papà si sfoga, ogni tanto, oppure continua a mandar giù tutti i suoi pensieri amari? Lui e la zia nutrono, forse, ancora delle speranze su Branwell, ma io sono sempre più preoccupata. Se non fossi qui a farmi umiliare da queste persone, potrei stare accanto a nostro fratello e aiutarlo! So che ti sto appesantendo di responsabilità e che sei già incaricata ormai di tutta la gestione domestica, ma ti prego, Emily, ad Howarth sei l’unica che possiede la forza necessaria per prenderlo in mano quando sbaglia strada.
Stai attenta affinché non esageri con l’oppio. Anne mi ha scritto che Hardaker ha chiesto un saldo parziale per un conto che Brandwell continua a far crescere: non credo affatto che quelle pillole tengano lontana la tisi. Se piccole dosi possono aiutarlo a superare i momenti di depressione, Branwell deve anche imparare a farsi forte nel carattere senza ricorrere troppo spesso all’oppio. Cercherà di ammaliarti – gli riesce ancora bene, vero? – ma tu non lasciarti abbindolare: tienilo occupato, rispolveragli Wordsworth, fallo passeggiare… coinvolgi Tabby, se come immagino sei troppo occupata con la casa. Credo che lei non si sia mai sentita così inutile come ora che fa fatica a muoversi: forse lei e Branwell possono aiutarsi a vicenda.
Ecco, adesso la carta è davvero agli sgoccioli: riempio gli ultimi spazi, come sempre, chiedendoti di scrivermi. Sarà suggestione, ma la tua grafia fa entrare in questa casa un soffio di vento della nostra brughiera, come se l’aria di Howarth si intrufolasse nelle tue buste. A prestissimo, che le settimane si sbrighino a volar via e che le vacanze arrivino in fretta!
Tua Charlotte.

(2° classificato al concorso “De Leo-Bronte”, pubblicato in antologia, 2013)

Leave a comment

Filed under Libri & C.

Il sogno dell’incubo

Ecco il racconto segnalato:

Vivevo incastrato nei vostri cervelli come un evaso appeso al filo spinato. Passavo da una mente all’altra, in successione, senza poter mai essere me stesso. Mi si negava la possibilità di donare immagini di gioia quando ero felice o immagini di tristezza quando la mia anima piangeva. Ero obbligato dalle vostre fobie ad assumere forme che non si addicevano al mio essere ed al mio umore, ero costretto a incutere terrore perché la coscienza vi lacera le viscere.
Ero nauseato di essere l’emanazione dei vostri vizi, l’effetto abbietto dei vostri limiti; non volevo essere il fumo acre che si alza dalle vostre vite bruciate, né la melma che scende dai vostri occhi lacrimevoli! Volevo essere fuoco io stesso, anelavo a bruciare e creare luce, scaldare mani ghiacciate e trasudare energia: questo era il mio sogno, audace e naturale come il sangue nelle vene.
Io sono bellissimo, lo sono da sempre: ho la forza e la fragilità di una ragnatela, la plasticità della creta bagnata e un ventaglio di colori che l’arcobaleno mi invidia. Ma voi, voi siete sempre stati più forti: in voi la seta diventa bava di ragno, la creta si polverizza in fango secco e i miei colori si mischiano fra loro generando tonalità di marrone ed antracite che mi si fondono addosso come una divisa di gomma bollente.
Nella speranza di trovare menti pulite, sono entrato nei sonni dei vostri figli: almeno loro, privi della maledizione della parola, lasciavano che le mie metamorfosi perdessero le sfumature di orrore adulto. Visti da fuori, alcuni dei vostri cuccioli sono allettanti promesse di pace. Ma rimangono promesse non mantenute. Ricordo un piccolo, una notte, roseo, dal respiro regolare. Dormiva sotto una giostra di farfalle e api immote e mute che dondolavano sopra la sua testa. Ma appena mi sono accoccolato in quel corpicino caldo e quieto, qualcosa è cambiato. Sono comparse farfalle dai denti acuminati e api dagli occhi rossi: roteavano fameliche come cannibali attorno alla vittima di un sacrificio. O forse ero io a roteare in quel modo: ho sempre avuto delle difficoltà a riconoscermi nelle vostre immagini. Ne intuivo la forza devastante, ma io non la potevo convertire in gioia; udivo i vostri singhiozzi e vedevo i vostri sussulti, ma per quanto vivessi dentro di voi, non c’era alcuna fusione, alcuna intimità. Voi restavate voi stessi, e io mi deformavo come l’urlo di Munch.
Ero troppo stanco. Che vita era quella? Dovevo cercare altrove, osare qualcosa che nessuno dei miei simili aveva tentato prima. Una mattina, appena uscito da un cervello che mi aveva costretto a squartare un pollo idrofobo, vidi una betulla dalla corteccia scolorita. Dormiva nel freddo metallico di gennaio, attenta a non muoversi per non spostare l’aria gelida.
Una pianta non può avere rimorsi, paure, cattiverie, rimpianti: nessun alimento all’angoscia umana che mi imbruttisce, mi dissi.
Così quel tronco e quei rami diventarono, per un po’, la mia dimora. E per un po’ mi trovai bene, senza sussulti muscolari né cuori accelerati. Poi, però, un poco alla volta, mi accorsi che qualcosa non andava: le radici non assorbivano quasi più acqua, lo facevano a singhiozzo, con fatica, come se la linfa si fosse trovata a lottare con una forza di gravità ogni giorno più gagliarda.
E poi, fu come se un uomo avesse smesso di respirare: il panico. Ma un panico attutito, muto, che si incarnava in una vibrazione delicata che dalle radici si estendeva fino alle ultime punte dei rami. Era un panico rassegnato, il peggiore. Non si estendeva alle foglie, solo perché foglie non ce n’erano.
Poi mi guardai intorno per capire cosa stava succedendo e vidi che le altre betulle erano in agitazione. Delle gemme verdi spuntavano con le teste dai rami spogli: la primavera stava arrivando.
Uscii dal mio ospite come un demone sotto esorcismo: la betulla si stava svegliando. Mai – è una regola di vita per noi incubi – mai restare in un corpo quando il sonno è finito: per esso sarebbe la pazzia; per noi, la condanna a vita a una veglia sincopata.
Così mi ritrovai di nuovo nell’aria. Non volevo tornare in voi umani, e non potevo tornare nelle piante, che ormai si pavoneggiavano di verde. Ero in uno stato di semi-esistenza: per vivere, noi incubi abbiamo bisogno di qualcuno che ci abbracci e ci guidi; come le lucertole, non riusciamo a scaldarci da soli e, a lungo andare, la mancanza di un ospite caldo ci uccide. La simbiosi che mi derubava di me stesso e che vi faceva tremare di paura, mi permetteva di vivere.
Dunque dovevo scegliere tra due opposti: una vita deformata, o la morte; una vita imprigionata in qualche pianta impazzita o la morte. A ben pensarci, non di opposti si trattava, ma di modi diversi di morire.
Finché vidi lui. In mezzo a molti, eppure solo. Sferzato da schiaffi ventosi, eppure impavido. Colpito da mille storie, eppure apatico. Lanciato da forze estranee, eppure immoto. Che sia ignorato o l’oggetto di un’attenzione, lui ignora. Mi ignorò anche quando entrai in lui.
L’assenza di vita è la sua essenza e la mia salvezza. Questo sasso è diventato la mia casa. Quello che pensavo significasse “essere se stessi” ha perso ora ogni valore, è un bersaglio dai colori confusi. Non mi interessa più essere fuoco, perché il sole decide quando scaldarmi; non mi serve più emanare luce, perché il buio è riposante; non ci sono mani fredde da intiepidire, e non mi serve alcuna energia perché qui non c’è niente da compiere.
Vi guardo da qui mentre vi tormentate e lasciate ammuffire ogni momento di felicità: io non vi servo, fate tutto da soli. E ormai voi non servite più a me.
Qui non c’è niente, è un deserto racchiuso in un pugno. Eppure, io qui sto bene. Senza passioni né amori, io, qui, vivo il mio sogno.

