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Elogio della letteratura, Bauman/Mazzeo @Einaudieditore

 


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Zygmunt Bauman ci ha lasciato quest’anno: era un autore prolifico, esponente di una sociologia fuori dagli schemi, lontana dalla disciplina accademica tutta dedita ai numeri e alle statistiche.

Credo che non ci sarebbe potuto essere un ricordo più gentile, di questo libro, scritto a quattro mani col suo amico Riccardo Mazzeo.

E’ un dialogo sul rapporto tra sociologia e letteratura, che pur condividendo gli la struttura discorsiva e molti degli scopi (l’analisi dell’uomo), spesso sono viste come due discipline lontane, quando non antitetiche, visto che la prima mira a farsi definire come scienza, mentre la seconda rientra senza dubbio nel campo delle arti.

Il colloquio tra Mazzeo e Bauman verte sì sulla relazione tra le due discipline, ma finisce per toccare argomenti apparentemente molto lontani: dalla figura del padre, alla twitteratura, dalla perdita degli intercessori all’homo consumens.

Essendo un saggio breve (appena 136 pagine) non si può riassumerlo in modo valido, perché ogni frase è pregna di significati e rimandi; ma un messaggio si può cercare di trasmetterlo: è che la letteratura, per quanto dotata di un potere salvifico, da sola non può risolvere i problemi di una società, esattamente come un insegnante singolo (che sia un Affinati o un Bergoglio) non possono risolvere i problemi della povertà e dell’ignoranza.

Risulta qui essenziale la distinzione tra troubles (i problemi che ognuno di noi vive nella propria quotidianità) e gli  issues (i problemi comuni a tutti gli esseri umani che possono essere affrontati solo tramite azioni collettive).

Notevole è poi l’elenco degli autori che, nel corso del dialogo, vengono menzionati: si passa da Nietzsche a Kafka a Kraus ad Alberto Garlini a Jonathan Franzen a Luigi Zoja alla Nussbaum ecc….

Insomma, anche se a volte un po’ troppo colto, è sicuramente una lettura stimolante.

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Alla ricerca di Marcel Proust, André Maurois

I grandi hanno sempre frequentato persone che li aiutavano a diventare ancora più grandi: anche qui, Proust partecipava a riviste letterarie, gruppi nascevano al liceo attorno a delle linee filosofiche, venivano organizzate serate per discutere di cultura, conosceva Daniel Halévy (autore di una biografia su Nietzsche) e Oscar Wilde (erano entrambi omosessuali ma nei loro incontri non ci vedo niente di losco)… oggi non ci sono più circoli del genere. La cultura è diventata qualcosa da consumare dietro il pagamento di un biglietto, o da discutere davanti a una pizza con la musica che ti trapana le orecchie, tanto per far bella figura.

“Accettare se stessi è la condizione prima per poter scrivere”. Proust non ha iniziato subito a scrivere: ha raccolto materiale per anni, ma ha pubblicato la recherche solo quando si sentì pronto. E sempre ha seguito un unico padrone: “un artista deve servire soltanto la verità”. “L’obbligo morale in lui prendeva quella forma, molto speciale, del dovere dell’artista che è di dipingere con assoluta verità, con estremo coraggio, quello che vede”. Solo obbedendo a questo principio supremo è riuscito a vedere quello che altri non vedono (concezione dell’arte di Bergson!), come questo: “Non si sceglie la persona che si ama ‘dopo mille riflessioni’ per le sue qualità o per i vantaggi che offre, ma si sceglie soltanto sotto l’influenza di impressioni che, come si vedrà, spesso non hanno alcun rapporto col valore intrinseco dell’oggetto e anzitutto perchè quella persona si trova a esser presente in quel momento”. O questo: “Dopo anni di vita comune, che cosa realmente sappiamo dei nostri compagni o delle nostre compagne? Qualche frase, qualche gesto, qualche abitudine. Ma i pensieri segreti che compongono la loro essenza ci rimangono, per definizione, inconoscibili, mentre quelli espressi sono deformati dal linguaggio, dal desiderio di piacere, dall’incapacità, comune a quasi tutti gli esseri, di esprimersi”. A questi ostacoli aggiungerei: la prosopopea di conoscere la persona in tutte le sue sfaccettature per il solo fatto di viverci assieme da anni; la mancanza di interesse, che deriva da questa erronea convinzione; gli intrusi, siano essi uomini o oggetti; il tempo, che è sempre poco e che preferiamo impiegare nel tagliare l’erba o nello spolverare piuttosto che nell’approfondimento della personalità altrui. Ho dimenticato qualcosa?

