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Ida (Katharina Adler)

Ho letto un po’ di recensioni in giro sul web: tutte più o meno positive. Io mi posiziono tra quelle “meno positive”.

E’ la storia di Ida Bauer, che è stata una paziente di Freud, che ne ha scritto un saggio in merito alla sua presunta isteria, chiamandola Dora.

Bisogna dire che Ida si è fatta psicanalizzare da Freud solo per qualche mese e poi ha abbandonato la terapia, scontenta delle conclusioni a cui arrivava il medico.

Il romanzo biografico, però, lascia un po’ l’amaro in bocca perché dalla presentazione dell’editore ci si aspetterebbe più spazio per il rapporto tra Freud e Ida; invece il padre della psicanalisi resta una figura secondaria che, se non sbaglio, non parla neanche mai in prima persona, le sue parole sono sempre riportate nel discorso indiretto.

La stessa psicologia di Ida viene sempre descritta dall’esterno, non si riesce a legare un legame leggendo la sua storia. E’ una descrizione meccanica, molto fredda.

Certo, la sua vita non presenta nulla di sensazionale: famiglia ebrea benestante, matrimonio, le serate al teatro, il fratello (Otto Bauer, leader del movimento socialdemocratico austriaco)… ma neanche l’arrivo del nazismo e la fuga di Ida riescono a creare un po’ di immedesimazione.

Ida ha una serie di sintomi che non si spiegano (tosse, svenimenti, afonia, dolori di varia origine), ma neanche lei sembra interessata a cercarne una causa, li sopporta e li descrive senza farsi tante domande: è forse questo atteggiamento poco introspettivo che l’ha portata, alla fine, alla rottura con Freud, che invece andava a far le pulci ad ogni suo pensiero.

Insomma, al di là del rapporto con Freud, Ida mi appare come una donna abbastanza superficiale, che vive nel suo tempo senza farsi troppo coinvolgere se non quando strettamente necessario o perché trascinata dalle compagnie (ma mai con una comprensione profonda dell’ambiente e delle motivazioni altrui).

La vita di Ida, Insomma, non presenta grande interesse.

Questo non sarebbe un ostacolo a una bella biografia, se la biografia fosse romanzata bene, cosa che con questo libro non accade.

Le descrizioni sono scollegate dalle emozioni dei protagonisti e la storia è raccontata con continui salti temporali che non hanno motivo di esistere: l’impressione che ne ho avuta io è che l’autrice abbia inizialmente scritto il romanzo in modo strettamente cronologico, per poi spezzettarlo e mischiarne le parti nel tentativo, fallito, di fargli un po’ di movimento.

Ovviamente sono la prima a mettere in dubbio le mie valutazioni se qualcuno ha letto il romanzo e riesce a convincermi dei miei errori.

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Il colibrì (Sandro Veronesi) @lanavediteseoed

Per me è raro leggere il vincitore dello Strega nello stesso anno in cui è stato nominato: di solito compro i libri ai mercatini dell’usato, ma questo mi è arrivato in regalo (finalmente qualcuno che mi regala libri).

A dispetto di quello che si può dire dei premi letterari, per quanto accusati di brogli e favoritismi, il vincitore dello Strega è comunque sempre un bel libro, curato, con una prosa ricercata. Non come i titoli che sono usciti durante il lockdown e che parlavano del lockdown mentre era in corso (ma si può scrivere un buon romanzo in un mese??).

Marco Carrera, oculista, fin dall’adolescenza è conosciuto come il Colibrì, perché è piccolo ma aggraziato. Il nomignolo gliel’ha dato la madre, ma anche quando il suo problema di statura sarà superato grazie ad una terapia a base di ormoni, il soprannome gli resterà attaccato e acquisterà un nuovo significato.

Un colibrì è un uccellino che sbatte le ali settanta volte al secondo in modo da riuscire a restare fermo in volo e non cedere alla forza di gravità. Questo è quello che fa Marco Carrera: subisce una serie di lutti pesanti, non riesce a unirsi alla donna che ama dall’adolescenza, la moglie ha perso la ragione, il fratello non gli parla da anni, eppure trova sempre la forza di andare avanti, non collassa, non cade.