1 Comment

Filed under Libri & C.

Una strega buona?

Posto qui il racconto risultato tra i vincitori del concorso CARATTERI DI DONNA 2012/13 di Pavia (me lo hanno appena comunicato) e che verrà pubblicato in un’antologia apposita all’inizio del prossimo anno:

Ci sono molti tipi di streghe, perché dipende dalla specializzazione che scelgono. La mia antenata Uberta era una strega tessitrice: distribuiva incantesimi a destra e a sinistra per mezzo dei tessuti che preparava al telaio.
Trovo scorretto chiamare strega una donna che usa la magia per guarire, ma nel ramo femminile della famiglia si è tramandata la leggenda di Uberta come una donna al limite estremo della bruttezza: chiamarla fata sarebbe stato ancora più scorretto.
A quel tempo le streghe erano tollerate come un male necessario: i loro nomi serpeggiavano di bocca in bocca quando la medicina ufficiale chinava la testa e i gesti di riconoscenza che seguivano le guarigioni dovevano essere il più discreti possibile.
Non starò ad elencare gli innumerevoli prodigi di Uberta, perché allora dovrei narrare delle magie di tutte le donne, madri e figlie, dell’infinita catena umana che mi lega alla nascita del mondo. Dirò solo che se un parto si rivelava più pericoloso del solito o se un eccesso di catarro rischiava di aprire le porte della tomba, le coperte e gli scialli di Uberta ripristinavano gli equilibri: i bambini nascevano senza pianti e i polmoni si spalancavano come corolle all’alba. La mia bis-bis-bisavola tornava poi alla sua baracca dove il giorno dopo, sulla soglia, compariva un cesto di uova, una zucca, un pollo.
I paesi accettavano le streghe solo se si rendevano utili e se non pestavano i piedi a nessuno. Uberta si attenne sempre a questo codice non scritto. Tranne una volta.
Lui era un giovane cavaliere appena tornato dalla crociata. Portava sul corpo le cicatrici dei mori e nell’anima gli squarci dei ricordi. Uberta lo trovò per terra nel bosco, urlante di incubi, col cavallo che osservava da lontano quel padrone così bizzoso. Era l’alba di un inverno impietoso: il cavaliere era coperto di sudore già brinato. Non apriva gli occhi, ma continuava a tossire e urlare come se dentro di lui fosse stato acceso un falò.
Uberta conosceva bene quel bosco: ci andava a raccogliere le ossa degli elfi che, tagliando e limando, trasmutava in piccoli bottoni per taumaturgici porte-enfant. Quando vide il cavaliere che scalciava sul sentiero, non perse tempo: si avvicinò alla vecchia quercia dal tronco cavo; là dentro c’era il ragno azzurro che le forniva il materiale per i tessuti. Ebbe con lui un breve dialogo – poche parole sconosciute ai più – e poi infilò una mano nel tronco: la ritrasse portandosi dietro un sottilissimo filo di seta lucente. Con due dita lo sollevò sopra la testa e poi lo lasciò fluttuare nell’aria. Quello non solo non cadde, ma nutrendosi della bava del ragno, si allungò in un garbuglio fosforescente che poi, con un fruscio garbato, si compose in un tessuto che della perfezione possedeva ogni angolo e lato.
Quando Uberta pose quella coperta sul cavaliere, lui si calmò di colpo, come se qualcuno gli avesse iniettato nel corpo un distillato concentrato di valeriana. Dormì molte ore di seguito con la strega accanto che lo vegliava. Aprì gli occhi che i gufi erano già svegli.
“Ah! Qual abominio commise tua madre per dare alla luce una figlia così brutta?”
Alla faccia della cavalleria! Ma Uberta, che nelle lunghe ore di veglia aveva fatto in tempo ad ammirare le sue ciglia brune e il naso egiziano, non si indignò per quel commento che non si discostava molto dalle parole a cui era abituata.
“Mio gentile… signore! È d’uopo ringraziare colei che si prende cura di un malato sconosciuto, tanto più se questo sconosciuto l’ha distratta dalla quotidiana raccolta erbacea con cui ella si nutre.”
Lui si accorse della coperta in cui era avvolto: leggerissima e trasparente, non poteva essere il risultato di mani umane.
Non ci mise molto a innamorarsi della mia antenata. Da quel giorno le visite alla capanna divennero frequenti, e il legame che li univa sempre più forte. Ma l’amore ha una componente di origine umana che è soggetta alle brutture del mondo.
Il cavaliere era il fratello di una marchesa molto gelosa. Quando le arrivò all’orecchio la notizia della relazione clandestina, le damigelle persero ogni controllo sui suoi capelli, che si increspavano e si ribellavano ad ogni tentativo di trattamento. Donna Ada, questo era il suo nome, si attaccava agli oggetti e alle persone come una ventosa; sembrava avere i palmi delle mani impastati di qualche misteriosa colla che nessun solvente poteva sciogliere. E se qualcosa, o qualcuno, le veniva sottratto, allora ne soffriva come se lo strappo le avesse scorticato la pelle lasciandola in carne viva.
Non fu difficile separare i due amanti: le bastò scegliere una guerra, una delle tante che scuotevano quei tempi, e lasciare che il fratello fosse sopraffatto dal suo senso del dovere. Donna Ada era armata di molte parole: le sceglieva con una minuzia luciferina, e quelle si insinuavano nella vittima e lavoravano dal di dentro. Il fratello in poche settimane, posto di fronte a quelle armi d’aria, divenne come un corpo d’annegato, col ventre che si muove e sussulta per gli osceni traffici che si volgono sotto pelle. Non poteva resistere. Partì senza neanche salutare Uberta, che seppe di lui solo leggendo nella trama dei suoi tessuti.
Passarono gli anni. Donna Ada riusciva a tenere lontano il fratello inviandolo da una guerra all’altra con una facilità che sconfinava nel ridicolo: a volte non serve la magia per esercitare un potere sugli uomini.
Uberta continuava con la sua vita, le sue guarigioni, la sua solitudine. Aveva affinato l’abilità al telaio e i suoi tessuti erano sempre più richiesti. Ma erano inzuppati di lacrime.
Un giorno andò da lei la fantesca di donna Ada.
“Il mio bambino ha dieci anni e ancora non parla. Ti prego, dammi qualcosa che gli eviti una vita disgraziata!”
Uberta aprì una cassa. Era piena di coperte arabescate con delicati ricami. Ne scelse una e la consegnò alla donna.
La guardò allontanarsi con una sorta di ribrezzo. Non era una sensazione infondata. La fantesca era stata mandata da donna Ada con una scusa: donna Ada voleva una delle coperte di cui tutti elogiavano le magnificenze, non importava se a tesserle era stata la sua antica rivale. Ma quando la serva le appoggiò il tiepido velo sulle spalle, al solo contatto con la pelle la coperta si sciolse e colò in uno stillicidio di lacrime.
Lo scoppio d’ira fu tremendo. Ne pagò le conseguenze la fantesca che subì il bastone gridando la sua innocenza. Donna Ada, con le lacrime di strega che le si asciugavano addosso, gridava oscenità e maledizioni come uno dei suoi stallieri. Ma man mano che la collera la lasciava senza fiato, le parole che le uscivano di bocca erano sempre meno decifrabili. Prima si confusero le vocali, e poi le consonanti caddero come morte: donna Ada, che della parola aveva fatto un’arma temuta e sopraffine, si ritrovò con una lingua così grossa che quasi non riusciva a chiudere la bocca.
Tutte le visite a corte e le feste furono cancellate. Donna Ada si rinchiuse in un’ala abbandonata del palazzo. Potevano visitarla solo la fantesca che la serviva e il medico di corte, che aveva inventato per lei un complicato sistema di tubi per farla mangiare col naso senza soffocare.
Fu così che donna Ada dimenticò il fratello. E il cavaliere, non più trattenuto lontano dalle parole e dai traffici della sorella, tornò da Uberta.
Fossi stata al posto della mia antenata, avrei lasciato donna Ada a rinsecchire tra quattro mura, a purgare col silenzio tutte le parole maligne che aveva pronunciato. Ma Uberta era di cuore morbido e si lasciò convincere dal suo uomo a farla guarire. Le mandò uno scialle. Lo aveva tinto con l’indaco dell’arcobaleno e nell’ordito erano intrecciate piume di usignolo che cangiavano sfumatura in base all’ora del giorno.
Tutti i visi si volsero al passaggio della fantesca che portava sulle braccia il capolavoro; era impossibile guardare altrove, gli occhi erano attirati dalla luce soffusa che scivolava dalle mani della serva. Donna Ada, che ormai temeva di doversi far tagliare l’abominevole pezzo di carne che le era cresciuto in bocca, sbalordì alla vista del dono.
Ma qui, per uno di quei capovolgimenti che accadono quando ci sono donne di mezzo, il lieto fine che sembrava vicino anche per la marchesa, svaporò.
Donna Ada rifiutò lo scialle e la magia che prometteva.
Scalpitò come un’ossessa davanti alla serva che voleva appoggiarglielo addosso, finché riuscì a farlo cadere nel fuoco del camino. Lo scialle, bruciando, emise un delicato profumo di rosa.
I motivi di questa reazione nessuno li ha mai saputi. Secondo alcuni aveva paura di un altro maleficio; secondo altri, non accettava favori dalla strega che le aveva rubato l’affetto del fratello.
Non lo so. Streghe o non streghe, le donne sono spesso incomprensibili. C’è una cosa che però noi della linea femminile della famiglia abbiamo imparato e che ci tramandiamo con il codice genetico: uomini, fidanzati e mariti rigorosamente figli unici.

