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Rossovermiglio (Benedetta Cibrario)

Premio Campiello 2008

Ero un po’ diffidente dopo aver letto sulla copertina che questo è il primo romanzo della Cibrario: e come ha fatto a farsi subito pubblicare da Feltrinelli? E come ha fatto a prendere subito un Campiello?

Siamo così intessuti di nepotismo, che davanti al successo di una newbie siamo subito prevenuti.

E invece, appena inizi a leggere, capisci che questo romanzo merita.

La protagonista, di cui non sappiamo il nome, parla in prima persona della sua vita: ora è anziana, vive nella sua tenuta in Toscana, e ci racconta di come ci è arrivata. Nel 1928 si era sposata con un uomo scegliendolo da una lista di cinque nomi proposti da suo padre.

Il matrimonio si rivela subito insoddisfacente: i due non hanno nulla in comune, non si capiscono. Il marito ad un certo punto arriva a vendere il suo cavallo preferito senza chiedere il suo parere. Poi, inevitabilmente, si trova un’amante.

Lei non alza mai la voce: non fa scenate, non impreca, non esce mai dai binari della buona educazione che le sono stati imposti nella ricca famiglia torinese da cui proviene. Però ad un certo punto se ne va e si trasferisce in una tenuta ereditata dopo la morte del fratello in guerra.

Non ci sono grandi eventi, in questa vita. Quello che lei considera il più profondo, è Trott, un uomo misterioso e affascinante di cui diventa amante ma che ogni tanto sparisce e nessuno sa dove vada.

Ci sono due grandi temi che attraversano queste pagine.

Uno è l’incomunicabilità: mi riferisco specificatamente all’incomunicabilità tra marito e moglie, ma il discorso è molto più ampio. Tutti i personaggi fanno fatica ad esprimere quello che pensano e che sentono: manca loro il linguaggio adatto, e così continuano a comportarsi come viene richiesto loro dalla società in cui vivono.

L’altro tema è la ribellione.

Ma c’è davvero ribellione in questo romanzo?

La protagonista, un giorno, prende e se ne va di casa. Il marito non indaga più di tanto, e lei più di tanto non spiega. Più che di ribellione, bisognerebbe parlare di ritiro: lei si ritira in se stessa, rinuncia a dire quello che le occupa il cuore e la mente. Passa le giornate andando a cavallo, occupandosi delle vigne e pensando a Trott, ogni tanto, finché lui non ricompare.

Ma non affronta mai sul serio quello che l’ha portata ad andarsene di casa, né assume un atteggiamento attivo nei confronti di Trott, limitandosi a prendere quello che lui le dà quando vuole.

E’ così chiusa, così abituata a non alzare la voce, che arriva alla vecchiaia senza sapere cosa le è successo davvero.

Ogni tanto le sembra di vivere un evento che la porta a svegliarsi dall’incanto, e invece no. Fino alla fine, è come se dormisse. Ma proprio fino alle ultime pagine.

Davvero bello, scritto divinamente.

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Dopo l’amore (Giancarlo Marinelli)

PREMIO CAMPIELLO 2002 – SELEZIONE GIURIA DEI LETTERATI

Dopo la storia dei quattro amici di Nevo (v. post precedente), eccoci con la storia di altri tre amici, ma nella campagna polesana, lungo il Po’, e l’atmosfera non può essere più diversa.

L’ambientazione ti dà subito un pugno in faccia: è proprio squallida.

I tre amici vivono in un paesetto che non ha niente da offrire. Camillo fa l’operaio, Franco vive di un non meglio identificato import-export, e Mattia fa il cassiere di giorno e studia di notte per prendere il diploma.

Quando dei giovani cercano qualcosa da fare in un posto del genere, finiscono a bere birra, fumare, cercar donne che possano offrire qualcosa di veloce e poco impegnativo. Una sera si trovano in un locale a luci rosse, e Mattia si innamora follemente di Jessica, una delle ballerine che arrotonda lo stipendio chiudendosi coi clienti dietro ai separé.

Ma Mattia non sa come trovare Jessica, e per cercare di dimenticarla inizia a frequentare Martina, di cui Franco è innamorato perso.

Oltre all’atmosfera di squallidume del luogo, a rendere il tutto ancora più depresso ci sono anche le storie che Franco e Mattia hanno alle spalle.

Franco ha una sorella all’ospedale, malata terminale, che lo ha cresciuto, e Mattia ha perso la madre per un tumore. A ciò si aggiunge un vecchietto che incontrano al locale e che sta perdendo la moglie – sempre per un tumore – e che si imbruttisce con le pornostar (e vi avviso che l’autore non vi sconta niente sulle descrizioni).

