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Quello col piede in bocca (Saul Bellow)

E’ una raccolta di racconti medio-lunghi ambientati nell’America del Nord nella seconda metà del Novecento.

Nel racconto che dà il titolo alla raccolta, il protagonista scrive una lunga lettera alla signorina Rose che quasi trent’anni prima ha offeso senza motivo. E con l’occasione, racconta la propria vita e le figuracce che ha fatto nel suo ambiente per la sua incapacità di pensare alle conseguenze di quello che diceva, voglioso com’era di mettere in pratica il famoso umorismo ebraico.

Insomma, ci presenta un personaggio colto che vive in un ambiente altrettanto colto e ricco, ma che non sa rapportarsi in maniera decente.

Tra i miei clienti è sempre chi legge di più a cacciarsi nei guai più grossi.

In “Come è andata la vostra giornata”, invece, la protagonista è una donna: è intelligente e piena di iniziative e attività, ma non vuole, non deve mostrarlo: è diventata l’amante di un professorone che gira il mondo idolatrato dai suoi fans, ma che non dà attenzione alle persone che ha davanti agli occhi.

Katrina era stata educata a considerarsi una stupida. Il sapere di non esserlo era un importante postulato segreto della sua scienza femminile.

E’ interessante questo rapporto così apparentemente squilibrato: alla fine non si sa chi, tra i due, ci guadagni davvero, o chi ci perda di meno.

In “Un piatto d’argento”, il gentile e integrato Woody affronta la morte del padre a cui era attaccatissimo, nonostante fosse un uomo di scarsi principi morali.

In “Cugini”, il protagonista è invischiato in una rete di parentela da cui non riesce a liberarsi: deve scrivere lettere a un giudice per aiutare un cugino in prigione e mettere in moto altri parenti per supportare l’ultimo desiderio di un altro. Ogni nodo di questa rete è un personaggio unico, descritto in un modo che ti fa rimpiangere di non essere tu l’oggetto della descrizione.

Sì, è questo che mi piace, di Bellow (come di Philip Roth): descrivono i propri personaggi facendoti desiderare di venir descritto da loro, come se una loro pagina potesse svelare di te qualcosa che ancora tu non sai.

Bellow purtroppo è morto, non scriverà mai una pagina su di me, ma se leggo le vite dei suoi personaggi, c’è sempre qualcosa che mi appartiene. Questo Qualcosa raramente è un aspetto esteriore: un lavoro, un abbigliamento, un’abitazione.

I dettagli esterni sono sempre troppo variegati per coincidere con i miei (con i nostri), e poi Bellow ambienta le storie in un’enclave ebraico-americana, niente di più lontano dalla mia realtà. Però ogni personaggio si rapporta agli altri e a se stesso come fa un essere umano, indipendentemente dal luogo e dal tempo.

In fondo, se il nostro intelletto si evolve, la nostra emotività è rimasta ai tempi della pietra, non importa se viviamo in una palafitta o in un grattacielo di Manhattan: cerchiamo approvazione, conferme, anche se non sappiamo cosa cerchiamo e se spesso ci accontentiamo di surrogati. Bellow ci parla di questi surrogati.

Il carattere di un essere umano non si vede nel gesto eroico, plateale: si vede nella vita di tutti i giorni, nella routine, nella banalità dei rapporti con gli altri. E’ quello che ci racconta Bellow, estraendone il succo, scegliendo cosa dirci.

Un libro di Bellow è meglio di una seduta dallo psicanalista.

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Nessuna scusa! Come cambiare i modelli di pensiero distruttivo (Wayne W. Dyer)

Capita anche a voi di avere qualcosa da fare ma di non farlo perché accampate delle scuse con voi stessi?

Che si tratti di dismettere una cattiva abitudine o di iniziare un’attività che potrebbe migliorare la vostra situazione (cambiare lavoro, fare attività fisica, scrivere un libro, mollare il compagno…), Wayne W. Dyer ci elenca una serie di scuse che di solito sfruttiamo per non attivarci.

  • E’ troppo difficile o costa troppo
  • è troppo pericoloso
  • ci vuole troppo tempo
  • la mia famiglia ne farebbe un dramma
  • non me lo merito
  • sono fatto così, è il mio carattere, il mio DNA, la mia storia familiare
  • nessuno mi aiuta
  • fino ad oggi si è sempre fatto così
  • non sono abbastanza intelligente/forte
  • sono troppo vecchio (o sono troppo giovane)
  • ho troppo da fare, non ho tempo

E via di seguito.

