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4 3 2 1 (Paul Auster)

Ci ho messo tre anni e tre giorni a finirlo. E non perché l’ho letto in inglese (da tirchia, non l’ho preso in italiano perché mi costava quasi il doppio).

Il fatto è che 4 3 2 1 è troppo americano. Quando incomincia a descriverti le partite di baseball o basket, quando ti spiega per filo e per segno la politica delle varie associazioni politiche universitarie durante il Sessantotto, quando ti nomina tutte le organizzazioni locali di estrazioni repubblicana o democratica, io, che sono italiana e non ho mai studiato così bene la società americana, semplicemente, non gli sto dietro.

Mi è piaciuta invece la storia di Ferguson. Anzi: le quattro storie di Ferguson, quattro diverse vite vissute da questo ragazzo (anche lui) puramente americano di origini ebrei attraverso alcuni degli anni più recenti e turbolenti degli Stati Uniti.

La Storia con la “S” maiuscola infatti è sempre dietro alle spalle di Ferguson che, tra una ragazza e l’altra, tra un libro e l’altro, si lascia più o meno coinvolgere dai movimenti sui diritti civili, dagli scandali, dalla guerra in Vietnam.

Ora che l’ho finito, ho capito perché nessuna recensione di 4 3 2 1 ne ha fatto un riassunto: è semplicemente impossibile.

Ferguson ha quattro vite alternative, cambia ragazze, studi, gusti sessuali e musicali… fa un incidente e perde due dita, oppure muore adolescente; si mette insieme ad Amy, oppure insieme a una ragazza francese; suo padre è ricco oppure fatica a racimolare i soldi per arrivare alla fine del mese perché suo fratello gli ha fatto fallire l’attività; sua madre è una fotografa in carriera oppure una donna insoddisfatta… insomma, in quattro vite, gli succede di tutto.

L’unica cosa che rimane costante è la storia americana alle sue spalle.

Questo romanzo è una dichiarazione d’amore agli Stati Uniti, con tutte le loro contraddizioni; è una dichiarazione di appartenenza a una nazione, alla sua storia e alla sua comunità.

Potrebbe un libro così essere mai scritto da un autore italiano per l’Italia?

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Autofiction #Pordenonelegge 2018

Ieri sono stata al Pordenonelegge ad ascoltare un dibattito sull’autofiction tra Carlo Carabba ed Emanuele Trevi. L’incontro era presentato da Alberto Garlini.

Cos’è l’autofiction?

Bè, non è proprio un genere. Per spiegarvi cos’è, vi faccio subito due autori che la usano o l’hanno usata nelle loro opere: Carrére e Chatwin.

Carabba ci ha proposto una suddivisione:

Primo filone: autori che mettono direttamente a nudo la propria anima con lo scopo di cercare la Verità (es. Proust, S. Agostino)

Secondo filone: autori che presentano un racconto molto simile alla propria realtà individuale (es. Jack London col suo “Martin Eden” o Breston Ellis col suo “Luna Park”).

Terzo filone: autori che uniscono il racconto della propria vita a fatti di cronaca (uno su tutti: Emmanuel Carrère).

Dai pochi esempi elencati, si evince che l’autofiction non è un genere a sé, perché si può infiltrare in altri generi (letteratura di viaggi, autobiografia, horror, cronaca…). Trevi ha usato un verbo: parassitare.

Quale è la necessità di fondo dell’autofiction?

Fondamentalmente, è un modo di reagire all’inerzia dell’esistenza, alla mancanza di eventi significativi nella vita di tutti i giorni. La sua ragione d’essere, è la stessa ragione per cui amiamo le storie inventate: perché abbiamo bisogno di vedere un filo conduttore in tutto ciò che succede, abbiamo voglia di segni, di significato.

Abbiamo bisogno che la persona, che vive una vita banale, si trasformi in personaggio, cioè in una persona privata degli innumerevoli momenti in cui non succede nulla. Ecco perché agli autori piace mischiare la persona (autobiografia) al personaggio (fiction).

