Questo romanzo è la continuazione de “L’arminuta”. Le protagoniste sono sempre l’arminuta, che adesso insegna letteratura italiana in Francia, e la sorella Adriana, che è rimasta al paese.

La storia inizia quando l’arminuta riceve una telefonata che la costringe a mollare tutto, a salire su un treno e a tornare a casa di corsa. Non sappiamo cosa sia successo fin quasi alla fine del libro, ma pian pianino, durante la sua insonne nottata in albergo, ricostruiamo gli anni di presenza ed assenza delle due sorelle.
La narratrice si è sposata con Piero, odontoiatra; Adriana ha avuto un figlio da Rafael, un figlio di cui non aveva detto niente alla sorella. I loro rapporti con i genitori sono molto altalenanti, soprattutto per Adriana, che ha vissuto le esperienze più estreme in famiglia.
Il racconto si snoda su più piani temporali: uno presente e diversi passati.
Adriana non mi piaceva nel primo romanzo e non mi piace neanche adesso. Secca, antipatica, taciturna quando dovrebbe parlare, troppo aperta quando dovrebbe riflettere sulle parole che usa, opportunista.
L’arminuta invece è troppo passiva, ingenua, accondiscendente.
Ma solo i libri ben scritti ti fanno provare simpatie ed antipatie per i protagonisti, e questo è molto ben scritto.
Sebbene fin dall’inizio si capisca che è successo qualcosa di brutto e che il dramma è sempre in agguato; sebbene sia poco verosimile che una sorella si presenti a notte fonda a casa dell’altra con un figlio che la zia non ha mai visto, e che sia ancora più inverosimile che non si parli subito della causa di questa apparizione improvvisa… è un libro che ti costringe ad andare avanti con la lettura.
I personaggi spingono al limite l’analfabetismo emotivo: a tratti è davvero eccessivo, ma per raccogliere certi messaggi, l’arte deve essere spesso estrema.
E poi lo vediamo nella vita di tutti i giorni: il 99,99% delle incomprensioni è dovuto a incapacità o a poca volontà di esprimersi.