2 Comments

Filed under Libri & C.

La sostanza delle cose, AAVV, Giulio Perrone editore

Ecco il mio racconto pubblicato nell’antologia edita da Perrone.

IL PRANZO
All’inizio del pranzo avevo trentadue anni, e Gloria trenta. Al caffè io ne avevo settantadue e lei settanta. Nessun rumore di accartocciamento delle rughe, né scricchiolii di ossa, eravamo semplicemente invecchiati nell’arco di un pasto.
Misi giù la tazzina: “Il caffè mi provoca bruciore allo stomaco”.
Gloria mi imitò: “A me dà la tachicardia,” disse.
Mi guardai le mani. Le macchie, del colore del fango secco, troneggiavano sui dorsi prosciugati; le unghie si erano ispessite e quella dell’indice si era leggermente curvata, come il becco di un pappagallo. Alzai gli occhi su Gloria: aveva dei punti neri sul mento e mi sembrava che il suo naso si fosse allungato e ristretto in punta.
“Mettiamola così,” mi disse, “Almeno siamo invecchiati insieme”.
Ridemmo, ma durò pochi secondi perché mi venne un accesso di tosse. Quando si calmò, guardai i resti del pollo sul piatto e le due foglie di insalata nella terrina: l’aceto sembrava averle corrose, come per una resa dei conti personale.
“Che ci sarà successo?” chiese lei toccandosi i capelli. Erano quasi tutti bianchi, e guardandola mi resi conto di quanto quel colore incarnasse un’assenza. Alzai le spalle: non sapevo cosa rispondere, così, per non restare in silenzio, le dissi: “Speriamo di non essere gli unici”.
“Di sicuro no, tutti invecchiano”.
“Ma non così in fretta!” obiettai. Tuttavia, nessuno dei due faceva il gesto di alzarsi per verificare di persona se quel fenomeno era stato riservato a noi o se si trattava di una nuova specie di malattia contagiosa.
“Mi sarebbe piaciuto avere dei figli,” disse Gloria.
“Ma come!” la interruppi. “Mi hai sempre detto che ti sentivi realizzata così, che ti bastavo io”.
“Sì, perché sapevo che i bambini non ti piacciono!”
“Quelli degli altri! Ma forse, se tu mi avessi detto la verità su come la pensavi…”
“Non c’era mai tempo di parlarne con calma,” si lamentò. La voce, da rauca che era diventata, ora scivolava pian piano in certi acuti che mi rendevano nervoso al di là degli argomenti che esprimevano. “Eri sempre così preso dal tuo lavoro,” continuò, “per certi discorsi ci vuole tranquillità”.
“Ora non ha più importanza,” le dissi per tagliar corto, “ormai devo essere in pensione!”
Restammo in silenzio per un po’. Si stava bene seduti: la stanza era calda e i rumori dell’autostrada sembravano essersi allontanati. Forse mi era solo peggiorato l’udito, ma quell’assenza mi sorprese come un piccolo dono.
“Cosa facciamo adesso?” mi chiese lei.
“Non lo so… parliamo”.
“Va bene. Comincia tu”.
A pranzo di solito ci raccontavamo le nostre mattina al lavoro: io ero imprenditore edile, lei impiegata in una ditta di trasporti. Ma in quelle due ore di pausa ci eravamo già detti tutto, così il silenzio si riprese il suo spazio.
“Non abbiamo più nulla da dirci,” ammisi.
“E’ perché siamo invecchiati troppo in fretta,” disse lei. “Ci è mancata l’esperienza di una lunga vita in comune”.
“Direi che ci è mancata proprio l’esperienza di una lunga vita e basta,” borbottai scontroso.
Ritorno spesso col pensiero a quei momenti. Gloria è morta un mese dopo, di infarto. Io sono ancora vivo, ma il mio corpo se ne è andato: quello che è rimasto, le braccia, le gambe, il tronco e la testa, lo hanno disteso su un letto, senza chiedersi se dentro c’è ancora qualcuno. Muscoli e nervi mi hanno abbandonato, e non mi parlano più, come in quelle famiglia in cui il marito esce a comprare le sigarette e sparisce nel fumo del mondo. Forse il mio corpo astrale ha seguito Gloria, forse è partito per qualche altra destinazione, non lo so. So solo che sono diventato un uomo-memoria. Non ho pensieri da aggrappare al presente, mi scivolano tutti giù nel passato, e sono troppo pesanti da riportare in superficie; così restano là, e io con loro. È un piccolo passato, il mio: un magma indistinto di giorni tutti uguali, lavoro, cibo, sonno, qualche viso. L’unico che risalta nel grigiore è quello di Gloria, ma resta sempre friabile: appena mi ci avvicino col ricordo, si sgretola, come se in realtà non l’avessi mai incontrata.

Serena Gobbo

Leave a comment

Filed under Libri & C.

Amori molesti

Amori Molesti

In questa antologia c’è anche un mio racconto. A chi è di Roma e dintorni, segnalo anche la presentazione, che si terrà sabato 18 febbraio presso i locali della libreria Mangiaparole libri e caffè sita in via Manlio Capitolino 7/9 alle 18.30.
A chi interessa, si può comprare anche qui .

Leave a comment

Filed under Libri & C.

La sostanza delle cose, Giulio Perrone editore

Il mio racconto dal titolo “Il pranzo” è
stato
selezionato per il volume che è nato dall’iniziativa Incipit d’autore e
verrà pubblicato dalla Giulio Perrone Editore nella collana L’Antologica.
Il libro viene presentato oggi 31 gennaio alle ore 18,30 presso il Foollyk in
Vicolo della Fontana, 1 Roma.
Interverranno la poetessa Gabriella Sica e l’editore Giulio Perrone.
Durante la serata alcuni dei racconti inseriti nell’antologia saranno letti
da Silvia Bilotti.

Il volume avrà un prezzo di copertina di 16 euro e potrà essere acquistato
durante la serata oppure ordinato mezzo mail a:
redazione@giulioperroneditore.it.

Pubblicherò il racconto in questo blog a breve!

Leave a comment

Filed under Libri & C.