Emanuele Trevi ha espresso un suo parere su Carrère: dice che i suoi libri si leggono tutto d’un fiato, sì, ma a volte, annoiano. Perché? Perché Carrère si mette sempre in mezzo, come se avesse difficoltà ad accettare che la vita è costituita più da assenza di eventi significativi che da eventi significativi. Secondo Trevi, non si può rendere interessante tutta una vita in tutti i suoi momenti: se lo si fa, si gonfiano i contenuti, e, così facendo, ci si allontana dalla Verità (o dalla sua ricerca).

Carabba ha appena pubblicato un esempio di autofiction: “Come un giovane uomo”. Parla di una sua esperienza del lutto. Nel libro racconta della morte di una sua cara amica, e di come, il giorno del funerale, lui si trovi davanti ad un bivio: andare a darle l’ultimo saluto o a firmare un contratto di lavoro che significherà la fine di una vita di precariato.

Ecco: il bivio.

Il bivio spesso non è altro che un rito di passaggio, un evento significativo nella vita di una persona. Dunque vale la pena scriverne. E spesso il bivio riguarda la scelta tra sentimento/intuito/affetti (nel suo caso, il funerale dell’amica) e razionalità (la vita lavorativa).

Sia come sia, dice Trevi, l’arte, e dunque la letteratura, deve creare un cambiamento. Se non lo fa, allora è un romanzo da nevrotici (v. Freud e il chiacchiericcio mentale dei suoi malati), un meccanismo di difesa che non crea cambiamento; un tentativo, vano, di compensare il quotidiano.

Il cambiamento deve essere qualcosa che non ti aspetti, qualcosa di diverso dalla vita vera, in cui la direzionalità (forse) non c’è.

Sono così d’accordo con Trevi e la sua concezione della letteratura, che ho subito comprato il suo “Qualcosa di scritto”. Ma devo stare attenta a leggerlo: non devo guardarlo come un libro autobiografico, anche se l’autore parla a volte in prima persona. Come per stessa ammissione di Trevi, la sua autofiction ha sempre un taglio di critica letteraria. Nel caso di “Qualcosa di scritto”, si dedica a Pasolini.

E ora una nota personale, di autofiction, direi: mi sono ricordata di chiedere a Trevi una foto, ma non mi sono ricordata di fargli autografare il suo libro che tenevo sotto il braccio e che avevo appena comprato. Sì, sono reale, ma imbranata come un personaggio dei cartoni animati.

E adesso, da raccoglitrice compulsiva di autografi di scrittori, mi mangio le mani.

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Chiacchierata tra amici: Salman Rushdie e Paul Auster

Eccovi un altro video (in inglese doppiato in francese) preso da YouTube.

Di cosa parlano tra loro due scrittori di questo calibro? Di sicuro non dei libri in corso. Parlano di cinema, politica, baseball (molto baseball…), ma non di libri work in progress.

L’intervista a due continua poi lasciando loro raccontare quando e come sono arrivati a New York, città che ha plasmato (e influito) non poco le loro scritture. Ci sono arrivati giovani, Auster a 18 e Rushdie a 23 anni, e si sono lasciati travolgere dalla vita culturale di quei tempi.

I due autori si sono incontrati ben venticinque anni prima, attraverso il figlio di Auster che, dopo aver letto un libro di Rushdie, gli ha scritto. E, come post scriptum, ha aggiunto: “Saluti da mio papà”.
C’è da dire che Paul Auster è stato uno dei sostenitori più attivi di Rushdie, ai tempi della fatwa: Auster era professore a Princeton e ha organizzato importanti adunate per sensibilizzare l’opinione pubblica sulla situazione dell’autore indiano che doveva vivere sotto scorta (per chi è interessato ai dettagli, trovate la storia di Rushdie, scritta da lui medesimo, in “Joseph Anton”).

Altra domanda: cosa piace a Auster della scrittura di Rushdie? Auster menziona la lunghezza delle frasi, il fatto che a volte tornano su se stesse, che sono un viaggio nella lingua inglese. E Rushdie ringrazia Proust…

Infine, domanda a Rushdie: quale è la cosa più importante quando si scrive un libro?
Dargli attenzione. Se gli si dà attenzione, il libro ricambierà il favore e vi svelerà i suoi segreti.

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La biblioteca portatile di Paul Auster

Date un’occhiata a questo video – lo condivido con voi e ve lo riassumo, perché mi piace troppo l’idea di una piccola biblioteca da portarsi sulle spalle!