Per affrontare queste scuse bloccanti, il primo passo è esserne consapevoli. Bisogna individuare il pensiero-scusa e fermarsi ad analizzarlo. Sembra facile ma non lo è, perché certi atteggiamenti mentali sono così radicati nel nostro passato che ormai sono parte di noi.

Eppure, noi possiamo cambiare.

Chi conosce Dyer, sa quali sono i suoi strumenti: affermazioni positive, compassione, meditazione, consapevolezza. A me personalmente dà fastidio quando parla troppo di Dio – ma devo ammettere che spesso ci ricorda che la parola “Dio” può essere sostituita con altre (lui usa spesso “Tao”) che sono più in risonanza col nostro modo di pensare.

Si ripete molto, usando parole diverse: i concetti sono sempre gli stessi.

Però non si può buttar via il bambino con l’acqua sporca: il concetto centrale del libro è che noi possiamo cambiare le nostre abitudini e i nostri schemi mentali.

Pensateci: tutti vogliono essere liberi, eppure la libertà più grande è quella che possiamo vantare nei confronti di noi stessi, senza essere schiavi dei nostri pensieri fuori controllo.

E’ bella anche la parte in cui parla dell’entusiasmo, che è la prima vittima delle nostre scuse auto-bloccanti. L’entusiasmo va nutrito ogni giorno, anche e soprattutto frequentando persone che sono sulla nostra linea di pensiero (auguri).

“Promettete a voi stessi che terrete sempre sott’occhio il vostro entusiasmo e che ogni giorno compirete almeno un piccolo gesto per renderlo più forte”

Certo, non basta la lettura di un libro per cambiarvi la vita.

A me piacerebbe rimettermi a studiare (psicologia… non necessariamente per esercitare), e la scusa è “sono troppo vecchia”. Mi piacerebbe vivere scrivendo (scusa: “troppo difficile”) e viaggiando il mondo (“costa troppo”).

E voi? Quali sono le vostre scuse principali?

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12 regole per la vita (Jordan B. Peterson)

Peterson è uno psicologo clinico e accademico (insegna ad Harvard e all’università di Toronto).

Le dodici regole che costituiscono un antidoto al caos sono queste:

  • Stai dritto con la schiena
  • tratta te stesso come se fossi una persona che devi aiutare
  • cercati amici che vogliono il meglio per te
  • confronta te stesso con il te stesso di ieri, non con qualcun altro di oggi
  • non lasciare che i tuoi figli si comportino in un modo che non ti piace
  • metti in ordine casa tua prima di criticare il mondo
  • persegui ciò che ha un valore, non gli espedienti
  • di’ la verità (o almeno non dire bugie)
  • presumi che la persona che stai ascoltando possa conoscere qualcosa che tu non sai
  • sii preciso quando parli
  • non rompere le scatole ai bambini che giocano con lo skateboard
  • coccola un gatto quando ne incontri uno per strada

Sebbene alcuni punti sembrino semplicistici o fuori-tema, in realtà Jordan affronta ogni argomento con solide basi scientifiche e psicologiche. Può dar l’impressione di prendere i discorsi da lontano (ad esempio parte con le aragoste per spiegarti come il corpo influenzi la psiche e viceversa), ma arriva sempre al punto.

Uno dei temi principali del libro, e che è trasversale un po’ a tutte le regole, è la comunicazione, l’ascolto e la capacità di esprimersi.

Le parole (il logos, il verbo, chiamatele come volete) sono uno strumento necessario per mettere ordine dentro e fuori di noi: se non si riesce a dare un nome a certi stati d’animo, se non si riesce a verbalizzarli, difficilmente si può capire come affrontarli, e i problemi si accumulano nel tempo, fino a diventare cronici.

L’esistente è caos. La vita è sofferenza, non si sfugge. Eppure abbiamo la capacità di mettere ordine. Certo, non è facile e richiede un impegno costante: ogni cosa VIVA ha bisogno di attenzione, altrimenti muore (i rapporti in prima linea).

Lui stesso ha provato sulla propria pelle cosa significa soffrire quando è stata scoperta la malattia degenerativa della figlia di pochi anni. Peterson ci racconta questo, e ci racconta (cambiando i nomi) alcune esperienze dei suoi pazienti.