Il televisore di Nonna Rosa

Nonna Rosa non capiva che il televisore non conteneva nessuno.
“Ma quante persone ci stanno là dentro?” chiedeva ogni volta che ci passava davanti.
“Neanche una, nonna: non sono là, sono da un’altra parte. Pensa a uno specchio: non c’è nessuno dietro il vetro.”
Lei alzava le spalle perplessa e proseguiva la sua strada in direzione del corridoio o della camera: non si fermava mai davanti al televisore acceso, diceva che si sentiva osservata: “Mi guardano. Per cosa ci siamo portati a casa tutti questi guardoni, non lo so!”
“Mamma, nessuno ti sta osservando; fanno il loro lavoro e non ti possono vedere,” cercava di spiegarle il figlio.
“Fingono di non guardare, poi quando spegni spettegolano tra di loro sulla nostra carta da parati.”
Nonna Rosa spolverava in continuazione, da quando si alzava alla mattina a quando andava a letto la sera: teneva lo straccio sul comodino, non fosse mai che si fosse svegliata di notte e si fosse accorta di un velo di polvere sopra il comò. Lo passava su ogni mobile della casa, in orizzontale, in verticale e in diagonale, alternando strofinamenti energici con movimenti più delicati, quasi ci fosse bisogno di attivare la circolazione su una superficie di legno o di formica. Avrebbe spolverato pure i nipoti, se avesse avuto le gambe ancora abbastanza forti per rincorrerli. Eppure il suo straccio non aveva mai sfiorato il televisore. Lo evitava come se i materiali di cui erano fatti, avvicinandosi l’uno all’altro, avessero potuto innescare un processo a catena che si sarebbe risolto in un fungo nucleare.
Nonna Rosa si era dichiarata sempre contraria all’acquisto del televisore. Era di carattere piuttosto mite e sorprese la famiglia intera quando urlò con tutto il fiato che i comunisti sarebbero entrati in casa attraverso la “scatola maledetta”. Il figlio e la nuora litigarono con lei per mesi e mesi, poi un giorno comprarono il televisore e lo portarono in casa senza preavviso. Nonna Rosa, troppo orgogliosa per ammettere la sconfitta, si limitò a dichiarare che quella del Bar Da Mimmo era più grande, e da allora non alzò più la voce. Però da quel momento si sentì investita di una missione.
Il pericolo comunista, la guerra nucleare e i cinesi erano piombati in salotto e lei si era assunta il compito di vigilare sull’incolumità della famiglia: l’”affare” non usciva mai dal suo campo visivo quando era accesa. Spostò il crocifisso dalla cucina al salotto davanti alla “scatola del diavolo” a mo’ di esorcismo e quando venne il prete a Pasqua, la fece benedire: “Don Gino, abbondi pure con l’acqua santa. Se serve, ne ho ancora dentro l’armadio”.
Le sue amiche Clotilde e Stefania, due vedove che passavano a trovarla ogni domenica dopo la messa, la invidiavano profondamente per quel lusso fuori dal comune che il figlio aveva potuto permettersi in qualità di notaio del paese: loro erano ancora costrette ad andare Da Mimmo perché con la pensione non potevano pensare a pazzie del genere. Invano la nonna aveva cercato di convincerle della pericolosità dell’”affare”: le due donne si lanciavano un’occhiata tra loro e, una volta fuori, andavano a dire alla fruttivendola che la Rosa “da finta modesta s’è montata la testa!”.
Ma lei, pur sapendo delle chiacchiere che giravano alle sue spalle, non si scomponeva e continuava la sua lotta casalinga: “Abbassa il volume!” ordinava ai nipoti se sentiva nominare il nome di “Cruscef”, mentre se il telegiornale accennava al “Chennedi” o al Papa, il volume non era mai troppo alto. Il tutto senza mai posare gli occhi direttamente sul televisore. “Cosa interessa a me di quello che fanno nel paese dei guai…”, borbottava mentre spolverava le gambe del tavolo.
“Paraguai, nonna. E questo è un quiz, serve per testare la cultura”, le diceva Giacomo, il nipote più grande.
“E’ lo stesso. A me basta sapere se domani piove, altrimenti devo bagnare le zucchine. È l’unica coltura che mi interessa.”
“Questo la televisione te lo dice, basta ascoltare le previsioni del tempo.”
“Non mi serve la televisione. Mi basta il colore del tramonto, ho sempre fatto così, così faceva mio padre e così farai tu.”
“Ma nonna, io lavoro alla Fiat…”
“E allora? Non c’è il cielo, sopra la Fiat?”
L’ultima parola ce l’aveva sempre lei.
Un giorno arrivò suo marito. La nonna era vedova da vent’anni, ma all’uomo non interessava: arrivò lo stesso e si presentò nel peggiore dei modi possibili, chiamando la moglie dallo schermo della televisione. “Rosa!”
La nonna stava spolverando la terra dei ciclamini con lo straccio della domenica, e quando riconobbe la voce si raddrizzò sulla schiena. “Rosa, ancora questa fissazione della polvere! Guardami, Rosa.” La donna non si mosse. “Cosa ti prende? Sono due decenni che non mi vedi e non mi senti, non ti sono mancato?”
“Mi sei mancato e mi manchi ancora, ma non sono questi i modi di presentarsi.”
“E come dovevo venire? Sono morto, non te lo ricordi?”
“I morti restano nelle bare, non entrano negli affari elettronici. Non potevi apparirmi in sogno come fanno tutti i mariti delle mie amiche?”
“Soffri d’insonnia, e quel poco che dormi, sogni sempre polvere, stracci e nipotino, per me non c’era posto.”
“Va bene, va bene. Ti serviva qualcosa?”
“Volevo salutarti, farti sapere che dove sto, sto bene, e lasciarti qualche numero da giocare al lotto, come fanno tutti i defunti di solito, no?”
“Non mi puoi raccontare com’è il paradiso? San Pietro ha davvero la veste bianca e la barba lunga come i quadri in chiesa? E gli angeli hanno le ali?”
“Non ho detto che sto in paradiso. Ammetterai che è anche un po’ colpa tua, mi hai fatto saltare in aria abbastanza spesso, ma qui non si sta male. Si prega tutto il giorno: è rilassante. Tra un po’ dovrebbero promuovermi.”
Nonna era devota ma non era mai diventata bigotta, e a questa uscita del nonno storse il naso: se si prega tutto il giorno, chi pulisce il purgatorio? Chissà che polvere, da quelle parti, pensò. Il buonanima le lesse nel pensiero: “Se devo essere pignolo, neanche questa televisione è uno specchio!”
Questo la punse sul vivo: “Non si spolvera la spazzatura.”
Il nonno, che neanche da vivo capiva mai quando doveva mollare la presa, le rispose: “Ma prima stavi spolverando il vaso dei ciclamini!”
“Spolveravo la terra, toglievo i pilucchi. Bisogna rispettare la terra, è quella che ci dà da mangiare.”
“Qua hai ragione.” Ci fu un momento di silenzio, poi il nonno ricominciò: “Dimmi, te li ricordi i miei pomodori?”
La nonna fece un sorrisetto. Cominciò a spolverare i petali bianchi che si piegavano sotto lo straccio come bambini ubbidienti, e poi disse: “Certo che me li ricordo… sai che non abbiamo più l’orto? Tengo solo una pianta di zucchine sul balcone, e anche quella me la fanno sudare ogni anno, perché dicono che fa troppe foglie e quelli di sotto si lamentano. I pomodori ora li compriamo. Sanno di vernice secca.”
“Nonna, con chi stai parlando?”, chiese Luigino, il nipote di quattro anni entrando.
La donna si alzò in piedi e, per la prima volta dopo anni, posò gli occhi sul televisore. Lo schermo traballava di righe bianche e nere mandando un ronzio da vespa stanca.
“Da sola. I vecchi parlano sempre da soli.”
“Ah…” disse Luigino deluso. “Pensavo parlassi col nonno”, e si buttò sul divano a giocare con la Playstation.
“E tu che ne sai del nonno, se non lo hai mai conosciuto?”
“Dal vero no, ma ogni tanto chiacchieriamo attraverso il televisore.”
La nonna trattenne un risolino. Il vecchio aveva sempre desiderato un nipote, perciò non si poteva fargliene una colpa se si era presentato prima a Luigino che a lei. I ciclamini ormai brillavano di luce propria, le zucchine le aveva innaffiate al mattino, la cena era pronta e la nuora aveva già stirato le camicie: non c’era niente altro da fare. La donna ripiegò lo straccio rassegnata.
Lo schermo sfrigolò in un balzo da zebra imbizzarrita, e si spense da solo. Nonna Rosa si avviò verso la cucina, lentamente, come se i piedi fossero stati magnetizzati e il pavimento di ferro. Poi cambiò idea e si fermò davanti al televisore. L’apparecchio era più grosso di lei e lo schermo bombato ricordava la pancia di un Buddha privo di ombelico. Lo straccio le cadde dalle mani e si allargò sulle piastrelle: i riflessi cangianti della stoffa tradirono la sua natura setosa e la nonna arrossì. Quella blusa era un regalo da parte di sua sorella per il matrimonio, ma lei non l’aveva mai indossata perché troppo lussuosa per una contadina del basso Polesine che si alzava al canto del gallo e andava a letto con le galline, trascorrendo il tempo intermedio tra orto e pollaio, avvolta da puzza e penne. Quando si trasferirono in quell’appartamento, poi, lei era ormai troppo gonfia di grasso e di anni per poter indossare un indumento del genere. L’aveva conservato per ricordo e poi lo scelse come straccio della domenica, tanto per tenersi quel poco di lusso da santificare le feste. Però restava una blusa di seta, e se l’avesse indossata a una sagra dell’epifania, le comari se la sarebbero mangiata con gli occhi.
“Un libretto di istruzioni ci vorrebbe, per certe cose…”, disse tra sé.
“Stai parlando con me?” chiese Luigino senza alzare gli occhi dalla Playstation.
“No. Ti ho detto che i vecchi parlano da soli!”, e iniziò a spolverare il televisore in orizzontale, verticale e in diagonale, con strofinamenti energici o con movimenti più delicati, come se sotto lo straccio ci fossero alternati, il Papa e “Cruscef”.
A Luigino si bloccarono i pollici sui tasti: “Nonna! Che fai?”
“Voglio vedere se la prossima volta tuo nonno si lamenta ancora che il televisore è impolverato!”
Luigino rise, la paralisi dei pollici gli guarì all’improvviso e lui tornò a esercitarli sui tasti della Playstation, come se un morto che parla dallo schermo televisivo fosse la cosa più naturale del mondo.

