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Padre padrone padreterno – Joyce Lussu #femminismo @internazionale

Ma… il femminismo esiste ancora?

Di sicuro non ci sono più femministe come Joyce Lussu.

Una tipaccia: ha fatto la guerra nella resistenza (ed era pure incinta), ha preso una medaglia al valor militare (volevano dargliela senza cerimonia, e lei si è fatta valere), e ogni volta che teneva una conferenza per il partito obbligava gli uomini a portare le mogli, che erano regolarmente assenti.

Di famiglia nobile, laica e benestante, poliglotta, laureata in lettere alla Sorbona di Parigi e in filologia a Lisbona, ha viaggiato molto in Europa e nel mondo. Era scrittrice, poetessa e traduttrice.

Il libro che ho letto è breve, e rivede la storia mondiale dal punto di vista della donna.

Certe affermazioni storiche mi sono sembrate semplicistiche o, perlomeno, un po’ fuorviate, come, ad esempio, queste:

L’impero romano decadde, come tutti gli imperi, per una crisi di manodopera.

Il grande terremoto della Rivoluzione d’Ottobre aveva dimostrato che le masse possono vincere contro la classe dominante e che l’industrializzazione si può fare al di fuori del sistema capitalistico.

Ora c’era la Rivoluzione cinese, la prima vittoria rivoluzionaria non europea.

Tuttavia, altre parti denotano una notevole chiarezza sulla situazione femminile:

Il femminismo massimalista, con le sue proposte riduttive e alienate, in quanto improponibili a livello di massa (il rifiuto del maschio; il lesbismo come liberazione; i bambini in provetta e allevati in batteria, come i polli; l’atteggiamento acido e vendicativo verso l’uomo-lupo, come se noi donne fossimo dei candidi agnelli), non matura nessuna collocazione storica e nessuna prospettiva.

Se le donne devono ancora fare della strada in direzione della completa parificazione (soprattutto qui in Italia, dove il cattolicesimo ha fatto e fa danni), la strada va fatta insieme al maschio, non contro; e non si può prescindere dalla situazione economica (lei parla ancora di classi, ma se togliamo questa parolina, ormai priva di significato, la sua analisi rimane attualissima).

Posso dire la mia?

Il libro è del 1976 ma… Non sono molto ottimista.

E non mi riferisco solo al lavoro, dove le donne non sono ancora parificate; né solo alla famiglia, dove per mio marito (e per tanti altri) è normale, dopo cena, alzarsi e andare a guardare un film lasciando tutto sulla tavola.

Mi riferisco alla mancanza di solidarietà femminile, che genera assenza di dibattito, assenza di consapevolezza di interessi comuni.

Mi riferisco alle giovinette, che non si accorgono neanche di essere ridotte a esseri estetici, considerando superfluo quello che hanno dentro al cranio (e loro sono contente così!).

E mi riferisco… al meccanico che, quando gli porto la macchina (mia, e di cui pagherò io la riparazione), chiama mio marito per spiegare cosa ha fatto e chiedere cosa deve fare…!

Ci rido sopra ogni volta, però è sintomatico.

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L’analfabeta – Agota Kristof

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Analfabeta, Agota Kristof? Sì, lei si è sentita così quando è scappata dalla russa Ungheria in Svizzera attraverso l’Austria, perché non conosceva il francese, si sentiva esclusa, non poteva leggere (lei, che aveva iniziato a leggere a quattro anni, lei che dice “Leggo. E’ come una malattia”), poteva solo occuparsi della casa, lavorare in fabbrica, fare la spesa… Poi però si è rifatta.

Come si diventa scrittori?

Prima di tutto, naturalmente, bisogna scrivere. Dopo di che bisogna continuare a scrivere. Anche quando non interessa a nessuno. Anche quando si ha l’impressione che non interesserà mai a nessuno. Anche quando i manoscritti si accumulano nei cassetti e li si dimentica, pur continuando a scriverne altri.

(…) Si diventa scrittori scrivendo con pazienza e ostinazione, senza mai perdere la fiducia in quello che si scrive.