Un romanzo sulla resilienza?

In realtà è un romanzo che parla a tutti noi: a chi non capitano lutti e disgrazie? Eppure ognuno a modo proprio trova in sé le ragioni per continuare a vivere, e, a volte, anche per godersela.

Il messaggio che più mi piace, però, è quello che Marco Carrera e quelli come lui hanno la propria dignità: anche se non correno a destra e sinistra, anche se non si pongono obiettivi grandiosi, anche se non sono costantemente in affanno per raggiungere un obiettivo prestigioso, anche se “stanno fermi”, loro sono dignitosi, loro… valgono.

E’ un messaggio in sordina, eppure potente, che mi richiama alla memoria lo Stoner di Williams.

E’ grazie a questi piccoli esseri coraggiosi se la generazione futura avrà la forza di opporsi a chi negherà la dignità a chi non può rivendicarla con la forza (i deboli, gli immigrati, le minoranze, i disabili…).

O per lo meno così ho interpretato io il libro.

Un breve commento sullo stile: i capitoli non sono in ordine cronologico, la narrazione va avanti e indietro negli anni, fino ad arrivare a un ipotetico 2030.

Non sono d’accordo con molti booktuber che sostengono che la prosa sia semplice e adatta a tutti, anche ai lettori non abituali: sebbene ogni capitolo sia a sé (messaggi telefonici, dialoghi, lettere, prosa “classica”, flusso di coscienza ecc…), il registro medio è piuttosto alto, soprattutto in quelle parti prive di punti per pagine e pagine.

Ma a me non ha disturbato.

L’unica pecca è che devi metterti a leggerlo quando sai che non hai altri impegni: non puoi mollare una frase infinita per andare a mescolare il risotto.

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La mia vita di uomo (Philip Roth)

Peter Tarnopol, scrittore ebreo di New York, sposa Maureen e poi non riesce più a divorziare senza doverle un sacco di alimenti, finché la donna muore e… lui è libero.

La trama è brevissima, eppure Roth riesce a costruirci un libro di 374 pagine: questo grazie alle numerosissime riflessioni, a due racconti scritti dallo stesso Tarnopol, alle sue scaramucce con lo psicanalista, alla sua relazione con Susan e le altre.

La domanda che Tarnopol continua a farsi è: come sono finito in questo garbuglio? Io che ero uno scrittore promettente? Io che sono uscito dall’università con lode; io, bello, intelligente, pieno di risorse? Perché non riesco a liberarmi di questa donna?

E fa bene a chiederselo, perché, nonostante la moglie dimostri più volte comportamenti al limite della malattia mentale, nonostante le numerose scenate in pubblico e le aggressioni fisiche da entrambe le parti, lui verso di lei continua a provare un senso del dovere che non si capisce da cosa nasca.

Nonostante la storia raggiunga a volte punte grottesche, la vicenda di Tarnopol è anche quella di ognuno di noi: da giovani siamo pieni di speranze e capacità, e poi con gli anni, ci ritroviamo a svolgere un lavoro che non ci piace, in un’azienda che ci ha stancato, o a vivere in una famiglia per la quale siamo ormai dei soprammobili (quando va bene).

E allora che si fa?

Esiste un senso per la vita di ognuno di noi?

Ognuno di noi questo senso deve crearselo. Tarnopol ci prova mettendolo su carta: prima ci prova con due racconti in cui il protagonista è un “certo” Zuckermann (conosciuto a tutti i lettori di Roth), e poi raccontando la sua vera storia.

O perlomeno raccontando la sua versione.

Perché a volte ho davvero l’impressione che Tarnopol sia il classico narratore inaffidabile, che si dipinge intellettuale, colto, controllato, e poi salta fuori che picchia la moglie e si veste da donna.

Ma è proprio qui il punto: siamo tutti narratori inaffidabili delle nostre storie.

La vita è un succedersi di fatti: sono legati tra loro da cause ed effetti, certo, ma – sotto – non c’è alcun disegno. Il disegno dobbiamo farlo noi.

