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Grottesco, Patrick McGrath

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Quanto scrive bene Patrick Mcgrath! Un grande autore, non solo per l’eleganza dello stile ma anche per la moltitudine delle sfaccettature che imprime ai suoi romanzi.

In questo, Sir Coal ci racconta del suo rapporto col maggiordomo. Lo giudica infido, approfittatore, pervertito, e alla fine, ovviamente, anche assassino. Ma attenzione, perché Sir Coal “parla” dallo stato vegetativo, bloccato su una carrozzina allo stato larvale, incapace di muoversi ed esprimersi. Secondo medici e familiari (salvo l’eccezione della figlia Cleo), è ontologicamente morto.

E’ un punto di vista molto particolare, il suo, perché certi avvenimenti può solo immaginarseli; eppure, noi vediamo con gli occhi della sua fantasia non solo la moglie che gli mette le corna con Fledge, il maggiordomo, ma anche il suo giardiniere George che viene processato, condannato e giustiziato per un omicidio che non ha commesso.

Alla fine, si resta col dubbio: quanto era affidabile questo narratore di cui sembra di sentire la voce rauca e maliziosa? Questo gentiluomo  misantropo, paternalistico, sprezzante e maligno? Questo pseudo-paleontologo che non ha alcun interesse per l’umanità, perché l’ha sostituito con la passione morbosa e onnicomprensiva per le ossa di un dinosauro che ha scoperto venti o trent’anni prima?

E soprattutto: in questo romanzo, di chi bisogna prendere le parti? Non c’è nessun personaggio in cui sia decentemente possibile immedesimarsi. E’ un romanzo senza eroi, dove la vittima predestinata non è il giovane fidanzato di Cleo, trovato morto nella palude e dato in pasto ai maiali (che poi sono stati mangiati più o meno da tutto il villaggio), ma la VERITA’, che resta una chimera irraggiungibile.

E allora cos’è grottesco? Un rospo che mangia larve sul tavolo apparecchiato mentre il maggiordomo attende ordini alle spalle del padrone, o un uomo che per tutta la vita ha controllato i propri sentimenti fino al punto di seccarli del tutto?

(…) per non piangere in pubblico io mi sono allenato a lungo, col risultato che adesso l’unico mezzo che ho per comunicare al mondo che sono mentalmente vivo e riesco a provare delle emozioni, ecco, non posso usarlo. Non posso usarlo perché ormai è impossibile spezzare quell’abitudine all’autocontrollo coltivata tutta una vita.

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Il morbo di Haggard – Patrick McGrath

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Bellissimo.

Sia la storia che lo stile sono eccezionali.

Con un finale a sorpresa preparato benissimo.

Ci sono la fedifraga, il dramma, la morte, la guerra, la storia, la malattia mentale e fisica, la medicina, la passione, l’amore, la sofferenza, l’estasi, il rimpianto… c’è tutto.

Inutile aggiungere altro.

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Amore, follia, e… freddo

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FOLLIA, Patrick McGrath
Bellissima storia.
All’inizio il titolo sembra scontato, in quanto la vicenda ruota attorno ad un manicomio criminale inglese. Ma subito emergono i sintomi di una realtà alternativa quando Stella, la moglie del vicedirettore, inizia una relazione con Edgar, un artista internato.
La voce narrante è di Peter, collega del marito di Stella, che parla a fatti compiuti. Quando racconta dell’insana passione della donna per Edgar, è chiaro che ne parla alla luce clinica: Stella è folle perché ha messo in pericolo la stabilità di una famiglia e di un decoro borghese per correre dietro ad uno scultore pazzo.
Eppure durante la lettura ci si rende conto che forse la folle non è Stella. Sì, è vero, ha abbandonato il marito e il figlio, è andata ad abitare in uno squallido sottotetto con l’amante, si è imbruttita, si è data all’alcool ed è arrivata al limite estremo di quella che può essere la più tragica esperienza per una madre.
Ma, credetemi, la pazza non è lei. O non solo.
Quando ha incontrato Edgar le si sono solo risvegliati istinti ed emozioni atavici che col marito Max non sapeva di avere. Abituata all’asetticità dell’ambiente non sapeva neanche lei com’era in realtà, figuriamoci se poteva farlo qualcuno per lei:
“Tutto l’acume, tutta l’esperienza psichiatrica di Max non potevano perforare il suo scudo femminile”.

Peter stesso racconta la storia di Stella senza averla capita. Arriva al punto di chiederle di sposarla, senza aver intuito, se non negli ultimi inutili istanti, che lei ed Edgar sono ancora innamorati l’uno dell’altra.
Bisogna arrivare alla fine per comprendere il livello di minaccia insito nella volontà di controllare certe emozioni con la razionalità.

Volete sapere il motivo per cui Edgar, l’amante, è stato internato? In un raptus di gelosia ha ucciso la moglie, l’ha decapitata, l’ha enucleata e ha infilato la sua testa su un paletto per provare a farne una scultura. Ma, per i più schifiltosi, tranquilli: tutto è descritto nel modo asettico che userebbe uno psichiatra, dunque niente sanguinolenze…
Stella riusciamo quasi a capirla (noi, non Peter). Dico quasi perchè ad un certo punto, da mamma, dico: “questa è una grande stronza”… ma è tutto un effetto voluto.

La pericolosità del freddo atteggiamento psichiatrico di Max e di Peter diventa accecante nell’ultima minacciosa frase. Quando Peter finisce la storia, Stella è morta. Le aveva chiesto di sposarlo senza aver la più pallida idea di cosa ne pensasse lei: ma sempre convinto di saperlo!
Ebbene, Peter non ha più la donna che voleva sposa, gli sono rimaste solo le teste artistiche e i bozzetti che ne aveva fatto Edgar. Ed ecco cosa dice Peter:

“E così, vedeter, dopotutto ho ancora la mia Stella qui con me.
E naturalmente ho lui.”

Mi fa più paura di Hannibal.

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