Le sue analisi si servono di vari strumenti: dalla biologia all’etologia alla religione. Per quanto non si debba essere troppo succubi della cultura imperante, ammette che le esperienze del passato hanno aiutato i nostri predecessori a superare dei brutti momenti, e se le conosciamo, se le capiamo, queste analisi possono essere utili anche a noi.

Consigliatissimo ai genitori il capitolo in cui spiega come comportarsi con i figli, e, soprattutto, perché.

Un bel saggio, scritto in uno stile divulgativo ma mai superficiale.

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Donne che mangiano troppo, Renate Gockel @FeltrinelliEd

Parliamo di bulimia. L’autrice è una psicologa e affronta l’argomento tramite la storia di una sua paziente, Anna, che è significativa perché presenta quasi tutti i sintomi di questa malattia.

Intanto, Anna non è visibilmente grassa: questo perché, dopo essersi lasciata andare e aver mangiato dolci e dolcetti, di solito va a vomitare. Anna ricorre al cibo ogni volta che si sente tesa, attaccata, in ansia.

A far scattare l’attacco di fame può essere semplicemente un invito, un commento apparentemente banale di un collega, o un eccesso di lavoro a cui non riesce a dire di no.

Anna ci tiene tantissimo a dare un’immagine perfetta di sé: brava moglie, brava insegnante, brava figlia… cerca continuamente di corrispondere alle aspettative altrui (o a quelle che lei crede siano le aspettative altrui).

Anna ha sempre obiettivi da raggiungere, e il suo motto è “prima il dovere e poi il piacere”. Per lei è inconcepibile venir amata senza dare qualcosa in cambio, solo per quello che è.

Anna ragiona in termini di aut-aut: o tutto o niente, non c’è mai una terza via, ci sono solo due estremi che si escludono a vicenda.

La psicologa affronta la sua malattia attraverso il training autogeno e gli esercizi di visualizzazione.

Alla fine del libro, Anna guarisce?

No.

Da malattie del genere non si guarisce mai del tutto: quello che è importante è prendere coscienza delle ragioni che stanno sotto agli attacchi di fame (di solito legate a un rapporto sbilanciato con la propria madre).

La cosa interessante è che quando Anna incomincia ad accorgersi di come è remissiva e sottomessa, incomincia a cambiare atteggiamento, e le persone che la circondano, che fino a quel momento non si sono lamentate, all’improvviso iniziano a storcere il naso.

E’ bello leggere un libro su una disfunzione psicologica e accorgersi di non rientrare nello schema… 🙂

L’approccio del saggio, però, è un po’ psicanalitico: è il passato a determinare il presente. Leggere un’opera del genere ti fa pensare che sotto a qualunque gesto o sentimento ci sia sempre una ragione recondita nel nostro inconscio. Nessuna vera spontaneità.

E’ davvero così?

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Di bene in peggio – Paul Watzlawick @Feltrinellied

Siete “in cerca di garanzie, di certezze, di realizzazione e di conseguente, definitiva felicità”?

Allora, probabilmente, siete dei costruttori di ipersoluzioni, ovverosia, soluzioni le cui conseguenze sono altrettanto nefaste dei problemi che vogliono risolvere.

Cercate un assoluto? Il senso della vita? Allora probabilmente, a forza di pensarci, cadrete nell’inerzia.

Credete che se una cosa è buona, allora aumentandone la quantità riuscirete ad aumentare anche la sua qualità? Allora siete caduti in una fata morgana.

Siete convinti che il contrario del male sia sempre il bene? Che non esista una terza via? Siete convinti di sapere sempre cosa pensa chi avete di fronte? Che chi è in possesso della verità debba trasmetterla agli ignari, se necessario, anche contro la loro volontà?

Beh, allora ricordatevi, quando sarete convinti di aver trovato l’ipersoluzione che fa per voi, che il grande è celato nel piccolo.

Non è un manuale, questo: nessun suggerimento concreto. Solo un ragionamento al contrario, con molta, molta ironia, che ci fa capire come siamo bravi a rovinarci la vita.

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L’ospite inquietante – Umberto Galimberti @Feltrinellied

L’ospite inquietante è il nichilismo, e Galiberti in questo libro se ne occupa con riferimento ai giovani tra i 15 e i 25 anni.

Una cosa bisogna tenere bene a mente: “il disagio giovanile non ha origine psicologica ma culturale“. Ne consegue che le soluzioni devono essere culturali, non psicologiche o, peggio, farmacologiche.