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Musica (Yukio Mishima) @Feltrinellied

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Ho bisogno che qualcuno mi sveli il significato di questo libro…

E’ incentrato sul trattamento psicanalitico di una bellissima ragazza, Reiko, che dice di non sentire la “musica”, quando in realtà intende di non riuscire a provare desiderio/piacere sessuale.

E’ una ragazza che ha letto un po’ di psicologia da rivista e che lo psicanalista, che racconta in prima persona, definisce isterica: tutto quello che dice è da lei interpretato in chiave sessuale facendo spesso riferimento ai suoi sogni e al suo passato.

Ma quasi niente di quello che racconta è vero: dopo poche pagine ammette di essersi inventata tutto.

La costruzione del romanzo è quasi da giallo: lo psicanalista indaga nella psiche di Reiko per scoprire quale è il nodo del suo problema. E lo trovano, questo nodo, quando trovano il fratello perduto della ragazza.

Ma… possibile che Mishima volesse parlarci solo di sessualità, frigidità, psicanalisi?

O non è forse la musica una metafora per la più degna “gioia di vivere”? Il dubbio mi è venuto quando ho letto due episodi in cui Reiko ha effettivamente sentito la “musica”, ma si trattava di beatitudine, di felicità, forse: in un caso assisteva un cugino terminale e nell’altro consolava un ragazzo che voleva suicidarsi a causa della sua impotenza.

O, forse, non è che Mishima volesse parlarci dell’insondabilità della natura umana? Dell’impossibilità di catturare con un processo razionale (la psicanalisi) un processo inconoscibile come la mente umana?

Poi però, nel vari episodi del romanzo, si torna sempre alla sessualità, e le mie teorie e i miei tentativi di assolutizzare la trama, si spiaccicano come mosche sul parabrezza.

Davvero: “Musica” è giudicato uno dei libri migliori di Mishima. ma… perché?

Non credo di averlo capito.

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Donne che mangiano troppo, Renate Gockel @FeltrinelliEd

Parliamo di bulimia. L’autrice è una psicologa e affronta l’argomento tramite la storia di una sua paziente, Anna, che è significativa perché presenta quasi tutti i sintomi di questa malattia.

Intanto, Anna non è visibilmente grassa: questo perché, dopo essersi lasciata andare e aver mangiato dolci e dolcetti, di solito va a vomitare. Anna ricorre al cibo ogni volta che si sente tesa, attaccata, in ansia.

A far scattare l’attacco di fame può essere semplicemente un invito, un commento apparentemente banale di un collega, o un eccesso di lavoro a cui non riesce a dire di no.

Anna ci tiene tantissimo a dare un’immagine perfetta di sé: brava moglie, brava insegnante, brava figlia… cerca continuamente di corrispondere alle aspettative altrui (o a quelle che lei crede siano le aspettative altrui).

Anna ha sempre obiettivi da raggiungere, e il suo motto è “prima il dovere e poi il piacere”. Per lei è inconcepibile venir amata senza dare qualcosa in cambio, solo per quello che è.

Anna ragiona in termini di aut-aut: o tutto o niente, non c’è mai una terza via, ci sono solo due estremi che si escludono a vicenda.

La psicologa affronta la sua malattia attraverso il training autogeno e gli esercizi di visualizzazione.

Alla fine del libro, Anna guarisce?

No.

Da malattie del genere non si guarisce mai del tutto: quello che è importante è prendere coscienza delle ragioni che stanno sotto agli attacchi di fame (di solito legate a un rapporto sbilanciato con la propria madre).

La cosa interessante è che quando Anna incomincia ad accorgersi di come è remissiva e sottomessa, incomincia a cambiare atteggiamento, e le persone che la circondano, che fino a quel momento non si sono lamentate, all’improvviso iniziano a storcere il naso.

E’ bello leggere un libro su una disfunzione psicologica e accorgersi di non rientrare nello schema… 🙂

L’approccio del saggio, però, è un po’ psicanalitico: è il passato a determinare il presente. Leggere un’opera del genere ti fa pensare che sotto a qualunque gesto o sentimento ci sia sempre una ragione recondita nel nostro inconscio. Nessuna vera spontaneità.