Serena Gobbo (racconto vincitore dell’edizione 2011 del Premio Guareschi)

Leave a comment

Filed under Libri & C.

Solstizio d’inverno

In questi anni, ho raggiunto una convinzione, mi si è cucita nella carne come un punto a giorno: che la mancanza di dialogo non è silenzio, ma, all’opposto, è un eccesso di parole. Frasi gonfie, cotonate come la testa di una vecchia nonna, intrise d’aria; ma è una convinzione che Tommaso non condivide. E allora ho iniziato a tenere un diario, per non perdere la fugacità di certe emozioni, perché la mia gabbia toracica ormai lascia scappare i prigionieri e ho paura che dietro le costole, novelle sbarre d’osso, non rimanga che l’aria dei polmoni. Se continuo così, avrò bisogno di un motore di ricerca al computer che mi definisca, perché io non sarò più in grado di farlo da sola.
Tommaso non vuol essere maleducato, e non può rifiutarmi parole: troppi libri, troppe trasmissioni televisive, troppi amici, troppi psicoterapeuti ti sfracellano la testa dicendoti che il dialogo è importante. Pagine e pagine di saggi, ore e ore di spiegazioni, per farti capire che senza comunicazione la coppia marcisce. Ma la parole non sono dialogo.
Ecco, il rapporto con Tommaso sta marcendo perché parliamo degli operai disoccupati, dei colleghi pigri, dei vicini ricchi, dei parenti morti; e non parliamo di noi. Quando torna dall’ufficio saluta senza guardarmi: sono una casa da cui è caduto il numero civico e che il postino ignora.
I primi anni di matrimonio, appena tornava, veniva a darmi un bacio e, succhiandomi con gli occhi, mi chiedeva com’era andata la giornata. Ora, durante la cena ascolta il telegiornale, ci stanno mandando in malora, i politici e i soldi, gli industriali e gli operai, gli assassini e le vittime; torna da me solo per informarmi che la pasta è scotta o per chiedermi del formaggio. Dopo cena si va a trovare qualcuno: ci portiamo dietro i cavalletti per allestire il palco del teatro su cui reciteremo, e parliamo del mutuo, dei fiori, del tempo. La sera a letto Tommaso legge. Non leggeva prima di incontrare me: sono stata io a iniettargli questo vizio, e quando entro in camera non vedo il suo viso dietro la copertina, tutta la stanza mi appare come una cornice da cui hanno tolto il quadro.
Forse in un momento di distrazione ho perso il mio corpo, e quello che in questo momento sta pensando è solo una volontà senza voce. Forse viviamo, Tommaso ed io, in due dimensioni diverse, che si sfiorano quando si ricorda che il mio ciclo è finito e che dobbiamo fare l’amore, come da contratto. Forse il tempo in cui io vivo è troppo lento, mentre il tempo in cui vive lui continua a correre alla velocità del resto del mondo, e intanto un’aura di predestinazione ci avvolge, come un nugolo di mosche aspetta che un corpo in agonia si trasformi in cadavere.
Mi pare di essere un disegno a carboncino senza lacca: ogni tratto del mio viso si attenua quando Tommaso mi passa vicino senza vedermi, l’aria che sposta ruba un po’ della mia essenza e la trasporta altrove come polline sterile. Alla fine di me resteranno solo delle sfumature senza forma. Intuisco che dietro questi giorni c’è qualcosa che puzza, come pus che smania di scoppiare, separato dall’aria da un sottile velo di pelle stanca.
Il mio corpo è un involucro che contiene lacrime: a volte tracima, ma Tommaso sbuffa e mi dice di non piangere. Gli dico: “Non parliamo mai!” e lui mi risponde: “Come non parliamo mai? Va bene, ora sono qui, di cosa vuoi parlare?” e mi guarda interrogativo con le braccia conserte. Lo osservo e i momenti in cui lui mi sorrideva diventano dei ricordi su un banco di oggetti smarriti. In realtà lui non sta guardando me, perché sulle sue pupille è impressa a fuoco l’immagine di quella che ero una volta, e questo marchio gli impedisce di vedere la donna che ha davvero davanti. Crede di vivere con una persona ben definita, come un pezzo di stoffa tagliato con la forbice: non immagina che le mie fibre sono state strappate da un solstizio d’inverno che è arrivato senza preavviso, sbucando da una curva a ottanta all’ora. Ho solo sentito il botto, e poi mi sono accorta che la mia mano era vuota, come tutto il resto del mio corpo. Continuo a sentirlo, quel botto.
Nessuno ha capito la crisi isterica che mi ha sconquassato quando mia suocera, vedendo me apatica e la casa in agonia, ha pulito lo specchio, quello grande, dietro l’anta dell’armadio. Nessuno si era accorto di quella piccola impronta sul vetro in basso a destra, con le corte dita aperte, come in segno di saluto. Quella era la mano che tenevo nella mia quando l’inverno è arrivato e me l’ha rubata come un abile borseggiatore senza scrupoli. E pensare che lo rimproveravo ogni volta che decorava con dita unte gli specchi! Quando lo straccio di mia suocera compì lo scempio, irrimediabile come la prima morte, ho iniziato a urlare. Nessuna parola di senso compiuto, perché nulla aveva più senso. Solo urla. Neanche il suo nome pronunciai. Solo urla. Tommaso continuava a dirmi “calmati, devi stare calma!”, ma non mi spiegava perché dovevo smettere, mi sembrava un ordine assurdo e in mancanza di una buona ragione per fermarmi, io continuavo ad urlare. Finché non chiamarono un medico per sedarmi. Da allora ho smesso di urlare con la voce.
Non vivo con un marito, ma con un ricordo. Questo matrimonio è un regno in cui il re è morto e la notizia è stata tenuta segreta: si vive seguendo veline stampate da una macchina che continua a girare, e nessuno si preoccupa della successione. Perché bisogna mantenere l’ordine. Perché non bisogna creare il panico nel regime.
Strano.
Ricordo com’era lui: prima di sposarci era mio marito; ora è solo il mio compagno: dal latino, cum panem, colui col quale divido il pane. E la pasta, e lo spezzatino. Ma non ricordo com’ero io. E allora forza, ricordo-Lazzaro: alzati, cammina! Dei barbigli di vita mi solleticano l’apatia, e forse ho capito: ero intelligente. Perché l’intelligenza dipende dalla curiosità, e non ci può essere curiosità senza fiducia. In me stessa, prima di tutto, che sussulto passando davanti alle vecchie del paese quando le sento dire: “Quella è la moglie di… è la figlia di…era la madre di…”. Ho un nome, e un cognome, ma passano inosservati. La paura di mollare tutto è un sentimento che mi tiene in ostaggio: una sindrome di Stoccolma da cui vorrei guarire.
L’inchiostro con cui ho scritto il passato ormai è secco. Ma posso ancora scegliere l’inchiostro per scrivere il mio futuro. Non chiederò aiuto a Dio. Dio poteva scegliere se farmi nascere col sorriso o con le lacrime. Avevo il cinquanta per cento di possibilità di venire al mondo mostrando le gengive in un sorriso di saluto a chi mi accoglieva. Sono stata sfortunata.
Sono qui, ora, che spreco nuovo inchiostro cercando metafore e similitudini per descrivere il mio umore, come se si potesse descrivere la forma di un fluido; eppure sento il bisogno di trovare una forma ai miei stati d’animo, e mi pare di riuscirci quando la carta imprigiona il liquido blu. È come se i miei sentimenti fossero dei liquidi che si agitano tra le pareti di un corpo dalla forma rigida. Ho un volume, delle dimensioni, occupo il mio spazio, do anche fastidio; sono un solido tra altri solidi. Per diventarlo mi è bastato toccare quel freddo che il solstizio d’inverno mi ha lasciato dentro, e in un attimo ho cambiato stato. Però è una forma che anela al disgelo. È una forma sbagliata.
Quando inizieranno ad allungarsi le giornate?