L’intervistatore ci scherza su con Paul Auster, però, se fossi in lui, questa cassettina io la brevetterei…

Così veniamo a scoprire alcuni degli autori che hanno incantato Paul Auster (che parla in francese, visto che ha trascorso alcuni anni della sua gioventù a Parigi, anni di cui parla anche in “Hand to Mouth).

Il primo che nomina è Candido, di Voltaire: dice che ne è rimasto affascinato a 15 anni. Ma poi anche Poe, Hawthorne, Joice, Kafka, e, finalmente, il nostro Collodi, con Pinocchio.

Di Auster sto leggendo 4 3 2 1: lo finirò tra un paio di anni, poi vi dirò…

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Camminando nell’ombra, Doris Lessing

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My job in this world is to write.

Questa presa di coscienza mi ricorda tanto una frase dell’autobiografia della De Beauvoir, anche lei donna, scrittrice, impegnata in politica, presa da viaggi e uomini. Entrambe hanno sentito il bisogno di dirlo, qual è il loro lavoro, non tanto forse al mondo esterno, quanto per non perdersi tra tazzine da lavare, orari dei treni e spasimanti.

I parallelismi tra l’autobiografia della Lessing e quelle di altri scrittori non si fermano qui. Guardiamo ad esempio alla struttura del libro, suddiviso in capitoli che seguono i vari indirizzi in cui l’autrice ha abitato: come Paul Auster nel suo Diario d’inverno. E’ come se i traslochi, pur con tutti gli inconvenienti che provocano, tenessero in esercizio l’angolino del cervello adibito alla riesumazione dei ricordi e delle sensazioni: angolino essenziale nella quotidiana scrittura che ruota attorno a personaggi fatti di carne e sangue.

E poi, altro parallelismo: l’alcolismo. La Lessing non ne è diventata schiava come altri scrittori (cito solo Hemingway e John Cheever: gli americani sembrano non sentirsi abbastanza scrittori se non si ubriacano con una certe frequenza), ma la tendenza c’era, come sul fianco ripido di una collina, dove devi puntare i piedi per non andare giù di corsa.

Nel memoir Joseph Anton, Rushdie ci racconta un incontro con Doris Lessing e di come lei gli avesse esternato dei dubbi su quello che poi è diventato Walking in the shade: gli uomini, sempre gli uomini. Maschi, intendo. Lei era una bella donna, da giovane, le facevano la corte, ci provavano. Ma quanto di queste avventure o aspiranti tali era lecito riportare nell’autobiografia? Questo il dubbio della Lessing davanti a un perplesso Rushdie già alle prese con i casini della fatwa. Credo questa signora che ne abbia taciute parecchie, di storie, per rispetto ai vivi e ai discendenti; perché alla fine, tra le pagine, il non detto si intuisce.

Il libro trabocca di attivismo politico, di comunismo, di dubbi, di delusioni e speranze dopo la scoperta delle atrocità staliniane. Erano giovani che parlavano di mondi ideali. Belli questi giovani (ma anche se fossero stati più vecchi)… Non importa che non abbiano ottenuto ciò in cui speravano. L’idealismo è una componente della speranza: ci vuole!

Però, alla fine, la Lessing parla poco, in questo volume come nel primo, dell’atto della scrittura in sé.

Impossible to describe a writer’s life, for the real part of it cannot be written down.

Lo dice chiaro e tondo: come puoi scrivere della scrittura?

Ci ha provato: ha raccontato del suo bisogno di camminare, dormire e fumare mentre sta buttando giù una trama o sta revisionando un racconto, ma questi sono gesti al di là della scrittura vera e propria. Ha raccontato della sua idiosincrasia per le lunghe file di lettori in attesa di autografo, della passione che gli editori di allora nutrivano per la cultura in sè, della necessità di accudire il figlio e di togliere le briciole dalla tavola prima di mettersi a lavorare; ma neanche qui parla dell’atto dello scrivere vero e proprio.

E ciononostante, quando racconta la sua vita, respiriamo la sua arte, non fosse altro per la moltitudine di gente che incontra: gente che legge, scrive, riflette. Idee che si incontrano e scontrano. Non è vero che si impara a scrivere solo dai libri: per gli scrittori, l’entourage conta, conta molto.