Nonostante la tristezza dell’ambiente, però, l’autore descrive Mattia e Franco in modo multisfaccettato, senza ricorrere a cliché e senza lasciare che i suoi personaggi si lascino deformare dai luoghi che frequentano.

Quello che ti prende di questo libro è lo stile di scrittura: sembra poesia, pieno di figure retoriche, bellissime immagini, metafore, similitudini, parole inventate…

Ma, secondo me, questa scrittura densa e melodica è anche il limite del libro. Perché personaggi così, nati e vissuti in un luogo così squallido e triste, non possono parlare come poeti. Non ci sta proprio. E’ una nota stonata.

Verso la fine, poi, Franco compie un’azione che è piuttosto estrema ma che non si incastra bene con il comportamento che ha mostrato fino a quel momento: prima, c’erano sì degli accenni a tramacci e affari poco chiari, ma lui – a noi – si mostra sempre come uno molto legato agli amici e all’idea di un amore ideale, uno che non spiega bene che lavoro fa ma che non frequenta delinquenti né va in giro col macchinone acquistato con soldi sporchi. Insomma, questo gesto è come un pesce che salta fuori da uno stagno prosciugato…

Credo che il premio Campiello lo abbia preso più sulla fiducia e sull’ambientazione polesana che per le effettive caratteristiche del libro.

Ciò non toglie che una scrittura così può dar molto. Magari ho solo sbagliato libro.

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Malaguti, Premio Campiello 2021, a S. Donà di Piave (VE)

Finalmente sono andata alla presentazione di un libro! E ho rincominciato in grande, ieri sera, al Caffè Letterario di S. Donà, con Paolo Malaguti, Premio Campiello 2021 Selezione Giuria dei Letterati.

Davanti a un gruppetto poco numeroso ma molto attento, ci ha parlato di “Se l’acqua ride”, un romanzo ambientato nella bassa padovana che ci racconta della fine della fine navigazione fluviale tra il 1965 e il 1967.

E’ dunque un libro incentrato sul momento di passaggio da un sistema economico che ruotava attorno al fiume, ad uno che ruota attorno all’industria e al trasporto su gomma. Non lo ho ancora letto, dunque non mi soffermerò sui dettagli, ma mi limiterò a raccontarvi un po’ di quello che è stato detto ieri sera.

Malaguti è affascinato dalle parole, soprattutto da quelle che sono cadute in disuso, e ammette che spesso parte da un termine per costruirci attorno una storia: cioè, non è il contenuto che guida la scelta delle parole, ma è l’autore che vuole assolutamente utilizzare una parola e inizia a chiedersi cosa può succedere attorno ad essa.

E qui è intervenuta Irene Pavan, che, in veste, per la prima volta, di presentatrice, gli ha chiesto se l’utilizzo di parole venete in un romanzo pubblicato da un editore a distribuzione nazionale non poteva essere pericoloso.

E’ una domanda che avrei potuto fare anche io, che ho sempre difficoltà a leggere libri di autori siciliani o napoletani che utilizzano troppi termini dialettali, ma devo ammettere che col veneto, per ovvi motivi, faccio meno fatica.

Qui Malaguti però ha detto una cosa interessante: la comprensione va… provocata. Cioè, non bisogna limitarsi a scrivere quello che si sa che il pubblico può capire, non stiamo leggendo un libretto di istruzioni per montare un mobile Ikea. La letteratura in quanto tale possiede un’anima poetica, e la poesia può e deve celarsi: è dunque tutto a posto se la sfumatura che un lettore dà a una frase è diversa dalla sfumatura che ne dà un altro lettore (cosa che potrebbe creare problemi invece se dovessimo montare una libreria).

In secondo luogo, ha aggiunto Malaguti, l’italiano non è una lingua parlata (Meneghello docet) e non ha una origine popolare, e questo lo priva di alcuni connotati affettivi che sono intrinseci alla lingua che si usa tutti i giorni e che di fatto è nostra nel senso più completo del termine.

Sono stati affrontati anche molti altri temi prima di chiudere l’incontro e di dedicarci alla firma degli autografi, ma mi fermo qui, perché voglio prima leggere il romanzo e poi confrontare quello che ho sentito con quello che leggerò.

Mi concedo solo un ultimo commento sulla sensazione generale della serata.

Come ho detto c’erano poche persone: se da un lato S. Donà non ci ha fatto una bella figura, dall’altro… si stava proprio bene! La gente era seduta ai propri tavolini, con la possibilità di bersi uno spritz, non c’era confusione, e non ho dovuto uccidere nessuno per farmi fare l’autografo.