E’ davvero così?

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Prostituzione, alcolismo, droga e altre dipendenze

Il tentatore non “mette alla prova”, ma “commette un reato”, e il tentato che cede non è un “colpevole”, ma gode dell’innocenza della “vittima”.

La prostituta in quanto tentatrice è perseguitata dalla legge, mentre il cliente, in quanto cede a una forza a cui non può resistere, è innocente.

Ma perché questa sociologia che fa tesoro delle scoperte scientifiche mantiene la categoria mitico-religiosa della tentazione per lo spacciatore e per la prostituta, e adotta invece la categoria psico-biologica della forza irresistibile per il drogato e il cliente della prostituta?

Per sottrarre al drogato e al cliente anche la sola ipotesi di avere a disposizione la libertà dell’autocontrollo, perché solo persuadendo gli uomini che non si possono autocontrollare si può esercitare su di loro il controllo esterno a cui il potere per sua natura e per sua essenza tende.

(U. Galimberti (“L’ospite inquietante”)

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La disobbedienza ed altri saggi, Erich Fromm

Eh no, ragazzi miei: facendo i bambini obbedienti non si arriva da nessuna parte. A dircelo è Fromm, e ce lo ha messo per iscritto un bel po’ di tempo fa. La civiltà è nata con un atto di disubbidienza: avete presente Adamo ed Eva, quelli che andavano in giro con la foglia di fico che poi non era fico? O Prometeo, che va a rubacchiare cose che non gli spettano? O tutti quegli scienziati che hanno messo in dubbio il pubblico sentire?

Limitandosi all’ubbidienza non si cresce, non si diventa liberi: ci si limita ad eseguire gli ordini.

Ora tutti diranno: anche io voglio essere libero! anche io! e io no?

No.

In realtà la gente dice solo a parole che vuol essere libera; perché quando si tratta di prendere decisioni e di assumersi le responsabilità che ne conseguono, tutti (anche io) alzano le mani e si giustificano: ma io ho fatto quello che mi ha detto lui/lei!

L’uomo inserito in un’organizzazione ha perduto la capacità di disobbedire, non è neppure consapevole del fatto che obbedisce. Nell’attuale fase storica, la capacità di dubitare, di criticare e di disobbedire può essere tutto ciò che si interpone tra un futuro per l’umanità e la fine della civiltà.

Certo, Fromm scriveva negli anni Sessanta sotto l’incubo del disastro atomico, ma la situazione attuale non è molto diversa, anzi, forse è peggiore, perché ci disinteressiamo di tutto quello che non ricade hic et nunc – qui ed ora – nel nostro orticello.

Questo è uno degli argomenti che Fromm affronta in questo breve saggio. Parla anche di socialismo umanitario (mettendoci in guardia dalla deformazione della teoria Marxista fatta dai politici), di reddito minimo garantito (e questo vi consiglio di leggerlo!), di disarmo unilaterale, di pratica della pace.

Parla all’uomo dell’uomo.

Ho adorato le pagine in cui distingue i profeti dai sacerdoti:

Possiamo definire profeti coloro i quali proclamano idee – non necessariamente nuova – e in pari tempo le vivono. (…) Chiameremo sacerdoti coloro i quali fanno uso delle idee che i profeti hanno enunciato.  I profeti vivono le proprie idee; i sacerdoti le somministrano a quanti hanno care le idee stesse. Le quali perdono così vitalità (…) accade sempre che la formulazione acquisti importanza una volta che l’esperienza sia morta.

Ecco perché la gente non crede più in niente: perché le idee che vengono fatte circolare oggi fanno appello solo alla nostra mente, non al nostro cuore. Ci mancano gli esempi.

Si può affermare senza tema di esagerazione che mai la conoscenza delle grandi idee prodotte dalla specie umana è stata diffusa in tutto il mondo come oggi, e che mai queste idee hanno avuto meno incidenza di oggi.

E poi, sentite come Fromm ci spiega il senso di colpa contemporaneo: coloro che lo provano

non sono tormentati da un problema morale, ma dal fatto di non aver obbedito a un ordine.