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Becoming a writer…

Becoming a writer is not a “career decision” like becoming a doctor or a policeman. You don’t choose it so much as get chosen, and once you accept the fact that you’re not fit for anything else, you have to be prepared to walk a long, hard road for the rest of your days. Unless you turn out to be a favorite of the gods (and woe to the man who banks on that), your work will never bring in enough to support you, and if you mean to have a roof over your ead and not starve to Death, you must resign yourself to doing other work to pay the bills.

(Paul Auster, Hand to mouth)

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Winter Journal – Paul Auster

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I loved The New York Trilogy. I cannot say the same thing for Hand to Mouth. But maybe I am not the right person for Auster’s autobiographies. Actually, this is – I think – his third authobiography. He writes of himself as “you”, in second person, maybe to add some distance between him and himself.

My interest went up and down. I must admit that I did not like the lists: lists of things he did, of actions, of people… in my opinion you cannot write a page full of list. You can do it in your journal, if you keep it in your drawer… same reasoning for the lack of internal order: he writes subjects as they get his memory: from early years, to the 64th birthday, from writing, to house moving, from panic attaks to marriage, from sexual impulses to dance.

I appreciated the parts in wich he tells about his mother’s Youth and Death, and how she was despised by the “dour matrons of father’s family” because she acted as if she was the most beautiful woman on the earth. But I also liked the way in wich he remembers her, as a woman who was, at the same time, very practical, active and sensitive. And I love the doutful life she had, because the author will never know if she had a lover during her marriage or not.

At the end: no, I did not like this book very much, but if you have the change, please do read it. It is anyway a collection of memories of a man who has lived, loved, written, read, suffered and travelled a lot (Gosh, I do not know how many times he moved from a house to another: I would become mad doing that!). A little sad, maybe, because he reminds us that we will wither too, despite all our current ebullience, but anyway useful.

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Al limite della notte, Michael Cunningham

Peter è un quarantenne mercante d’arte sposato con una bella donna, Rebecca, e ha una figlia con la quale non riesce più a instaurare un vero e proprio rapporto (non si capisce bene perché).
Il suo lavoro dovrebbe vertere attorno alla bellezza ma, sebbene gli permetta di vivere agiatamente, Peter sa di non aver ancora trovato l’Artista in senso assoluto: vende quadri e sculture, ma è solo roba “abbastanza” carina, come lui ammette; non è l’Arte come la intende lui.

Finché un giorno arriva Erry – che in realtà si chiama Ethan: Erry= errore – il fratellino sconclusionato della moglie: bello, giovane e inafferrabile, Peter se ne innamora.

E’ la storia di un amore gay?
No, è una storia di aspirazioni deluse, di vite senza batticuori, di mancanze. Insomma, è una storia che gira attorno… all’arte.
L’arte dovrebbe aiutarci a gettare uno sguardo dentro le intimità altrui… invece Peter apprende della propria incapacità in tal senso proprio grazie ad Erry. Perché Erry si prende il gioco di lui. Perché Rebecca non è la donna che lui dava per scontata e che era pronto a lasciare per andarsene con Erry.

Ogni scrittore ha i suoi fantasmi: John Irving ha il padre mai conosciuto; Paul Auster ha il caso; Michael Cunningham ha l’amore omosessuale. Eppure i libri – anche se dello stesso autore – sono sempre così diversi!
Penso allo stile di “Le ore”, molto lontano dal monologo in terza persona di questo romanzo.

Mi è piaciuto? Non particolarmente, ma il tema dell’insondabilità delle persone, anche per chi maneggia arte dalla mattina alla sera… è già sulle mie carte da un anno.

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Paul Auster è un drittone!

