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Belle Greene (Alexandra Lapierre) @EdizioniEO

Vincitore del Premio Comisso 2022 sezione Biografia

Un libro bellissimo: bella storia, ben scritto, ben documentato.

Tratta della vita di Belle Greene, bibliotecaria del finanziere miliardario J. P. Morgan, la donna più pagata all’epoca. E’ la storia di una passione, quella dei libri.

Belle Da Costa Greene in realtà era nata Belle Greener e proveniva da una famiglia di colore. Suo padre era stato il primo studente nero a laurearsi ad Harvard e il primo avvocato nero a cui fosse stato permesso di esercitare. Divenne anche il primo console di colore in missione all’estero (Vladivostok).

Un grande uomo, dunque, no?

Beh, anche io sono affascinata dagli uomini che si fanno avanti nel mondo a forza di studio e resilienza, ma si dà il fatto che il padre di Belle Greene nella vita privata fosse quel che si dice un farabutto. Lasciò la moglie per dedicarsi alla causa dei neri (nonché alle sue numerose amanti) e rifiutò categoricamente di aiutare la famiglia.

Geneviève, la moglie, si trovò a gestire da sola i figli. Come fare per garantire loro un futuro decente, senza dover lottare quotidianamente contro la povertà e le ingiustizie? Facendosi passare per bianca, approfittando del colore chiaro della pelle della sua famiglia (alcune figlie erano proprio bionde).

Si inventarono un lignaggio nobile di ascendenza portoghese, i Da Costa, e si trasferirono in un quartiere bianco, tagliando del tutto i ponti con la famiglia di Georgetown, che pure amavano. I figli giurarono solennemente che non avrebbero mai avuto una discendenza, per evitare che il colore scuro degli antenati potesse palesarsi in una delle generazioni successive.

Belle fin da piccola ha un sogno: lavorare con i libri e tra i libri.

Studia, raccoglie informazioni, osserva, fino ad arrivare a lavorare per il magnate J. P. Morgan, famoso tanto per la sua collezione di libri rari quanto per le sue sfuriate. Il rapporto è complesso: il miliardario è sospettoso di natura, deve esserlo, con tutti gli avvoltoi che gli volano attorno solo per i suoi soldi; ma si accorge subito della competenza e dell’energia di Belle, che, pian piano, diventa la donna più pagata d’America.

Si fida di lei: ad un certo punto, Belle ha carta bianca alle aste, può comprare senza limiti di spesa, eppure lei si comporterà sempre con attenzione e rispetto (guai a parlar male del signor Morgan in sua presenza!). Molto spesso rischierà grosso, soprattutto per trasportare opere d’arte e libri dall’Inghilterra all’America frodando le autorità doganali.

Morgan la inserirà nel testamento per un cospicuo legato, ma sarà, per tutta la durata del loro rapporto, un padrone esigente e tiranneggiante: arriverà al punto di dirle che non deve sposarsi!

Lei a sposarci non ci pensa. Non le mancheranno gli amanti, tutti di un certo livello: tra questi bisogna nominare Bernhard Berenson, famosissimo e richiestissimo critico d’arte, dal quale Belle assorbirà quanto più possibile della sua conoscenza, ma che farà anche il finto tonto quando lei, incinta, andrà ad abortire clandestinamente.

Il divieto di avere bambini sarà bellamente ignorato dalla sorella più giovane, Teddy. Il primo figlio nascerà senza conoscere il padre, che muore in Europa durante la prima guerra mondiale, e viene adottato da Belle, che stravede per lui.

Ma il segreto della famiglia è sempre in pericolo, soprattutto a causa del padre di Belle, che sarà una costante ombra minacciosa e che li ricatterà per motivi economici.

Io l’ho trovato un libro bellissimo e vorrei consigliarlo a tutti.

Ognuno di noi ha una paura che lo tiene incatenato dove si trova. Belle rischiava grosso facendosi passare per bianca: se l’avessero scoperta avrebbe perso il lavoro (con il quale aveva garantito un alto tenore di vita a tutta la famiglia) e sarebbe potuta andare in prigione. Eppure lei non si è fatta legare le mani: si è data da fare e ha esaudito il suo sogno.

Inspiring.

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Perché alcuni romanzi ci piacciono… e altri no.

(English version: below)

E’ una questione a cui non sono ancora riuscita a dare una risposta univoca.