Ad esempio: la società ragiona in termini di risultati, non di fini.

Guardiamo un’azienda, un’azienda qualunque: lo scopo è il fatturato, è la quota di mercato, è il prestigio. Ti diranno poi, per giustificarsi, che l’imprenditore ha sulle spalle tutte le famiglie dei suoi dipendenti, ha una responsabilità… lo dicono sempre, come se avesse avviato l’azienda per fini umanitari.

In una società del genere, il futuro, da promessa, si trasforma in minaccia, soprattutto per i giovani, che vivono nel futuro, visto che di passato ne hanno poco e il presente è deludente.

E la scuola?

Istruisce, non educa. Inserisce dati nei cervelli, non si occupa dell’analfabetismo emotivo degli alunni, non li guarda in faccia, non li considera nelle loro individualità. Ha bisogno di numeri, la scuola: deve misurare, confrontare. Non si occupa del desiderio di riconoscimento.

La frustrazione, (…) è utilissima per crescere, ma che, come tutte le medicine efficaci, va dosata. Un eccesso di frustrazione – come nel caso di voti troppo bassi distribuiti in nome dell’oggettività delle prove, senza un minimo sospetto che dietro le prove c’è qualcuno che ci prova e che si mete alla prova – sposta altrove la ricerca di riconoscimento.

Le conseguenze? Droga, sassi dal cavalcavia, suicidi, depressione, disturbi alimentari, sociopatia, bullismo, collasso della comunicazione ecc…

Mancano i luoghi di incontro e di scambio intergenerazionale, ma anche intragenerazionale: i giovani spesso si isolano dai propri coetanei e, quando li frequentano, i rapporti restano superficiali.

Galimberti ha una particolare forma di approfondimento dei problemi, li guarda sempre da un punto di vista diverso dalla maggioranza ma… ha un linguaggio troppo poetico, quasi un esercizio stilistico, a volte.

Voto: 3 su 5.

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Fingersi medico per 18 anni

L’AVVERSARIO, di Emmanuel Carrère

Fingere di essere un medico ricercatore presso l’Organizzazione Mondiale della Sanità in Svizzera… e non essere neanche laureato in medicina!

Sembra incredibile ma il francese Jean-Claude Romand lo ha fatto. Il castello di carte è crollato solo nel 1993, dopo che ha ucciso la moglie, i due figli di cinque e sette anni, e i vecchi genitori.

Per diciotto anni, nessuno tra parenti e amici si è accorto che Jean-Claude passava le sue giornate in giro per i boschi o, quando fingeva di andare a convegni, rintanato in una stanza d’albergo.

E i soldi? Bè, disponeva di una delega sul conto corrente dei genitori. Inoltre, alcuni amici e parenti gli avevano consegnato somme ingenti, perché aveva raccontato loro che, in quanto medico di un organismo internazionale, poteva depositare i soldi in Svizzera e guadagnarci il 18% di interessi.

Sconcertante anche il modo in cui presentava la dichiarazione dei redditi: aspettava che sua moglie firmasse i suoi moduli, poi lui firmava i suoi; ma sotto la voce “professione” indicava “studente” e allegava fotocopia del suo tesserino universitario (perché per anni ha continuato a pagare le tasse).

Ha smesso di dare esami al secondo anno di università. Frequentava le lezioni, andava tutti i giorni in biblioteca a studiare, prestava appunti agli amici, ma non dava esami. Si presentava alle sessioni all’inizio e alla fine, ma, approfittando della calca, nessuno si accorgeva che non entrava.

In casa, lasciava in giro tesserini di varie associazioni mediche, di cui pagava l’iscrizione, e non dava mai il suo numero di ufficio a nessuno, neanche alla moglie, con la scusa che all’Oms non si poteva disturbare (usava un cercapersone).

Pazzesco.

Al processo, Carrère era presente.

La sua attenzione si è focalizzata sulla personalità di Romand, così preso dalle proprie menzogne da non capire ormai più cosa era vero e cosa falso.

Gli hanno dato l’ergastolo. Oggi ha 64 anni e spesso, nei giornali francesi, si parla di liberarlo.

L’aspetto che invece mi ha colpito di più di tutta questa storia, al di là della paura di Romand per il Giudizio, sono gli Altri.