Che l’ordine venga da un’organizzazione o sia il precetto di un’autorità interiorizzato, la sostanza non cambia.

Dobbiamo lavorare su noi stessi. Tutti.

 

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Le lacrime di Nietzsche, Irvin D. Yalom @NeriPozza

Bel libro: mi sento di suggerirlo a tutti gli amanti dei romanzi, non solo a chi si interessa di psicanalisi e filosofia.

Yalom, psichiatra e scrittore, parte dai dati anagrafici, reali, di personaggi storici (Nietzsche, Lou Salomè, Breuer, Sigmund Freud…) per farne un romanzo di fantasia, ma senza mai allontanarsi dalla verosimiglianza dei caratteri per quanto se ne può trarre da testi e testimonianze scritte; tranne forse nel caso di Lou Salomè, che difficilmente si sarebbe sentita in colpa per aver rifiutato di sposare Nietzsche, almeno al punto da ricorrere a un medico per aiutarlo. Ma non c’è rischio di confondere fantasia e realtà, perché l’autore alla fine ci spiega cosa ha inventato e cosa no.

Le malattie (o la malattia) di Nietzsche sono un mistero clinico difficile da svelare. Breuer, nel romanzo, dandone un’interpretazione, quasi giunge a una forma di guarigione: e se non ci giunge del tutto, questo dipende da Nietzsche. Ma non posso dirvi di più, altrimenti svelo troppo.

Quello che posso dire, è che nel romanzo è ben delineata l’amicizia che nasce tra il filosofo e il medico, nonostante i blocchi emotivi di entrambi; e sebbene il rapporto medico-paziente venga rivisto in modo originale – ribaltato, direi –  alla fine entrambi riescono a imparare qualcosa su se stesso e sull’altro. Merito della logoterapia, la terapia della parola, che riesce non sono a creare un’amicizia, ma anche a farci conoscere personaggi storici nel loro carattere, nei loro pregi e difetti (perché, diciamolo, Nietzsche aveva dei problemi con le donne…).

L’insegnamento generale che ne ho ottenuto, però, non è tanto nozionistico: non gira attorno alla storia del pensiero o della filosofia. L’insegnamento che si ottiene da questo libro è che nella solitudine non si guarisce.

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Le passioni della mente – Irving Stone

Romanzo biografico su Sigmund Freud

Irving Stone è conosciuto principalmente come autore di biografie romanzate. Lui stesso, in un video su youtube, si definisce un Bookworm, uno che va pazzo per i libri. Il suo primo incontro con Freud è stato a diciannove anni, quando, appena entrato all’università, ha fatto una capatina nella biblioteca, e si è portato via, tra l’altro, “Psicopatologia della vita quotidiana”: che coincidenza! Questo è proprio il titolo che ha fatto innamorare me, di Freud, quando avevo sedici anni! Ed è anche il libro che Freud ha scritto per il vasto pubblico, mentre prima i titoli si indirizzavano principalmente al mondo medico, visto che la psicanalisi doveva ancora farsi accettare come scienza.

Ma torniamo alla biografia.

Il romanzo inizia quando Freud ha poco meno di trent’anni e sta facendo la corte a Martha, sua futura moglie. Si è appena laureato e il suo sogno sarebbe quello di lavorare nell’università, come ricercatore, ma non ce la fa. Intanto però mette da parte un bel po’ di esperienza con le malattie organiche… Ci vuole molto prima che lui si accorga di aver dato inizio ad una nuova scienza della psiche (ricordo che allora la psicologia non era considerata come una scienza), e non gli mancano i detrattori.

Pian pianino, l’impalcatura della psicanalisi cresce e si espande a tutto il mondo. Prima di arrivare a questo, però, il dottor Freud dovrà superare molte difficoltà: dall’antisemitismo (lui era ebreo, sebbene non praticante), al baronaggio, alle invidie, alle guerre… Ci sono diversi periodi in cui Freud ha difficoltà a comprarsi un abito nuovo o un nuovo paio di scarpe, soprattutto all’inizio della sua carriera.