Malaguti ed Irene, poi, avevano un atteggiamento rilassato, sembravano a casa propria tutti e due: capisco Malaguti, che è insegnante ed è abituato a parlare davanti a tanti occhi che lo guardano, ma lasciatemi fare i complimenti ad Irene Pavan (che è l’autrice di Solo per dirti addio) e che non ha lasciato trasparire quasi nulla dell’emozione che si portava dentro.

Ci sono scrittori che ti fanno sentire un animale di razza inferiore: magari non lo fanno consapevolmente, perché non ti conoscono e non vogliono farti del male, ma la sensazione ti arriva lo stesso attraverso l’uso di una frase in latino, o un movimento della testa quando dici qualcosa di ingenuo dal loro punto di vista.

Malaguti non è così: pur avendo vinto uno dei più importanti premi letterari italiani e pur essendo pubblicato dall’Einaudi, quando sorride, sorride.

Non è scontato.

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Eventi letterari e letteratura @illibraio @magilibri @amantilibri @lalibridinosa

Due giorni fa mi trovavo all’ospedale di Padova, in attesa. Attesa che è durata più di due ore, per inciso, ma l’attesa perde la sua essenza quando la riempi di contenuti interessanti.

Di solito, io leggo.

Libro in borsa (borsa che è sempre troppo piccola per tenere al proprio interno tutta quella carta), e via, aspettiamo, non importa quanto! Credete di farmi innervosire non chiamandomi? E io vi frego: io, signori miei, leggo il mio interessantissimo libro, ah ah!

Due giorni fa, però, oltre che alla lettura, mi son dedicata all’ascolto dei due che parlavano davanti a me.

Un uomo e una donna. Non erano in coda per nessuna visita. Forse lui era un dirigente ospedaliero di qualche tipo, perché non portava camice, ed era la signora che era venuta appositamente là per incontrarlo.

Due persone distinte, che parlano un ottimo italiano, educate, di quelle che piacciono a me.

La mia attenzione, però, si è incentrata su due cose: la borsa di tela della donna, che aveva il logo del Campiello, e il mattone di fogli che aveva portato con sé.

Quando hanno iniziato a parlare, ho capito che stavano organizzando la lista degli invitati per la serata finale del Campiello.

Wow! Mi son detta. “Ora li interrompo e gli chiedo cosa devo fare per diventare una giurata del Premio”.

Ragazzi: ti mandano tutti i libri a casa e ti chiedono di compilare una scheda di valutazione (unico vincolo: la segretezza). Insomma, il paradiso. Ho fatto domanda più di una volta, ma niente da fare.

Poi però non li ho interrotti e non ho rivolto loro nessuna domanda.

Perché non parlavano di libri. Era come se stessero organizzando il brunch di una importante azienda.

Parlavano solo di invitati di… “prestigio”: direttori di banche, CEO, generali, rappresentanti della regione, politici, giornalisti. Avevano mandato l’invito anche a Di Maio e Salvini, ovvio.

Certo, mi si dirà: erano là per quello. Per la lista degli invitati.

Ma…

Ma insomma – e qua mantengo un linguaggio educato solo perché sono una signora! – Porco suino… farsi una domanda, o porsi il dubbio del perché vengono creati questi eventi letterari, è passato di moda?

Quanti di questi personaggi di “prestigio”… leggono?

Scusate lo stile abborracciato, ma queste cose mi mandano fuori di testa.

Lo scopo degli eventi letterari deve essere quello di

  1. incentivare la lettura e di
  2. permettere l’incontro tra anime innamorate dei libri.

Macchè.

E’ come agli eventi culturali nei nostri paesetti di provincia, in teatro, ad esempio, quando si tengono riservati i posti alle autorità. Posti che spesso rimangono vuoti (educazione vorrebbe che tali autorità avvertissero, se impegnate, in modo da togliere il cartello “riservato” e far sedere chi è davvero interessato all’evento). Stesso principio: si privilegia il personaggio al posto della persona davvero interessata.

Beh.

Insomma.

Dai, ripensandoci: meglio così.

Meglio che una come me non vada mai alla premiazione di un Campiello o di uno Strega. E dico: MAI!

Sarei là, in prima fila, davanti ai miei scrittori preferiti con gli occhi da pesce, la bocca aperta e la bava che gocciola…

No, dai, diciamolo: ci farei una pessima figura.

Pessima.

Pessima, davvero.

Mamma mia! Che figuraccia farei.

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