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Dieci cose da sapere sull’economia italiana prima che sia troppo tardi (Alan Friedman) @AlanFriedmanit

Lo ho letto in due giorni scarsi, tutta presa dalla curiosità di arrivare alla fine e vedere se ci offriva una soluzione facile e indolore alla situazione italiana.

Ovviamente, come dovevo aspettarmi, le soluzioni facili e indolori non esistono, e Friedman ce lo ricorda ogni due pagine. Però una visione realista, anche se negativa, è sempre meglio di una frottola, come quelle che ci raccontano molti politici pur di tirar su voti.

E poi, ho ripassato alcuni concetti su cui non si riflette mai abbastanza.

Lo Spread, ad esempio.

Lo spread è dato dalla differenza dei tassi d’interesse pagati dai paesi sui loro titoli di stato. Di solito si confrontano i tassi tedeschi con quelli italiani: siccome l’Italia non è considerata un paese solvibile e affidabile (siccome dunque prestarle soldi è rischioso), i suoi tassi di interesse sono alti.

Investimento rischioso –> alto interesse.

La Germania al contrario è considerata affidabile, e, come succede con tutti i prestiti, se sono sicuri danno un basso rendimento, dunque i tassi di interessi tedeschi sui suoi titoli di stato sono bassi.

Più l’Italia è considerata inaffidabile, più i prestiti a lei fatti sono considerati rischiosi, più aumentano i tassi di interesse sui suoi buoni del tesoro, più aumenta la differenza con i tassi tedeschi (e dunque lo spread).

Ogni aumento dello spread ci costa diversi miliardi di interessi in più sul debito italiano.

Ma visto che il processo è noto, mi viene da pensare che quando un politico fa una cazzata e fa cadere la fiducia che si nutre nei confronti del sistema Italia, ci sia sotto qualche forma di intenzione mirata…

Un altro passo interessante è quello che riguarda le pensioni.

Purtroppo l’argomento è diventato il cavallo di battaglia di molti politici che promettono azioni popolari ma per nulla gestibili.

Per esempio, io non avevo capito (da grande ignorante che sono) l’ineguaglianza di fondo del sistema pensionistico retributivo.

Quando la Fornero ci ha fatto passare (anche se non subito) dal sistema retributivo a quello contributivo, tutti si sono concentrati sulla diminuzione delle pensioni.

Ma pochi hanno sottolineato quanto ineguale era il sistema pensionistico retributivo, che manteneva lo stesso introito ai pensionati in base agli stipendi degli ultimi anni (ma totalmente svincolato dagli effettivi contributi versati!). Significava che i pensionati continuavano a percepire una somma che era superiore ai contributi versati!

E questa differenza veniva pagata in parte dai lavoratori, in parte dal debito pubblico.

Quello che non mi convince, è che Friedman dice che l’unica soluzione è ricorrere a fondi pensionistici privati.

E non mi convince per esperienza personale: perché nessuno di quelli a cui mi son rivolta per aprire un fondo pensionistico è stato in grado di dirmi quanto ritirerò di pensione integrativa. Perché?

Almeno un’idea dovrebbero averla, questi consulenti, no? Togli le oscillazioni dovute all’inflazione e ai tassi di interesse, un minimo di idea dovrebbero averla. Per lo meno, se la pensione, con questi fondi, è calcolata col sistema contributivo. O no? Boh, non mi convincono.

Friedman se la prende, a ragione, con la demagogia di certi politici che sfruttano il malcontento popolare per racimolare voti.

Uno degli argomenti più caldi al momento è l’uscita dall’euro (sebbene l’uscita dall’euro e dalla Comunità Europea siano due concetti che spesso vengono confusi).

Il Salvini di turno dice che se usciamo dall’euro, la lira, avendo un valore più basso rispetto alle altre valute, renderebbe più competitivi i prodotti italiani, incrementando l’export. Peccato che allo stesso tempo renderebbe molto più costosi tutti i prodotti che importiamo (energia in primis, perché ci siamo accorti che non ne abbiamo molta, di nostra, vero?).

Altri argomenti interessanti, spiegati in modo comprensibile, sono la tassazione, la disoccupazione, il sistema bancario, i mercati finanziari.

Questo libro è uscito nel 2018 ma è ancora molto attuale (certo, non poteva prevedere la mazzata del Covid, ma sono sicura che Friedman ne parli nel suo ultimo libro, in uscita in questi giorni).

Molti aspetti economici me li ha chiariti. Su altri mi ha fatto sorgere delle domande (il che non è una cosa negativa).

Ad esempio: se si riducesse il cuneo fiscale (la differenza tra lo stipendio pagato dall’azienda e lo stipendio percepito dal lavoratore) riducendo le tasse, chi ci dice che gli imprenditori non sfrutterebbero questo sconto per tenersi i soldini invece di lasciarli al dipendente?

E poi: questa insistenza sulla necessità di produrre di più e consumare di più per aumentare il PIL… Fino a quanto bisogna aumentare la produzione e il consumo? Il consumo è il motore dell’economia, ma possono il consumo e la produttività crescere all’infinito?

Io cambio auto ogni vent’anni, o finché funziona: perché devo cambiarla ogni dieci, solo per aiutare il PIL?