“Ho passato tutta la mia vita da adultore storie, a mettere persone immaginarie in situazione inaspettate e spesso inverosimili (…)”
Questa frase la pronuncia Peter Aaron, la voce narrante del libro che sto leggendo (“Leviatano”), ma in bocca a Paul Auster penso ci starebbero altrettanto bene.
Il primo passo che compio quando entro in un libro di Auster è conoscere persone nuove. Perché per mettere i personaggi dentro a delle storie, prima bisogna che Auster li crei: saranno poi loro, con le loro fisime e i loro entusiasmi e le loro capacità a lasciarsi coinvolgere dagli avvenimenti. Man mano che leggo ho l’impressione che Auster non si prepari degli schemi di trama quando si accinge a scrivere un libro: lui intanto crea i personaggi, e poi sta a guardare quel che succede quando mette loro davanti un avvenimento qualunque.
Il Caso, poi, è l’altro grande personaggio: “La realtà supera sempre ciò che riusciamo a immaginare. Per quanto sfrenati pensiamo che possano essere, i frutti della nostra fantasia non potranno mai tener testa all’imprevedibilità delle cose che il mondo reale erutta in continuazione. (…) Tutto può succedere”.
Il Caso è il purè in cui si muovono Sachs, Peter, Fanny e tutti gli altri: a volte sbattono su un grumo, a volte scivolano in una bolla meno densa, a volte salgono a galla, alternando gli stati d’animo in base alle loro personalità, ma comunque RISPONDENDO alle sollecitazioni del Caso.
Anche Auster ha le sue ossessioni. Oltre al Caso, che torna in molti suoi libri, anche qui ritroviamo l’elemento dello spionaggio, nel senso di una persona seguita da un’altra, quasi fosse necessario qualcuno che ti guardi di nascosto per essere sicuro di esistere. Anche qui ci sono personaggi scrittori. Anche qui la storia si svolge quasi tutta a New York. Anche qui c’è un punto in cui ci si pone la questione dell’età a cui muore uno scrittore (in questo caso è Thoreau, ma in “Follie di Brooklyn” la lista era lunga).
Non ci sono molti dialoghi, ma il punto forte di Auster, secondo me, è la sua capacità di scendere nel profondo dei personaggi: li descrive nelle azioni e nei sentimenti, sembra di conoscerli come degli amici di lunga data e, anche se ogni tanto lo scrittore dice che Tizio o Caio sono un mistero, io non gli credo, perché lui mi ha rivelato tante di quelle sfumature che se fossi un’anatomopatologa non potrei avere una conoscenza più approfondita di Tizio o Caio.
Ma forse, scendere così in profondità a volte può rendersi utile per uno scrittore: perché alla fin fine è inevitabile mettere sulla carta delle incongruenze comportamentali o caratteriali. E non sono forse queste incongruenze gli aspetti più reali di una persona in carne ed ossa???

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Trilogia di New York, di Paul Auster

imageAutore coraggioso, che ha fatto la fame (“Hand to mouth”) ma che ora è uno dei più importanti scrittori americani viventi. Dico coraggioso perché questi tre romanzi brevi escono fuori dalle solite classificazioni. Le vicende si svolgono a NY e sono sempre incentrate su delle indagini, dei pedinamenti, delle ricerche; c’è una persona che sfugge dall’inizio alla fine, e anche dopo la fine, tanto che il senso della storia resta sempre al di là della portata del protagonista che si rovina la vita per svelare il MISTERO.
Inafferrabili non sono solo Stillmann, Black o Fanshawe: è il significato della vita che sfugge, come Auster ribadirà in ognuno dei tre romanzi. E allora, invece di rovinarsi i giorni a cercare un sesno ovunque, godiamoci le storie che stiamo leggendo: “(…” fino a che punto la gente vrebbe tollerato lo sproposito se lo sproposito la divertiva? La risposta è ovvia, no? All’infinito. (…) E alla fine è proprio questo che tutti chiediamo a un libro… che ci diverta…”
Ok, magari se si può anche imparare o intuire qualcosa, aggiungo io… “LA QUESTIONE E’ LA STORIA IN SE’: CHE ABBIA SIGNIFICATO O MENO, NON SPETTA ALLA STORIA SPIEGARLO”.
Questa trilogia comunque mi ha fatto divertire: mi ha fatto entrare in una New York insensata piena di derelitti, sosia e scrittori; mi ha spinto a leggere fino all’ultima pagina, mi ha detto che le parole sono insufficienti e che le persone non si afferrano mai, non mi ha svelato il mistero che mi ha fatto solo intravedere eppure… eppure apre tante di quelle possibilità che alla fine ho chiuso il libro e già ne voglio un altro dello stesso autore. Consigli sul titolo?
Dubbio dell’ultimo minuto: ma uno scrittore che dice così sfacciatamente che la vita non ha senso, non finirà mica come Hemingway o la Woolf?

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