Serena Gobbo (Pubblicato nell’antologia “Amori Molesti”, La Riflessione editore, 2010)

Leave a comment

Filed under Libri & C.

Gli zoccoli rubati

Ai miei tempi, quando le mutande erano vecchie, non si buttavano, ma se ne cambiava l’elastico. Avevamo un solo paio di zoccoli per tutta la famiglia e li indossavamo a turno per la messa della domenica, senza badare se andavano bene in punta o se non slanciavano i polpacci alle donne. Solo il papà aveva diritto a tenerli durante la settimana.
Oggi si dice “largo ai giovani” ma quando ero giovane io, nessuno mi ha mai detto “prego, vai avanti” e così sto in coda adesso che sono vecchio e stavo in coda pure quando avevo vent’anni. Nessuno mi ha mai regalato nulla. Tranne il figlio del calzolaio. Si chiamava Aldo e aveva la mia età, ma a scuola non ci veniva quasi mai perché diceva che per fare buone scarpe non serviva né leggere né scrivere.
Andavo a trovarlo ogni pomeriggio: lui era sempre nella bottega del padre, con le mani e il mento appoggiati al deschetto, e non perdeva di vista nessun movimento del calzolaio. Sembrava respirare al solo scopo di ricevere un suo cenno: “Passami le tenaglie per gli occhielli” oppure “dov’è il punteruolo?”: l’aria non faceva in tempo a smettere di vibrare di quella voce, che l’attrezzo gli era già arrivato in mano. Non capivo tale venerazione per un lavoro che dava appena da campare. Il ciabattino stesso doveva avere qualcosa di strano nel cervello: lavorava borbottando in continuazione Ave Marie e Pater Noster, un colpo di martello e un kyrie eleison, una punzonata e un Mater Dei. In paese lo conoscevano tutti, era sempre stato così, tanto borbottante lui quanto taciturno il figlio.
Andavamo spesso a pescare insieme, lui ed io. Aldo era più fortunato di me: zitto e attento come un cane da riporto, i pesci sembravano cercarlo e alla sera riusciva a portare a casa un discreto pasto, mentre io restavo con la canna in mano, immobile e concentrato quanto lui, riducendo al minimo il respiro, convinto che fosse l’aria che mi usciva dai polmoni a spaventare le prede. Un giorno Aldo mi disse: “E’ inutile che stai fermo come una gallina che cova le uova”. Di solito parlava poco, le parole gli uscivano come latte da una mammella di mucca e bisognava strizzare l’argomento giusto per farne uscire frasi veloci e risolutive, che dessero soddisfazione. Se però il discorso non lo interessava, il secchio restava vuoto. Avevo l’impressione che la pesca, per quando un buon passatempo, non fosse tra i suoi argomenti preferiti, ed ero abituato ai suoi silenzi, per questo mi stupii del commento.
“Se non pigli pesci è per via degli zoccoli”, aggiunse.
“Ma io sono scalzo!” commentai.
“Appunto”. Non capivo, e lui mi spiegò sottovoce e di malavoglia che i pesci vanno da quelli che hanno i piedi coperti perché hanno l’odorato sensibile e la puzza dà fastidio anche sott’acqua. “E gli zoccoli tuoi non fanno uscire la puzza?” obiettai poco convinto.
“Fai a meno di crederci, eppure è così. Che altro motivo ci può essere per spiegare che io prendo pesci e tu no?”
Pensai alle esche, ma usavamo vermi raccolti da una stessa buca; pensai agli ami, ma erano prodotti con lo stesso fil di ferro. Forse ha ragione, pensai, ma non mi andava di dargliela vinta così lasciai perdere. Eppure non ci dormii la notte. Il pomeriggio successivo, mentre in famiglia tutti si riposavano, presi gli zoccoli che erano appoggiati sulla cassapanca in cucina: sapevo che avrebbe dovuto prenderli mio padre per andare sul campo, ma contavo di rimetterli al loro posto senza farmi vedere in modo che poi, tra tutti e otto i fratelli, non si sapesse a chi dare la colpa del furto. A mio padre non sarebbe successo nulla di grave per un pomeriggio scalzo. Quella volta andai a pescare da solo e, con mia grande meraviglia, i pesci abboccarono felici quasi quanto me. Col cestino pieno, poi, corsi a casa di Aldo: “Avevi ragione! Avevi ragione: erano gli zoccoli! Guarda qua!” e gli mostrai il bottino. Lui era appeso al deschetto: degnò di uno sguardo appena i miei trofei e commentò “Te l’avevo detto” per poi tornare a osservare il ciabattino al lavoro nel suo borbottio clericale. Padre e figlio erano particolarmente seri, ma io, esaltato com’ero, non ci feci caso. Solo tempo dopo, ripensando a quella scena, mi accorsi di quante poche calzature ci fossero quel giorno nella bottega. Tornai a casa di corsa e piombai in cucina tenendo aperto il cesto, urlando a tutti “Guardate! Guardate qui! Stasera si mangia pesce!”. In effetti tutti si girarono a guardarmi. A quell’ora la famiglia si riuniva in cucina in attesa della cena, ma i loro occhi scivolavano dal cesto per cadere ai miei piedi: nella foga avevo scordato la prova del delitto. Mia madre si premurò di prendermi il cesto dalle mani; io rimasi con la testa bassa e le braccia lungo i fianchi a guardarmi gli zoccoli, finché non arrivò mio padre a fare quello che c’era da fare. Ne presi così tante che il sedere, dopo settant’anni, mi pulsa ancora.
Il giorno dopo mi meravigliai di trovare Aldo in classe: “Che ci fai qui?” gli chiesi, ma mi rispose con un’alzata di spalle. Tornò anche i giorni successivi. Pensai che volesse abbandonare la velleità di diventare ciabattino e non ci pensai più finché una mattina, finita la scuola, i tre compagni che, oltre a lui, venivano con gli zoccoli, si ritrovarono a piedi scalzi. Di solito li lasciavano fuori della porta perché al maestro dava fastidio il rumore di legno sul pavimento, e poi li riprendevano prima di tornare a casa. Ma quella volta le quattro paia erano sparite. Notai subito che Aldo era scivolato fuori dall’aula per primo e mi chiesi se pure a lui avessero fatto lo stesso scherzo, così pensai di andare a trovarlo. Come al solito era insieme al padre. Il piano di lavoro era insolitamente spoglio, vedevo solo l’uomo di spalle che borbottava le sue litanie, ed Aldo che mi guardò entrare senza salutarmi. Mi avvicinai ai due il necessario per scorgere, sotto le mani del ciabattino, gli zoccoli di Manzetti, uno dei compagni rimasto scalzo. Stavo brucando immobile quella visione con gli occhi spalancati: sotto la suola era stato messo uno strato lattiginoso, forse gomma e l’uomo stava martellando dei sottili chiodini per fissare la tomaia nuova. Il ciabattino interruppe l’Ave Maria, mise giù la calzatura e il martello e mi chiese: “Che ne dici, cambiamo la mascherina?”