Per quanto sia stato astuto Romand nel nascondere la propria vera vita, mi chiedo quale sia stato il livello di attenzione di parenti ed amici. Perché una persona può sì essere schiva, timida, modesta, come spesso lo descrivevano, ma quanto può essere superficiale un rapporto? Un matrimonio? Un legame genitori-figlio?

Quanto conosciamo, noi, degli altri?

O, e la domanda è ancora peggiore: quanto ci interessa conoscere, degli altri?

E’ un libro che va letto per rendersi conto dei limiti cui può arrivare l’essere umano, dunque mi permetto di consigliarvene l’acquisto sul link affiliato Amazon qui.

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La trama della vita – Jerome Kagan

Genetica o ambiente?

Ecco di cosa tratta questo saggio di Kagan. Genetica e ambiente sono due fili che si intrecciano fino a dar vita a un tessuto il cui colore è una cosa diversa da quello dei fili che lo compongono: i fili possono essere bianchi e neri, ma il tessuto finale sarà grigio. Ecco perché è così difficile capire da cosa derivano alcuni tratti del nostro carattere: perché predisposizione e cultura sono così ben intrecciati tra loro da perdere la loro identità originaria.

L’influenza dell’ambiente comincia a farsi sentire già dentro alla pancia della mamma:

(…) alcune madri canadesi che nel 1998 erano state esposte a una violenta tempesta di ghiaccio quando si trovavano nel secondo trimestre di gravidanza ebbero maggior probabilità di dare alla luce bambini che presentavano impronte digitali diverse sulle dita corrispondenti delle due mani: un segno di sviluppo disturbato che si riscontra con frequenza in adulti affetti da schizofrenia.

Ma non tutti quei bambini sono diventati schizofrenici da adulti!! (Per la cronaca, la differenza nelle impronte digitali delle due mani ce l’ho pure io…)

La predisposizione però, sebbene non ci possa aiutare nel prevedere come si svilupperà un certo bambino, ci può dire con un buon grado di certezza cosa quel bambino NON diventerà: è raro, se non impossibile, che una personalità sensibile e ipereccitabile (carattere dovuto a una certa conformazione del cervello presente fin dalla nascita) da adulto diventi estroversa ed espansiva.

Kagan scende molto nel dettaglio dell’analisi sia dei fattori genetici (tipi temperamentali, segni biologici, reattività), sia dei fattori ambientali (pedigree familiare, ordine di nascita tra fratelli, classe sociale, etnia, dimensioni della comunità, periodo storico, sesso…).

Vi dirò: per i miei scopi, è sceso anche troppo nel dettaglio. Nonostante alcuni paragrafi fossero interessanti, e anche se ho apprezzato molto i suoi commenti sull’impossibilità di sfruttare la scienza per indirizzare moralmente certe scelte, alla fine il succo di tutto è che genetica e ambiente si mescolano, si mescolano, si mescolano.

Un colpo al cuore me l’ha l’epigenetica: certi eventi significativi nella vita di una persona possono modificare l’espressione genica. E i geni così modificati possono essere trasmessi alla prole.

Dunque, mai dare niente per scontato.

Niente è immodificabile (buddhismo a manetta).

Questo ci dà sempre speranza, ma anche più responsabilità.

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Il segreto dei bambini ottimisti, Alain Braconnier @Feltrinellied

Cominciamo con gli aspetti positivi del libro, tanto per essere… ottimisti!

Il motivo che mi ha spinto a comprarlo, è che, temendo di essere una pessimista, non volevo rendere pessimista anche mio figlio, visto che i bambini ottimisti non solo ottengono più traguardi nella vita ma, in generale, sono più gioiosi.

E’ infatti innegabile che – oltre all’aspetto genetico – noi trasmettiamo ai figli il nostro modus vivendi. Braconnier è riuscito a tranquillizzarmi, dicendomi che ci sono due fattori che ostacolano questa trasmissione di pessimismo tra le generazioni:

Innanzitutto l’equilibrio che, spesso, si instaura a questo proposito fra i due genitori, uno dei quali, in genere, è più ottimista dell’altro. Il secondo fattore è più paradossale: il bambino stesso ci permette di tornare ottimisti, immergendoci in un’atmosfera e mentalità “infantili”.

Devo convincermi di questo, perché le convinzioni errate diventano spesso una profezia che si autoavvera!