Ci sono due punti importanti che caratterizzano Freud (così come molti altri personaggi famosi):

1: non si demoralizzava quando riceve critiche, anche se pesanti, e anche se queste provenivano da persone di cui lui aveva un’altissima stima. Era convinto, appassionato, innamorato di quello che stava studiando e continuava per la sua strada.

2: pian pianino si costruì una rete di amicizie. E che amicizie! Breuer, Adler, Rank, Steiner, Jung, Ferenczi, Lou Salomé… Tutta gente con la quale poteva discutere e lo aiutava a diffondere le sue idee. Arrivò ad avere dei contatti anche con Thomas Mann ed Einstein.

A me la psicanalisi piaceva molto una volta, prima di scoprire che non spiegava tutto; dunque la biografia interessava. Devo però ammettere che questo romanzo è troppo lungo (873 pagine): in particolare, l’autore avrebbe potuto risparmiarci alcuni casi psicanalitici; ne vengono riportati davvero tanti, molti dei quali già letti nei testi originali di Freud; forse qui era il caso di essere un po’ più sintetico (anche perché poi, alla fine, le cause delle malattie per la psicanalisi sono sempre le stesse, più o meno).

Inoltre, Stone avrebbe fatto bene ad essere più sintetico anche sulle parti che riguardavano le vacanze: ogni anno in estate la clientela di Freud andava in villeggiatura, e siccome il dottore restava quasi senza nulla da fare, si godeva anche lui le vacanze. Ecco: descrivere le varie case o alberghi con i dintorni, nonché le attività con cui trascorrevano le giornate (passeggiate e passeggiate!), alla fine allunga molto il libro senza dire nulla di concreto sulla vita del protagonista.

A parte questi due punti, libro consigliato a chiunque interessi la vita di questo pioniere della mente umana.

 

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Picasso era una merda.

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SCHIAVA DI PICASSO, di Osvaldo Guerrieri

Meravigliosa sorpresa, questo Osvaldo Guerrieri. Bellissimo libro; similitudini azzeccatissime e poetiche; ottimo approfondimento psicologico; personaggi interessanti al limite del pettegolezzo, ma descritti senza mai scendere di tono; ricostruzione storica che ti fa dimenticare che il lavello è là, a un metro da te, che aspetta di esser svuotato e ripulito.

Ma il lavello può farsene una ragione: se leggi questo libro, tu sei Parigi, nel 1936, a guardare come Dora Maar si fa umiliare da quello stronzo di Picasso.

Un gran romanzo biografico perché ti fa riflettere, più in generale, sui certi rapporti uomo-donna. Come può una Dora Maar, fotografa bellissima e intelligente, lasciarsi mettere i piedi in testa da un egocentrico patologico che si autogiustifica sfruttando la sua arte e la sua nazionalità? Uno che le dice: molla le tue stupide attività e vieni qui? Uno che ha la sfrontataggine di riunire in uno stesso albergo due amanti, una moglie, un figlio adulto e una figlia di pochi anni, e di pretendere che interagiscano tra di loro in tutta cordialità? Uno che si diverte a vedere due delle sue donne che si graffiano e si strappano i capelli per lui, e che le lascia fare, perché, dice, non si è mai divertito così tanto?

Picasso, sarai anche defunto, sarai anche stato un innovatore in arte, sarai anche stato miliardario, e uno dei tuoi quadri potrebbe comprare me con tutta la casa e la mia discendenza… ma eri una merda. Sei una merda, pure da morto.

Quando deve essere interessante un uomo perché una donna accetti di trasformarsi in ombra? Ci deve essere un limite alla cultura, alle bravure a letto, al denaro, al glamour!

Ehi, aspettate un attimo: perché parlo di donne? Nell’ambiente in cui lavoro quanti pseudo-artisti ci sono che si ritengono dispensati dalle comuni regole di buona educazione se il bollino che ti hanno attaccato in fronte dopo la prima occhiata non ti colloca tra i primi posti nella loro personalissima scala di valori?

Si ricade nella questione che da anni mi infesta la mente sulla valenza dell’arte. A cosa serve essere bravi artisti se non si è brave persone?

Per fortuna Dora Maar, alla fine, l’ha capito; anche se questo scatto di consapevolezza le è costato un bel po’…

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