Vedendo che non avevo capito, mi spiegò: “La punta. Vedi com’è rovinata? Questa non dura tanto e le dita dei piedi sono quelle che soffrono di più il freddo d’inverno. Non ho abbastanza materiale per rifarne un paio nuovo, ma tre mascherine saltano fuori.” Fece una pausa e poi aggiunse: “Chiudi la bocca e rispondimi.”
Ubbidii all’istante facendo schioccare i denti tra loro e sigillando le labbra, poi mi ricordai di annuire. Rimasi là tutto il tempo che ci volle per risuolare gli zoccoli e rinnovare le mascherine, poi, una volta finito il lavoro, l’uomo li consegnò al figlio e uscì dalla bottega: me lo ricordo così, che se ne va di spalle seguito nell’aria dai suoi benevoli santi e madonne, come un orso che si trascina nella tana per gettarsi esausto nel letargo.
“Ma perché non hai chiesto ai nostri compagni se volevano sistemarsi gli zoccoli?” chiesi ad Aldo quando restammo soli.
“Sapevo che non avevano i soldi per pagare”, rispose.
“Vuoi dire che tuo padre ha lavorato gratis… di proposito?”
“Sono così tanti quelli che non lo pagano, che non cambiava granché. E comunque, non aveva niente altro da fare.”
Guardai la bottega: prevalevano i colori legnosi e scuri, ma solo allora notai che ciò era dovuto alla mancanza delle pelli e degli strumenti, ad eccezione di quelli che erano serviti per le quattro paia di zoccoli. “Smette di lavorare?” chiesi.
“Gli tocca. Il dottore gli ha detto che è molto malato e che deve andare in montagna per non si sa quanto tempo. Così non ha più accettato lavori nuovi e un po’ alla volta ha svuotato tutto.”
“E questi zoccoli, allora?”
Aldo sorrise: non lo faceva spesso e il ricordo di quei denti bianchi me lo sono messo nella cassetta di sicurezza, qua nella testa, e guai a chi me lo tocca. Disse: “Non ce l’ha fatta a restare senza far nulla in attesa di partire per il sanatorio. Mamma non permetteva a nessun cliente di avvicinarsi a lui con una scarpa in mano, e così sono intervenuto io.”
“Ah.” Risposi. Non c’era altro da aggiungere tra di noi. Sapevamo entrambi che ora si trattava di far ricomparire quegli zoccoli in classe come nelle magie di mago Merlino, anche se poi tutti avrebbero comunque capito cosa era successo. Bisognava solo salvare la faccia: anche quella dei nostri compagni che non avrebbero potuto pagarsi una riparazione dal ciabattino.
La mattina successiva ci appostammo dietro la quercia vicina alla scuola per contare i compagni di classe che entravano. Al trentottesimo ci alzammo ed entrammo pure noi quando tutti gli altri non potevano vederci perché già seduti ai propri banchi. Io entrai per primo e Aldo, dietro di me, lasciò gli zoccoli davanti alla porta con un movimento rapido che non vidi, ma percepii dal fruscio dei suoi pantaloni. Una volta seduti ci scambiammo un’occhiata. Il maestro alzò la testa dal registro e iniziò l’appello: “Abatini… Alberti… Asso… Barberis…”
Se ne accorsero alla ricreazione, uscendo in cortile. Gli zoccoli erano allineati in modo da inciamparci subito sopra all’uscita della scuola: c’erano anche quelli di Aldo. Manzetti. urlò: “Ma quelli sono i miei zoccoli, e ci sono anche quelli di Cova e di Nordio!”
“No, non sono quelli, non vedi che sono diversi?”
Cova si fece spazio per guardarli meglio: “Ma sì che sono i nostri, guardate, qualcuno gli ha aggiunto una suola in gomma e ha cambiato la punta!”
“Si chiama mascherina!” disse Aldo. Si ritrovò ottantadue occhi addosso. A guardarlo sembrava che avesse schiacciato una cimice per sbaglio e che trattenesse il respiro per non sentirne la puzza. Fu il maestro a parlare per primo: “La suola in gomma. Ottima idea. Così potrete tenerli anche in classe senza disturbare le lezioni”, e uscì senza che potessimo vedere la sua faccia. Restammo tutti a guardare i quattro fortunati in un misto di invidia e rispetto come se fossero appena stati promossi nella classe degli adulti. Già prima erano considerati dei privilegiati, perché non pestavano la terra con la pelle dei piedi dalla mattina alla sera: ora ci sembrava che portassero una invisibile palma da vincitori dietro le spalle.
Qualche giorno dopo Aldo ed io andammo a pescare. Appena prima di metterci seduti e di iniziare il consueto rituale, lui mi toccò un braccio: “Guarda dentro qua”, e mi porse il suo cestino. “Mio padre mi ha detto che sono per te.”
Il suo cesto era grande, doveva esserlo per contenere tutti i pesci che ogni volta si prendeva al posto mio. Lo aprii dopo aver tolto il bastoncino di vimini che faceva da chiusura: all’interno c’era un paio di zoccoli in legno chiaro. Ed erano della stessa lunghezza del mio piede. Erano gli zoccoli che ogni tanto mi comparivano in sogno: erano scappati dalle mie notti e ora me li trovavo davanti, ed erano solo miei. O per lo meno, lo rimasero quelle volte che andavo a pescare: i miei accettarono di farmeli tenere al fiume perché, sebbene non avessero capito come, ne tornavo sempre col cesto pieno; ma in famiglia dovevo poi prestarli ai miei fratelli più piccoli a domeniche alterne per la messa. Per tutto il resto del tempo, a casa, a scuola, quando giocavo nei campi, gli zoccoli dovevano restare appesi a un chiodo vicino alla porta della cucina, perché a usarli troppo si sarebbero potuti rovinare.
E infatti non si sono rovinati. Ce li ho ancora. E quando ho iniziato a lavorare, me li mettevo sul deschetto e li tenevo là, a mo’ di ispirazione. Anche se dovevo fare un paio di scarpe su misura o aggiustare il manico di una borsa: sempre là. E anche adesso che ho chiuso bottega, quegli zoccoli mi fanno compagnia, più necessari della pensione e più allegri di un cesto pieno di trote.

Serena Gobbo (racconto vincitore del concorso Lario Fiere 2011)

Leave a comment

Filed under Libri & C.

