Il canto dell’ippopotamo è qualcosa che si dice quando si vuol dire qualcos’altro, ma è anche una specifica allusione ad un suono che esce da un animale sgraziato che sguazza nel fango: è, insomma, una metafora della poesia.

Anche la poesia ha bisogno di mettere i piedi sulla terra e di sporcarsi, per elevarsi.
“Ci piaceva considerarci degli animali sgraziati, degli ippopotami appunto, che però possono cantare con una voce vera.”
E di poesia in questo libro si parla parecchio: ne ha scritta Garlini, l’autore, ma ne ha scritta soprattutto Pierluigi Cappello, che di Garlini era grande amico.
Ma si parla anche del fango della depressione e dei rapporti umani avvelenati, come quello con Esther, la donna ha un ruolo non indifferente nella caduta dell’autore.
Arrivato alla soglia dei trent’anni, Garlini si accorge che non sa cosa fare della propria vita. Ha una laurea in legge, ma la sola idea di entrare in uno studio legale gli fa venire la nausea. Gli piace scrivere poesie, ma si ritrova sempre squattrinato, e per di più incontra questa Esther, ballerina, studente universitaria di non si sa cosa, bellissima e dannosa come un veleno che crea dipendenza e ti uccide lentamente.
Gli unici momenti in cui si sente bene sono legati alla poesia, quella vera, soprattutto se si trova assieme all’amico Pierluigi, che, pur essendo costretto su una sedia a rotelle, non parla mai del dolore, né fisico né morale, ed ha un sorriso per tutti.
E’ interessante leggere dei rapporti personali tra letterati. Quando leggo un libro mi faccio sempre un’idea degli autori come di persone che vivono di pensieri elevati e che parlano di argomenti inerenti alla storia culturale del nostro paese.
Niente di più fuorviante, visto che si dedicano spesso al pettegolezzo, anche quello cattivo, e che gran parte del tempo passato assieme se ne va in birre, pizze e scemenze varie.
“Non c’è letteratura senza la felice vergogna di avere detto o fatto stupidaggini bambinesche”.
Però poi il libro che hai davanti agli occhi lo hanno scritto, e allora ti interroghi sulle incongruenze della natura umana.
La depressione clinica io non l’ho mai provata, non al punto di dover ricorrere ad un medico o a delle medicine; in realtà non sono sicura di non averla mai provata… il fatto è che Garlini te la descrive in modo da farti riconoscere questi momenti di abisso come qualcosa di conosciuto, asfissiante, in modo da farti venire il dubbio che anche tu, in qualche momento della tua vita, ci sei stato, laggiù, e guardavi in alto la luce, come dal fondo di un pozzo.
Il bello del libro, il lato più umano, dunque, non è la sequenza degli eventi, che sono abbastanza scarsi: il bello è che Garlini è sincero (o perlomeno è sincero finché gli è possibile esserlo). Anche se eventi e persone possono non essere avvenuti ed esistiti come li ha descritti, lui si mette a nudo con le sue debolezze, e non cerca scusanti: sono stato così, sembra dirci, non posso farci niente.
Ce lo dice da un punto di vista di un uomo che si è allontanato dalla depressione (anche se la minaccia è sempre dietro la porta) e che ha, non dico accettato, ma preso atto della violenza (il fango) che il mondo può esercitare:
Pierluigi “sapeva come la violenza del mondo ti obbliga a fare cose che non vuoi fare“.
E’ un libro abbastanza cupo, anche quando racconta delle mattane combinate con gli amici, ma la cupezza non è un giudizio di valore, perché non si può dare un valore morale a una giornata nuvolosa, e comunque questo buio si dissolve quando Pierluigi parla, legge, muove le mani.
E’ stato un sollievo leggere, alla fine (attenzione: spoiler) che Esther non è una persona reale, bensì il condensato di una serie di incontri che hanno infestato la vita di Garlini in quegli anni.
Io non ho avuto una gioventù così stropicciata, anzi, era tutta ordine e obbedienza, e durante la lettura ho sentito un po’ di invidia per questi momenti: senza di essi Garlini non sarebbe forse diventato scrittore, forse è grazie ad essi che ha trovato il coraggio di dedicarsi alla scrittura, perché se non fosse caduto così in basso forse non avrebbe fatto lo sforzo che ha fatto per scrivere, gliene sarebbe mancata la motivazione. Chissà.