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Una vita per l’arte (Peggy Guggenheim)

Quello che mi è rimasto più impresso dalla lettura di questa autobiografia è che Peggy Guggenheim era sì molto ricca ma non ricca da far schifo. Ci sono passaggi in cui racconta della necessità di risparmiare su cibo e vestiti: sì, certo, è perché i suoi zii hanno investito il suo patrimonio in titoli e dunque non è subito liquidabile, ma la cosa mi ha lasciato comunque sorpresa, perché la immaginavo come una donna alla quale uscissero le banconote dalle orecchie.

Suo padre è morto nell’affondamento del Titanic, ma il matrimonio dei genitori della Guggenheim era già in alto mare da un pezzo, perché lui tradiva la moglie a spron battuto: la moglie lo sapeva, ma, per rispettare le convenzioni sociali, non lo aveva lasciato (by the way: lui muore sul Titanic, ma la sua amante si salva).

Peggy nasce e cresce in una famiglia ricca, abituata ai servitori e alle vacanze all’estero, ma non nasce in un ambiente prettamente artistico: l’arte, soprattutto l’arte moderna, per lei sarà una conquista individuale, ottenuta attraverso le letture e le conoscenze personali.

Prima di diventare la mecenate che conosciamo, però, Peggy si è immersa nel mondo bohémienne dei suoi anni, incurante delle critiche che le arrivavano da parenti e amici. Leggendo la sua autobiografia, scritta nel corso di vari anni e rivisitata anche in tarda età, ho avuto l’impressione che si compiacesse di questa vita un po’ alla deriva: feste, uomini, bevute…

Non mi meraviglio che i figli di quest’epoca e di questo ambiente fossero molto criticati anche per la loro mancanza di partecipazione storica: guerre, profughi, malattie… e loro pensano a far festa e ad ubriacarsi.

Ad un certo punto ho perso il conto degli uomini con cui è stata, da sposata, compagna o solo da amante: ma anche questo faceva parte dell’atmosfera bohémienne che le piaceva tanto. D’altronde, solo chi vive fuori delle regole sociali può creare qualcosa di nuovo.

Lei, in realtà, non ha davvero creato qualcosa di nuovo, ma ha dato una mano chi lo stava creando: ha aiutato molti artisti che senza i suoi soldi non avrebbero potuto dedicarsi alla loro arte.

I nomi famosi si sprecano: Kandinskij, Pollock, Beckett, Joyce, Cocteau, Breton, Mondrian, Tanguy, De Chirico, Klee, Max Ernst… Tutte figure affascinanti quando se ne legge sui libri. Ma che oggi, per come sono io, non frequenterei volentieri. Troppi ubriachi, troppe feste, troppa azione frenetica. Tutto questo azionismo era il risultato dell’ambiente e delle personalità vulcaniche ma era spinto spesso all’estremo, perché nascondeva abissi che a volte portavano a suicidi e violenza, anche domestica, quest’ultima neanche stigmatizzata, ma descritta come un avvenimento al pari di altri.

Il guaio è che di questo lato oscuro nell’autobiografia della Guggenheim si intravedono solo tracce.

La Guggenheim non è capace di scrivere: ha lo stile di un’adolescente che riempie il diario.

Nessun approfondimento psicologico, nessuna sfumatura: le persone, in queste pagine, o sono felici o sono tristi, o sono intelligenti o sono stupide, o sono veloci o sono lente. Non è certo un libro scritto da un’artista. E’ un libro scritto da una donna che ha vissuto in mezzo ad artisti ma che non è stata contagiata dalla loro capacità di afferrare e riprodurre le sfumature umane.

Certi passaggi sono davvero più noiosi di una lista della spesa (Canetti, leggendo queste pagine, si rivolterebbe nella tomba).

Ho rivalutato i miei giudizi sulla gente che scrive le proprie memorie ricorrendo a un ghost writer: se la vostra vita merita di essere raccontata ma non ne siete capaci, sì, pagate uno che conosca il mestiere e che racconti per voi.

E’ inutile aver vissuto mille avventure: se non sapete raccontarle, alla fine rimarranno sempre un’esperienza privata.

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“You can do it with everything” Contemporary art Language – Angela Vettese

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The aim of the author is to show that contemporary art works on a collage base. But the collage can be made with everything: paper, metals, plastic, words, movies, ready-made, other art works, and so on.

The collage has its own meanings: it is often light (compared to heaviness of Sixties’ art) and one of its main feature is the transitoriness. It gives you the idea of a fragmented reality and it often requires interactivity, as if the public is a little piece of the whole collage.

Contemporary art is often a developing process, not an object, and here you see the frequent use of -ing form (happening, dripping…).

I found particularly interesting the part that explains how some artists put their works in very hard-to-reach places (for instance in the desert, far away from autoroutes or airports); with a two-faces purpose: to show a critic to institutional art places and to educate the public, that must be ready to make some efforts to go there to “admire” the art work.
The result? Very little public. Anyway… I appreciate the attempt.

At the end, Angela Vettese try to sum up the direction of contemporary art. It seems that this art doesn’t want to show the author anymore. The point is not the subject anymore, it must be something else; the society, maybe, with its trends and fears. Maybe this is only modesty. Or, more probable, loneliness.

The problem of this essay is that Vettese wants to put too many examples to explain what she is telling. They are so many, that I doubt that the average reader knows all artists and art works that she mentions. And the book cannot show a picture for each art work, otherwise it would have been 20 times longer.
As a result, I think that this book is an essay for contemporary art lovers, not for someone who wants to get an idea of this odd world.

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