SOLSTIZIO D’INVERNO

In questi anni, ho raggiunto una convinzione, mi si è cucita nella carne come un punto a giorno: che la mancanza di dialogo non è silenzio, ma, all’opposto, è un eccesso di parole. Frasi gonfie, cotonate come la testa di una vecchia nonna, intrise d’aria; ma è una convinzione che Tommaso non condivide. E allora ho iniziato a tenere un diario, per non perdere la fugacità di certe emozioni, perché la mia gabbia toracica ormai lascia scappare i prigionieri e ho paura che dietro le costole, novelle sbarre d’osso, non rimanga che l’aria dei polmoni. Se continuo così, avrò bisogno di un motore di ricerca al computer che mi definisca, perché io non sarò più in grado di farlo da sola.
Tommaso non vuol essere maleducato, e non può rifiutarmi parole: troppi libri, troppe trasmissioni televisive, troppi amici, troppi psicoterapeuti ti sfracellano la testa dicendoti che il dialogo è importante. Pagine e pagine di saggi, ore e ore di spiegazioni, per farti capire che senza comunicazione la coppia marcisce. Ma la parole non sono dialogo.
Ecco, il rapporto con Tommaso sta marcendo perché parliamo degli operai disoccupati, dei colleghi pigri, dei vicini ricchi, dei parenti morti; e non parliamo di noi. Quando torna dall’ufficio saluta senza guardarmi: sono una casa da cui è caduto il numero civico e che il postino ignora.
I primi anni di matrimonio, appena tornava, veniva a darmi un bacio e, succhiandomi con gli occhi, mi chiedeva com’era andata la giornata. Ora, durante la cena ascolta il telegiornale, ci stanno mandando in malora, i politici e i soldi, gli industriali e gli operai, gli assassini e le vittime; torna da me solo per informarmi che la pasta è scotta o per chiedermi del formaggio. Dopo cena si va a trovare qualcuno: ci portiamo dietro i cavalletti per allestire il palco del teatro su cui reciteremo, e parliamo del mutuo, dei fiori, del tempo. La sera a letto Tommaso legge. Non leggeva prima di incontrare me: sono stata io a iniettargli questo vizio, e quando entro in camera non vedo il suo viso dietro la copertina, tutta la stanza mi appare come una cornice da cui hanno tolto il quadro.
Forse in un momento di distrazione ho perso il mio corpo, e quello che in questo momento sta pensando è solo una volontà senza voce. Forse viviamo, Tommaso ed io, in due dimensioni diverse, che si sfiorano quando si ricorda che il mio ciclo è finito e che dobbiamo fare l’amore, come da contratto. Forse il tempo in cui io vivo è troppo lento, mentre il tempo in cui vive lui continua a correre alla velocità del resto del mondo, e intanto un’aura di predestinazione ci avvolge, come un nugolo di mosche aspetta che un corpo in agonia si trasformi in cadavere.
Mi pare di essere un disegno a carboncino senza lacca: ogni tratto del mio viso si attenua quando Tommaso mi passa vicino senza vedermi, l’aria che sposta ruba un po’ della mia essenza e la trasporta altrove come polline sterile. Alla fine di me resteranno solo delle sfumature senza forma. Intuisco che dietro questi giorni c’è qualcosa che puzza, come pus che smania di scoppiare, separato dall’aria da un sottile velo di pelle stanca.
Il mio corpo è un involucro che contiene lacrime: a volte tracima, ma Tommaso sbuffa e mi dice di non piangere. Gli dico: “Non parliamo mai!” e lui mi risponde: “Come non parliamo mai? Va bene, ora sono qui, di cosa vuoi parlare?” e mi guarda interrogativo con le braccia conserte. Lo osservo e i momenti in cui lui mi sorrideva diventano dei ricordi su un banco di oggetti smarriti. In realtà lui non sta guardando me, perché sulle sue pupille è impressa a fuoco l’immagine di quella che ero una volta, e questo marchio gli impedisce di vedere la donna che ha davvero davanti. Crede di vivere con una persona ben definita, come un pezzo di stoffa tagliato con la forbice: non immagina che le mie fibre sono state strappate da un solstizio d’inverno che è arrivato senza preavviso, sbucando da una curva a ottanta all’ora. Ho solo sentito il botto, e poi mi sono accorta che la mia mano era vuota, come tutto il resto del mio corpo. Continuo a sentirlo, quel botto.
Nessuno ha capito la crisi isterica che mi ha sconquassato quando mia suocera, vedendo me apatica e la casa in agonia, ha pulito lo specchio, quello grande, dietro l’anta dell’armadio. Nessuno si era accorto di quella piccola impronta sul vetro in basso a destra, con le corte dita aperte, come in segno di saluto. Quella era la mano che tenevo nella mia quando l’inverno è arrivato e me l’ha rubata come un abile borseggiatore senza scrupoli. E pensare che lo rimproveravo ogni volta che decorava con dita unte gli specchi! Quando lo straccio di mia suocera compì lo scempio, irrimediabile come la prima morte, ho iniziato a urlare. Nessuna parola di senso compiuto, perché nulla aveva più senso. Solo urla. Neanche il suo nome pronunciai. Solo urla. Tommaso continuava a dirmi “calmati, devi stare calma!”, ma non mi spiegava perché dovevo smettere, mi sembrava un ordine assurdo e in mancanza di una buona ragione per fermarmi, io continuavo ad urlare. Finché non chiamarono un medico per sedarmi. Da allora ho smesso di urlare con la voce.
Non vivo con un marito, ma con un ricordo. Questo matrimonio è un regno in cui il re è morto e la notizia è stata tenuta segreta: si vive seguendo veline stampate da una macchina che continua a girare, e nessuno si preoccupa della successione. Perché bisogna mantenere l’ordine. Perché non bisogna creare il panico nel regime.
Strano.
Ricordo com’era lui: prima di sposarci era mio marito; ora è solo il mio compagno: dal latino, cum panem, colui col quale divido il pane. E la pasta, e lo spezzatino. Ma non ricordo com’ero io. E allora forza, ricordo-Lazzaro: alzati, cammina! Dei barbigli di vita mi solleticano l’apatia, e forse ho capito: ero intelligente. Perché l’intelligenza dipende dalla curiosità, e non ci può essere curiosità senza fiducia. In me stessa, prima di tutto, che sussulto passando davanti alle vecchie del paese quando le sento dire: “Quella è la moglie di… è la figlia di…era la madre di…”. Ho un nome, e un cognome, ma passano inosservati. La paura di mollare tutto è un sentimento che mi tiene in ostaggio: una sindrome di Stoccolma da cui vorrei guarire.
L’inchiostro con cui ho scritto il passato ormai è secco. Ma posso ancora scegliere l’inchiostro per scrivere il mio futuro. Non chiederò aiuto a Dio. Dio poteva scegliere se farmi nascere col sorriso o con le lacrime. Avevo il cinquanta per cento di possibilità di venire al mondo mostrando le gengive in un sorriso di saluto a chi mi accoglieva. Sono stata sfortunata.
Sono qui, ora, che spreco nuovo inchiostro cercando metafore e similitudini per descrivere il mio umore, come se si potesse descrivere la forma di un fluido; eppure sento il bisogno di trovare una forma ai miei stati d’animo, e mi pare di riuscirci quando la carta imprigiona il liquido blu. È come se i miei sentimenti fossero dei liquidi che si agitano tra le pareti di un corpo dalla forma rigida. Ho un volume, delle dimensioni, occupo il mio spazio, do anche fastidio; sono un solido tra altri solidi. Per diventarlo mi è bastato toccare quel freddo che il solstizio d’inverno mi ha lasciato dentro, e in un attimo ho cambiato stato. Però è una forma che anela al disgelo. È una forma sbagliata.
Quando inizieranno ad allungarsi le giornate?

Serena Gobbo (pubblicato sull’antologia “Amori molesti”, ed. La Riflessione, 2011)

Leave a comment

Filed under Libri & C.