Non compro il cellulare nuovo perché è uscito un nuovo modello, uso quello che ho perché mi basta per l’uso che ne faccio. Per indurmi a cambiarlo, devono convincermi che mi servono le nuove funzionalità: ed ecco la necessità di creare nuovi bisogni…

Infine, un appunto all’autore: lungo tutto il saggio utilizza la storia di una famiglia di Livorno per far capire meglio al lettore come funziona un sistema economico, prendendo la famiglia come esempio del sistema Italia. A volte questa storia va fuori tema.

Ho capito che bisogna semplificare, ma descrivere il menù della famiglia quando va a trovare lo zio ricco mi sembra esagerato.

Poi: non si esce dallo schema che il marito guadagna di più e che la donna si dedica a lavori di cura, che l’uomo si occupa di politica e che la donna va a guardare i fiori in giardino lasciando marito e cognato a discutere di politica ed economia… Questa parte non mi è piaciuta per niente. Scusate, ma ormai in ogni romanzo e ogni film c’è una coppia gay: stiamo superando il cliché della famiglia tradizionale, ma quando compare una famiglia tradizionale, il ruolo della donna è sempre quello della cuoca e del silenzio.

Infine: ad un certo punto il marito ammette di non sapere cosa significhi suddividere il rischio degli investimenti.

Dubito che un lettore medio (come quello che può essere colui che si accinge a leggere un libro di Friedman) non sappia cos’è la diversificazione del rischio. Ho capito che Friedman si rivolge a un pubblico non professionista, però ci sono gradi e gradi di ignoranza.

Insomma, a parte la storia della famiglia, credo che sia un libro da leggere.

E’ quasi profetico nel suo desiderio di un politico competenze in materia economica (ricordo che il libro è uscito nel 2018!) e non mi meraviglio che Friedman sia così entusiasta di Draghi (già ne parlava bene nel libro, quando ancora non si pensava a Draghi come presidente del consiglio).

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L’incanto del benessere (Paul Krugman)

Vi siete mai chiesti perché i politici prendono certe decisioni al posto di altre in materia economica?

Qualcuno può rispondere: perché si affidano agli economisti.

Ebbene, la risposta è parziale. Perché una cosa sono gli economisti, di solito accademici che scrivono per i pochi iniziati capaci di capirli, e un’altra cosa sono gli imprenditori politici, personaggi, di solito giornalisti (ma a volte anche economisti) che sanno come scrivere per il pubblico.

Ebbene, le due figure sono molto diverse. Di solito i politici non si affidano ad economisti tout court, perché le teorie economiche sono molto complesse e fanno ricorso a troppa aritmetica per riuscire a far colpo sull’elettorato. Ecco l’entrata in scenda, dunque, degli imprenditori politici, bravi divulgatori, spesso con un background economico, ma che, proprio per risultare “simpatici” al grande pubblico, spesso peccano di semplificazione (ed è per questo che, anche se di origini accademiche, spesso sono “ripudiati” dai colleghi).

Ai politici di professione questo importa poco: l’importante è convincere la gente a votare in un certo modo, e per farlo è più utile un professionista che sappia creare una narrazione efficace. Spesso un governo si scegli i i consulenti perché il loro discorso economico si adatta meglio alle idee che il governo ha già in testa.

Krugman sostiene questa tesi analizzando gli anni della politica repubblicana negli Stati Uniti dal 1973 fino al 1993 (il libro è uscito nel 1994).

Al di là di un ripasso generale sulle teorie keynesiane, monetariste e offertiste, Krugman commenta le decisioni politiche prese da dodici anni di governo di destra (Reagan e Bush) cercando di essere il più possibile super partes (lui sarebbe di estrazione keynesiana).

Infatti, io mi aspettavo che dicesse peste e corna del liberismo, invece è saltato fuori che i conservatori non hanno poi causato quel caos infernale che la controparte temeva, soprattutto perché i veri interventi economici sono attuati dalla Federal Reserve Bank, che in realtà è abbastanza autonoma dal governo centrale.

Qualcosa di brutto però, durante gli anni conservatori, è successo: è aumentata notevolmente la sperequazione dei redditi tra ricchi e poveri, flagello che tormenta gli Stati Uniti ancora oggi, nel 2021, e sono molto interessanti le pagine in cui Krugman spiega quali possono essere le cause di questa sperequazione.

Un altro grosso problema americano è la bassa produttività.

La produttività è il principio cardine su cui si basa lo stato di salute di un’economia, ma le cause delle sue oscillazioni non sono davvero conosciute.

Il problema è che i politici attribuiscono la colpa della bassa produttività a fattori diversi, in base a quello di cui hanno bisogno.

Un errore madornale, ad esempio, è quello di dire che la produttività è bassa per colpa della concorrenza internazionale.

Ebbene: produttività di un paese e scambi internazionali NON sono direttamente legati. Eppure, molti governi, da questa e dall’altra parte dell’oceano, sostengono che bisogna attuare delle politiche di controllo del commercio internazionale per sostenere l’economia del proprio stato…

Insomma: l’economia è una disciplina che dovrebbe farci capire come funziona una realtà, ma è poco adatta a dare indicazioni per modificare quella realtà in una data direzione perché le variabili sono troppe e poco controllabili. Eppure i politici si servono di divulgatori di professione, spesso per giustificare manovre che, altrimenti, sarebbero poco popolari per l’elettorato.

Più che una lotta tra diverse teorie politiche, è una lotta tra diverse narrazioni della realtà.

Ancora una volta, non è la realtà che ci spinge ad agire in un certo modo, ma la narrazione che ne facciamo (ve lo ricordate Harari??).

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