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Albatros-Il Filo e la poesia


Di solito non compro libri della Albatros. Posso fare eccezioni per autori che conosco (come la Stanchina Rubin di S. Stino, che scrive davvero bene, o pochi altri) perché è una casa editrice a pagamento, e si sa, chiunque paghi viene pubblicato senza un minimo di cernita qualitativa.
Ma in questo caso avevo trovato in edicola un malloppetto di quattro libri di cui uno era della Vertigo, “Processo al Papa”, di Geoffrey Robertson, il difensore di Assange per Wikileaks. Tra gli altri tre, di cui non potevo leggere le quarte di copertina perchè chiusi nel cellphane, c’era “Saette verbali contro cieli monotoni”. Autrice: Manuela Matroianni, classe 1988.
Mi prende il nervoso quando vedo queste c.d. sillogi poetiche, soprattutto se pubblicate con case editrici a pagamento. Come può pretendere una persona che la gente normale sia interessata a leggere certe cose? Come può essere disposta un autore a pagare pur di pubblicare certe cose?
E dico “cose” perchè non posso parlare di poesia.
Tutti si credono Ungaretti: una riga, ed è poesia.

Alcuni esempi:
Una pagina vuota in cui trovo:

Bagliori artificiali
che nel cielo
si riflettono.

oppure:

Sono solo io a scegliere di mentire.
oppure:

Il mio gatto ha spirito forte e
pensieri agili.

o ancora:

Città in espansione,
paesi in estinzione.

Mi fermo qui? Certo, ci sono anche le “poesie” più lunghe, ma io mi fermo qui.
Certo, una sorta di dichiarazione d’intenti dice che queste non sono poesie:

“Le mie non sono poesie,
sono pensieri fluidi
che scivolano nella mente
quando il vento svela
i suoi segreti”

Ma chiedo io: chi non ha di questi pensieri fluidi? Ammetto che qualche immagine sia originale, ma chi non ne ha? Perché uno deve credere che i propri pensieri siano interessanti tanto da tirar fuori il portafoglio per farli conoscere al “grande” pubblico? (che poi questo libretto lo abbia trovato in svendita in blocco con altri, mi fa pensare che sia rimasto invenduto in qualche magazzino e che fosse invece destinato al macero…)
E anche se non sembra, non ce l’ho tanto con l’autrice (che comunque meriterebbe un discorso a parte), ma con la casa editrice. “Tu paga, e noi pubblichiamo”, non importa cosa.
Per forza poi il pubblico si disaffeziona alla poesia (che è uno dei generi più pubblicate da questi pseudo-editori).

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Perché così tanta gente si dedica alle poesie?

imageScusatemi se oggi insisto con Eschbach, ma dice un paio di cosette che davvero non saprei esprimere meglio. Così vi traduco anche questo breve commento su uno dei falsi miti della letteratura:

“L’aver scritto poesie è una prova di talento letterario.” La verità è che quasi tutti in un determinato periodo della propria vita hanno provato a scrivere poesie – almeno nell’adolescenza –che fossero profondi sdolcinatezze o fosche lamentele sul dolore dello stare al mondo. Quasi la totalità di questa produzione viene nascosta e, prima o poi, buttata via, e di solito questo non comporta alcun danno alla letteratura.
Fin qui tutto bene, se gli editori e tutti gli autori più o meno conosciuti non fossero bombardati di poesie di persone che si ritengono geni incompresi. Sandra Uschtrin una volta a ragione a detto che la lirica sarebbe il principale mercato delle belle lettere se tutti quelli che scrivono poesie, leggessero anche poesia. Ma siccome non c’è verso di vedere neanche un volume di poesie nella lista tedesca dei bestseller, si può dedurne che la scrittura poetica si basa su una grande illusione: la maggior parte delle persone scrive poesie perchè si finisce in fretta e sembra così facile – qualche parolina di significato oscuro e si ha finito. Ma senza il vero scambio con le opere degli altri – un ripiano della libreria pieno di volumi poetici, da Goethe ad Heine fino a Kirsch e Rühmkorff, e centinaia di poesie che si sappiano a memoria – nel migliore die casi abbiamo solo una specie di diario (…).

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