Il marketing letterario o i consigli degli amici possono influire solo in parte sulle nostre predilezioni: possono spingerci a comprare un romanzo, ma non ad amarlo, se non è nelle nostre corde.

Mi son posta la domanda perché ho iniziato a leggere due libri: “Il cardellino” di Donna Tartt e “Gioco per la vita” di Patricia Highsmith. Il primo ho iniziato a leggerlo perché sono in ferie, e posso permettermi 900 pagine di relax. Il secondo, perché la storia è ambientata in Messico, che è il paese su cui mi sto concentrando in queste settimane.

Stranamente, pura coincidenza, entrambi i protagonisti si chiamano Theo.

Subito, fin dalle prime pagine, mi sono accorta del mio diverso atteggiamento verso i due romanzi.

Il libro della Highsmith è un thriller, o così si definisce: inizia subito con un delitto. Lelia, una pittrice amata da due uomini, viene trovata morta col volto sfigurato e le indagini appurano che prima della morte c’è stata violenza sessuale.

Il libro della Tartt inizia con un ragazzo che si nasconde ad Amsterdam, non esce di casa, ha fatto qualcosa per cui non deve farsi trovare. Nelle lunghe ore di ozio, inizia a scrivere la sua storia, partendo dal giorno in cui sua madre è morta in un attentato in un museo.

Entrambi i romanzi iniziano dunque con fatti inquietanti, emotivamente coinvolgenti, eppure… eppure il thriller della Highsmith non decolla. Per me. Non mi fa sentire alcuna compassione per la donna, né per i due uomini rimasti orbati del loro amore. Né mi incuriosisco per l’ambientazione che, al di là di alcuni cliché, non mi fa entrare nella Weltanschauung messicana.

Con il libro della Tartt, invece, è tutta un’altra cosa. Parla (anche) di arte: non mi intendo di arte, eppure mentre leggo spero che le descrizioni della madre di Theo sui quadri che stanno guardando non finiscano mai. E quando la bomba scoppia, sono nella testa del ragazzino, che ancora non ha realizzato cosa è successo; sento la sua ansia, sento che sta per succedere ancora qualcosa, che sta per arrivare una presa di coscienza tremenda.

Perché questa differenza?

La ragione non sta nei fatti raccontati.

Ha a che fare col modo in cui sono narrati. Perché lo stile dell’autore è un estratto della sua visione della vita. E questa visione della vita, coincide, spesso, con la mia.

Non mi riferisco, volgarmente, a predilezioni e antipatie: non mi importa se l’autore parla bene dei quadri fiamminghi o male dei funerali in Messico. Piuttosto, mi riferisco al modo in cui giunge a certe conclusioni, in cui guarda gli altri personaggi, in cui mette in tavola i suoi dubbi e confessa le sue debolezze.

Pensate all’autobiografia di Elias Canetti: succede poco, molto poco. Ma il modo in cui parla della miriade di persone che incontra, ti fa pensare che lui, anche se non lo scrive, sta maneggiando Verità. Verità con la V maiuscola.

Non che ce l’abbia in mano. Piuttosto, ce l’ha in punta di penna: ancora non è uscita dall’inchiostro, ma l’autore ci sta provando, a tirarla fuori; quello è il suo scopo, ed è così vicino a raggiungerlo che… continui a leggere.

Patricia Highsmith nel suo libro cerca di giungere alla verità dell’omicidio. E’ una verità con la V minuscola. Non ci fa toccare con mano il suo coinvolgimento, e, dunque, non coinvolge neanche noi.

Donna Tartt, invece, è il suo libro. Leggendolo, stiamo viaggiando nei suoi organi interni. Sì, lo so, brutta immagine, ma credo di aver reso l’idea di un Qualcosa che c’è, che è importante (se non ci fosse, non saremmo vivi) e che ciononostante nessuno vede in azione.

Essendo io in ferie, darò ancora una possibilità alla Highsmith, magari il libro mi appassionerà nelle prossime pagine.

La Tartt mi ha già conquistata.


WHY WE LOVE SOME BOOKS AND… DISLIKE OTHER ONES.

I have not found an answer to this question, yet. Literary marketing or friend’s tips can push us to buy some books, but not to love them.

The question has become stronger in these days, when, being on holidays, I started reading two novels at the same time: “A game for the living” (Patricia Highsmith) and “The Goldfinch” (Donna Tartt).

I started the first one because the story takes place in Mexico, which is the country in which I am interested in these weeks; and I started the second one because… I am on Holiday and can afford 900 pages of relax.