Ho trovato poi alcuni suggerimenti generali che avevo già incontrato in altri manuali sull’ottimismo per gli adulti, ad esempio:

  • identificare i pensieri negativi.
  • Parlare col figlio di cosa potrebbe accadere nel corso della giornata.
  • provare nuove cose.
  • incoraggiare il bambino a commentare anche i progressi, non solo i risultati.
  • incoraggiarlo a chiedere consiglio a chi considera competente.
  • attenzione che un ottimismo esagerato può esser pericoloso!

In generale, tuttavia, questo libro non mi ha entusiasmato.

I consigli pratici sono pochi, è più descrittivo che prescrittivo, ripete sempre gli stessi concetti con parole diverse, ci sono tante domande retoriche e molte affermazioni più che ovvie.

In generale, inoltre, noto che Braconnier espone un sacco di teorie e tesi e ricerche scientifiche, ma non segue una linea sua. Lui ti spiega cosa dicono questo e quello, non sviluppa un suo modello speculativo: ciò ha i suoi lati positivi perché ti mostra la varietà della ricerca sul campo, ma è un puzzle di varie tessere che formano un disegno poco coerente (se si esclude una regola generale che è quella di adattarsi all’individualità di ogni bambino).

Di Braconnier avevo già letto “Anche l’anima fa male” e devo dire che in questo secondo incontro ho notato gli stessi difetti. Autore eliminato.

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La notte del santo, Remo Bassini @fanuccieditore

Iniziamo subito con un paio di morti ammazzati, quasi decapitati. E poi ne arrivano altri. Stessa modalità, ma vittime apparentemente slegate tra loro. La prima idea che salta in mente è che dietro agli omicidi, iniziati la notte del Santo patrono di Torino, ci sia una motivazione di natura religiosa, forse una setta. Ma pian piano, i dettagli iniziano a collimare tra loro: alla fine (che non vi svelo) le indagini vengono messe sottosopra e la curiosità ti costringe ad accelerare la lettura (terminata in tre giorni, nonostante un altro libro e l’inizio della scuola).

L’effetto sorpresa, che in un noir ci sta, arriva. Però questo è un noir atipico: il presunto protagonista, il commissario Dallavita, non è quello che risolve il caso. Lui tira le somme: grazie a lui scopriamo gli altarini dei colleghi, della Torino Bene, dei servizi segreti, ma in realtà il caso si era chiuso prima, grazia all’ispettore Tavoletti, o almeno si era chiuso per i giornali e i cittadini di Torino.

Dallavita non segue il caso passo per passo perché è a una svolta decisiva nella sua vita privata: lasciare la moglie Carmen. Ha bisogno di pensare, di star solo, e si prende un mese di ferie. Non è una scelta facile, la sua, ed è resa più difficile anche dall’atteggiamento della moglie, che attraverso telefonate ed SMS lo fa sentire un vero pezzo di cacca.

Quando un libro mi prende, provo nei confronti dei personaggi sentimenti forti, come se fossero persone che ho frequentato per un periodo breve ma intenso; forse anche di più: perché nella vita vera di rado vieni a sapere cosa pensa il tuo vicino o un tuo amico, mentre questo ti succede coi personaggi dei libri.

Nel caso di Dallavita, devo ammettere che non mi sarebbe piaciuto, dal vivo. Troppo altalenante in campo femminile, per i miei gusti talebani; e poi fuma (oh sì, il fumo mi dà tanto fastidio, anche nei libri), e inizia ad eccedere nel bere. Nessun personaggio del libro, però, è piatto: sono tutti multisfaccettati. Anche dal punto di vista della bravura nel lavoro, non sono perfetti: Dallavita per esempio si fa prendere in giro di brutto da un sospettato, mentre Tavoletti ha i suoi lati poco… legali. Questo l’ho trovato coraggioso, da parte di uno scrittore: la gente vera non è come nei telefilm americani, ci piace per certi aspetti, e non ci piace per altri.

Potrei forse avanzare una critica molto soggettiva sulla cupezza dei protagonisti: il noir italiano è abbastanza saturo di poliziotti dannati (anche se devo ammettere che, a difesa di Bassini, il suo Dallavita è dannato sì, ma non è bello né giovane, e qui esprimo la mia gratitudine per la rottura degli schemi).

Riassumendo: un romanzo con molti fili, che però si chiudono tutti alla fine; con personaggi pieni di fantasmi, che però si mettono in chiaro nelle ultime pagine; e con almeno tre conclusioni da dedurre tra le righe:

  1. trova il movente e troverai l’assassino;
  2. guardati dalle belle donne;
  3. anche i ricchi piangono.

 

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