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Balzac (Stefan Zweig)

Cento, duecento, trecento pagine: leggendo un libro, dimentichi il mondo reale ed entri in un mondo che non esiste per tre, quattro ore, e poi, con l’ultima riga, saluti con la manina e te ne vai, senza un minimo di riconoscenza.

E’ questo che facciamo di solito: sfruttiamo le capacità evocative e la potenza emotiva di un’opera per sentirci meglio, per diventare migliori (forse), e ci dimentichiamo totalmente di chi ha passato ore, giorni, mesi, anni a buttar giù riga dopo riga quell’opera, come se ci fosse tutto dovuto, come se la vita di uno scrittore fosse un accessorio della nostra.

Molti sostengono che un romanzo debba essere considerato un oggetto separato dal proprio creatore, e che le biografie degli autori non ci diano nulla di più di quello che le loro opera già ci offrono.

Io non sono d’accordo.

Quando leggo un’opera (soprattutto se è una grande opera) voglio capire chi era chi l’ha scritta e come ha fatto a diventare così bravo: cosa l’ha ispirato, impaurito, costretto.

Balzac è stato uno dei più importanti scrittori francesi; un genio letterario, secondo molti. Ma la genialità ha sempre il suo prezzo.

Balzac inizia a pagarlo appena nato: sua madre, semplicemente, non è interessata. Lo dà subito a balia, e poi lo affida a un contadino fino all’adolescenza, così, per non averlo tra i piedi. Balzac, nei suoi primi anni di vita, trascorre nella casa genitoriale sì e no qualche settimana.

Lui rimane un bambino timido e ubbidiente fino ai primi vent’anni quando, deciso a intraprendere la carriera letteraria, abbandona gli studi.

Brivido, terrore e raccapriccio: la famiglia, di solide basi borghesi, aborrisce fin da subito questa decisione balzana, ma, davanti alla testardaggine del giovanotto, accondiscende a mantenerlo (con molta parsimonia) per due anni, dandogli la possibilità, alla scadenza, di sfondare nell’empireo o di tornare con la coda tra le gambe a fare il notaio per tutta la vita.

Balzac, fino a quel momento, non ha mai scritto nulla.

E’ questo il bello: per la prima volta in vita sua si mette tutti contro perché si è incaponito a vivere di letteratura, ma non ha mai scritto poesie, né saggi né romanzi. E il primo giorno che si ritrova nel misero appartamento che sarà il suo rifugio sui tetti di Parigi, la sua prima domanda davanti a una risma di carta nuova di zecca è: e adesso che scrivo?

In un lampo di lucidità, si mette a studiare il mercato. Cosa si vende?

Così inizia a scrivere quello che vuole il mercato: romanzetti rosa, d’avventura, storici, ma anche saggi e opuscoletti, sul tipo di quello che potrebbe essere un odierno “come sposare un milionario”.

Scrive come un matto, di notte, con un ritmo che farebbe impallidire un Charlot alla catena di montaggio. Spesso fa il “negro”, scrive per altri, fa il ghost-writer. Scrive anche schifezze, sì: la priorità è guadagnare, stare sulle proprie gambe, liberarsi dall’influenza della famiglia, e poi, diventare ricco e famoso.

La massa di roba che Balzac ha scritto e pubblicato nei due anni 1830 e 1831, appena il suo nome comincia ad aver risonanza – novelle, romanzi brevi, articoli di giornali, storielle, considerazioni politiche – rimane senza esempio negli annali della letteratura.

E la sua vita sociale?

Per anni non riesce ad averne, a causa della mole di lavoro che tutto inghiotte.

Quando si mette in testa di doversi sposare (con una vedova, piacente e non stupida, non necessariamente troppo giovane ma, quel che importa, molto ricca) incarica addirittura la sorella di cercargli la donna giusta.

Avrà le sue avventure, negli anni (i figli illegittimi dovrebbero essere tre, forse più), ma finirà per sposare, poco prima di morire, la ricchissima contessa Hanska che, mentre lui è moribondo nella nuova casa coniugale, fa shopping e chiacchiera con la figlia di pizzi, merletti e gioielli.

Balzac è stato un vulcano di inventiva e un genio letterario ma… è stato felice?

Innanzitutto, sebbene ad un certo punto abbia iniziato a far molti soldi con la sua penna, è sempre stato perseguitato dai creditori: gli episodi comici nati dal bisogno di sfuggire a panettieri e sarti, non si contano. E’ arrivato al travestimento, alle porticine nascoste, ai nomi falsi sui contratti di affitto. Dire che aveva le mani bucate era un eufemismo.

E poi, riesce a infilarsi in una sfilza di guai dopo l’altra: fa fallire una stamperia, intenta un processo contro l’editore più importante della Francia (quello che oggi sarebbe un opinion-leader), fa fallire un giornale, gli prende fuoco un’officina, si fa otto giorni di prigione perché non vuol prestare servizio nella guardia nazionale, si fa infinocchiare in un affare di miniere in Sardegna, prende un granchio con la costruzione di una mega villa in campagna e fa un buco nell’acqua col teatro.

Insomma: una vita in affanno.

Una persona costantemente in corsa, in cerca di qualcosa che non riesce mai a trovare: ammirazione, supporto, simpatia, gloria, pace.

Amore.

Se la fine di un romanzo ce ne esplicita il senso, la fine di Balzac ci rivela che le velleità umane sono evanescenti come la polvere.

E, chiudendo questa biografia, un grazie lo dobbiamo anche a Stefan Zweig che, raccontandoci di Balzac, ci mette in guardia da noi stessi.

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