Strange enough, but both protagonists are named Theo…

Immediately, from the beginning, I noticed my different attitude towards the two novels.

The Highsmith’s book begins with a dramatic scene in which there is a dead woman, Lelia, a beautiful woman and nice painter. She has been first sexually violeted and then her face has been completely ruined with a knife.

The Goldfinch begins with a young man, Theo, who is hiding in Amsterdam (but we do not know why, yet) and who starts telling his story during the idle hours in the hotel chamber. This is how we find out that he lost her mother during a terroristic attac in a museum, when he was thirtheen.

While reading the Highsmith’s book, I do not feel involved in the love of the two mens for Lelia, nor in their desperation when they discover that she is dead. Moreover, I do not feel any curiosity in the Mexican way of living, as if the author only described clichés.

While reading Tartt’s novel, I feel engaged in the description that Theo’s mother makes of pictures (and I am not particularly fond of pictures, in general); I would go on and on reading on these painters; and, when the bomb bursts out, I am in Theo’s mind, wondering what has happened, feeling his terror, his puzzling thoughts, his fears.

Why this difference?

Differences do not lie in story: both novels start with shocking facts.

Difference lies in author’s vision of life, but does not lie in authors tastes: it doesn’t matter if I agree with an author who loves paintry or hates mexican funerals, who puzzles about Amsterdam streets or mexican way of living. My preferences and the author’s can be different.

I believe that the important pivot is the way in which the author tells his/her stories. His trials to find out the Truth, with capital T. When you read, you feel that the author is looking for the Truth: he/she has not got it, but he/she is striving for that.

Truth is not in the author’s hand, but it is in his/her pen, it is there, and wants to go out. So you go on and on reading hoping that he will find what he search for, hoping that you will be with him/her when he will find it out.

Take, for instance, Canetti’s biography. There, very few facts happen. Despite this, you feel that the author is looking for the Truth in other people, in facts, in cities, in history.

Patricia Highsmith, in her novel, is looking for a little truth: who is the killer. But she doesn’t manage to invove the reader (me: I do not know if she manages to involve other Readers) in all the details she unrolls in front of us.

While reading Donna Tartt’s book, I am in her internal organs.

I do know that this image is not very nice, but it gives the idea of something important, something hidden, without which we couldn’t live. Something that is there, but that nobody can see while it is working.

Well, I am on holidays, so I can afford to lose some time on Highsmith’s novel – not to much, just a little bit, to see if she manages to involve me.

Donna Tartt is already the owner of a piece of my hearth.

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La principessa di ghiaccio – Camilla Laeckberg

Avendo quattro romanzi dell’autrice sullo scaffale, e non avendone mai letto uno, ho preso il più breve, che è anche l’inizio della storia di Erica e Patrik, scrittrice la prima, poliziotto il secondo.

E’ un giallo, dunque si fa leggere fino alla fine perché si vuol conoscere l’assassino, ma c’è anche l’inizio della storia tra Erica e Patrik, storia che mi fa un po’ tristezza perché mi sembra che lei, a 35 anni, fosse troppo preoccupata di restare sola, e dunque si è lanciata su Patrik (a volte le scelte di cuore portano a coppie che durano tutta la vita, sì, ma spesso si tratta di scelte obbligate).

Non mi è piaciuto il personaggio di Mellberg, il capo della polizia: troppo macchietta. Ha tutti i difetti di questo mondo: grasso, pelato, sessista, puzzolente, incapace, borioso, falso, egocentrico… mentre è più credibile Erika, con la sua fisima di ingrassare e di dover iniziare quanto prima la Weight Watcher.

C’è un punto che non mi convince. Quando Anna, la sorella di Erika, le confessa:

So che a te Lucas non è mai andato a genio, ma io lo amavo veramente. In qualche modo cercavo di razionalizzare il fatto che mi picchiava.

Lucas è il marito di Anna. Ma nel libro manca la parte in cui le due sorelle parlano di Lucas che picchia la moglie. Erika lo ha capito perché Lucas ad un certo punto ha uno scatto di rabbia verso di lei, ma non ne ha mai parlato con la sorella. Questa frase di Anna, buttata là, sembra caduta dal cielo.

Giudizio complessivo: niente di che, ma se non avete altro da fare, piuttosto di guardare la TV, leggetelo. Consigliata la lettura in estate quando il calore è torrido, perché qui dentro è pieno di paesaggi innevati.

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