Avevo sospeso la lettura qualche settimana fa perché non ero entrata in sintonia col libro, ma devo ammette che al secondo tentativo, mi son lasciata prendere per mano dalla scrittura curata e dai personaggi ben delineati.
In realtà, non avevo trovato difficile la scrittura in sé: è colta, ma alzare l’asticella bisogna, ogni tanto. Quello che mi aveva bloccato era la sfilza di nomi di intellettuali che non conoscevo (quanto sono ignorante…).
Luigi Ghirri (esperto di foto dell’opacità e dell’invisibile), John Berger (critico d’arte), Giuliano della Casa (pittore), Yervant (artista polimorfico), Maria Nadotti (traduttrice), Piero Camporesi, Delfini, Garboli, e tanti, tantissimi altri, senza disdegnare cantanti (CCCP), architetti, ecc.
Belpoliti ne parla come di amici, e dà per scontato che il lettore li conosca: spesso ti dice cosa fanno solo di striscio, altre volte ti lascia dedurre il loro mestiere da altre informazioni che hanno poco a che fare con i loro mestieri e più con i paesetti della pianura Padana che attraversa insieme a loro, fisicamente o nella memoria.
Il libro parla di questi amici, e ne parla rivolgendosi ad un amico (di cui io non sono riuscita a capire l’identità), e il racconto viene fatto attraversando borghi e paeselli semisconosciuti della nostra Pianura.
Tocca argomenti di storia, archeologia, geologia, meteorologia, architettura, arte, geografia, cinema, e lo fa con un taglio a volte elitario, che non è per tutti, a causa della profondità delle argomentazioni e delle conoscenze.
Ho esultato quando tra i vari nomi sconosciuti sono finita su Sandro Vesce, di cui ho letto un libro (“Per un cristianesimo non religioso”) che ho letto… Ma per il resto mi ha fatto sentire più ignorante di come mi sentivo prima (e la cosa non è un male, dopo tutto).
Quanto c’è di vero in quello che scrive? E’ un libro autobiografico? E’ davvero amico di questa sfilza interminabile di artisti ed intellettuali? Di sicuro, Belpoliti è una persona curiosa.
Curiosa nel senso che è incuriosito, che vuol conoscere quello che lo circonda, ma anche curiosa nel senso di persona un po’ fuori del comune.
L’ho incontrato un paio di volte. Di recente, al Premio Comisso (che ha vinto): mentre tutti gli correvano dietro e cercavano un po’ della sua attenzione, lui spariva. Non gli piacciono le premiazioni letterarie, il fru-fru della celebrità, le foto ufficiali, e non ha paura di ammetterlo.
Gli piace la fantasia applicata agli oggetti. Gli piacciono le persone che guardano agli oggetti con occhi diversi dagli altri. Gli piace Primo Levi, forse perché così poliedrico da rendere difficile la vita a chi voleva affibbiargli un’etichetta. Gli piacciono le parole cadute in disuso (centuriazione, pispiò…). Gli piacciono le pietre delle costruzioni, e la loro storia. E di tutto ciò che gli piace, lui si interessa.
E’ un interesse fine a se stesso, non ha scopi utilitaristici. E’ un interesse fuori moda, oggi, che perfino se guardi un quadro devi farti un selfi e metterlo sui social per far sapere al mondo che stai guardando un quadro.
La sua scrittura, da questo punto di vista, è quasi memorialistica: ma di una memoria privata, che mi ricorda un po’ Montaigne.
La mia impressione?
Ha scritto questo libro per se stesso: se vi va di leggerlo, leggetelo; se non vi va, sappiate che lui non ne sarà più di tanto intristito. Ha fatto quello che si sentiva di fare.