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Proust e l’omosessualità

ALLA RICERCA DI MARCEL PROUST è un libro di Maurois del 1958. I testi che trattano dell’inversione vengono dichiarati come inediti, molti appartengono alla signora Mante-Proust, nipote dello scrittore: non so se sono ancora inediti.

“… poichè essa è basata su un’identità di gusti, di bisogni, di abitudini, di pericoli, di tirocinio, di conoscenza, di traffico, di vocabolario, per la quale gli stessi membri che desidererebbero di non conoscersi si riconoscono subito da segni naturali o convenzionali, involontari o voluti, che designano a un mendicante uno dei suoi simili in un gran signore a cui chiude lo sportello della carrozza; a un padre uno dei suoi simili nel fidanzato della figlia; a colui a cui occorre guarire, o confessarsi o essere difeso, uno dei suoi simili nel medico, nel prete, nell’avvocato che va a consultare, tutti obbligati a proteggere il loro segreto, ma che possiedono in parte il segreto di altri, segreto che il resto dell’umanità non suppone, e che fa sì che per costoro i più inverosimili romanzi di avventure sembrino veri (…)”

Dice Maurois: “E’ rischioso e pericoloso per un romanziere trattare questo soggetto interdetto, oppure relegato negli inferi delle biblioteche. La serietà della sua opera, la bellezza del suo stile, non potrebbero proteggerlo che agli occhi di lettori degni di lui; ma migliaia di altri lettori, e perfino scrittori e critici, lo abbandonerebbero e lo giudicherebbero alla sola enunciazione del titolo e del tema. Marcel proust lo sapeva, e si aspettava di perdere la maggior parte dei suoi aici quando venisse pubblicato il vero Charlus. Ma egli considerava il rispetto per la verità la principale virtù per un artista, aveva osservato che parte importante avesse nella vita l’amore aberrato; e sentiva un bisogno irresistibile di esprimersi sinceramente su questo problema”.

Maurois si chiede se l’omosessualità di Proust può avere degli effetti sulla sua opera, se la conoscenza che egli ha dell’universo femminile può esserne in qualche modo inficiata. La risposta è no, ma non al 100%. No, perchè comunque Proust frequentava e conosceva tantissime donne; e no, perchè l’analisi dell’amore (un’analisi molto pessimista) è indipendente dall’oggetto amato. Comunque un’influenza c’è, dice Maurois: “Proust ha trascurato, nella sua analisi dell’amore, gli istinti particolari della donna, la natura completamente diversa della sua sensualità, il suo bisogno di attaccamento e di durata”. Il problema è in parte risolto dal fatto che non doveva descrivere nessun personaggio femminile dall’interno, perchè tutto è scritto in prima persona (il Narratore è un uomo). Però Maurois, a differenza degli altri punti, non mi esemplifica i punti in cui Proust ha “cannato”: io non ho letto tutti i volumi della Ricerca…

“Esistono creature che si rifiutano di vedere le cose che stanno dall’altra parte dell’orizzonte. Quest’opera non è stata scritta per costoro. ma le anime coraggiose che osano affrontare le vicende del cuore; tutti coloro, uomni o donne, che vogliano conoscersi così come sono in realtà, e non come dovrebbero essere; tutti coloro che amano la verità più di quanto amino la felicità, e che non credono alla felicità senza la verità, costoro cercheranno in questa prova, in questa sofferenza che l’accettazione del mondo di Proust, così nuovo e spietato, significa, vie difficili verso un amore migliore”.

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