Scrivo dei due libri insieme perché il livello di gradimento è molto simile: diciamo che se fra un paio di anni li trovo sulla bancarella di un mercatino dell’usato, mi chiederò “ma questi li ho letti?”
Tra i due, la Gamberale è quella più leggibile ed ironica: la solita trentenne in crisi perché perde ragazzo e lavoro e che va in terapia. Come cura, la psicanalista la invita a fare dieci minuti di una cosa nuova al giorno. Scordatevi grandi cose: si rimane nell’ambito del verosimile, dunque si va dal rubare una cavolata al supermercato, al camminare all’indietro in città, al cucinare un pancake. Quello che trovo meno verosimile è l’ammasso di personaggi: sembra che la protagonista li conosca tutti lei i tipi strambi. Oppure sono persone come quelle che conosciamo tutti, ma descritti in maniera esagerata, come per colpire il lettore.
Ah, dimenticavo: quando la tipa guarisce, si accorge che riesce a scrivere un romanzo e che non è più artisticamente bloccata. Anche qui, mi pare un dejà vu di molti altre storie.
Con la Parrella, l’argomento è molto meno ironico: Maria, un’insegnante di Napoli che insegna agli adulti di un corso serale, ha partorito una bambina che però resta in incubatrice perché non si sa se ce la farà. Non c’è né marito né compagno, superfluo e fatto fuori. Ma di cosa parla? Dello spazio bianco. Del periodo di vuoto che Maria vive nell’attesa. Certo, non è facile parlare dell’attesa, della mancanza di qualcosa che non si sa ancora se manca perché in realtà non ce l’abbiamo mai avuta. E certo l’autrice scrive bene. Ma non chiedetemi cosa ha scritto, perché non è riassumibile. In realtà non succede niente…
Ma sapete che c’è sempre qualcosa che vale sempre la pena leggere nei libri, anche in quelli che un giorno dimenticherò. Nel caso della Parrella, vi lascio questo stralcio:
Durante la settimana il solo aprire il giornale, riuscire a connettere un titolo con qualcosa di reale, che pure stava accadendo, trovare in cartellone il nome di un film francese: solo questo mi accendeva una bolla di tranquillità, per un attimo, nel petto.
Non so voi, ma a me a volte capita di attraversare momenti di scazzamento da cui non so uscire: di solito si tratta di rogne sul lavoro che mi seguono a casa come l’ombra. Soluzioni non ne vedo, inutile stressare parenti e amici raccontando i dettagli dei problemi, perché tanto finchè non li vivono non li capiscono, nervoso che si autoalimenta perché non riesco a pensare ad altro e poi… leggo una frase o vedo una finestra aperta nella casa di sconosciuti, e mi ricordo che i momenti di scazzamento sono solo questo: momenti. Ben identificabili nel tempo e nello spazio. E non sono così per tutti. E non saranno così per sempre.
Fantastico.