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Appartamento ad Atene (Glenway Wescott) @AdelphiEdizioni

 

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La vicenda si svolge tutto all’interno di un appartamento di Atene nel 1942 dove la famiglia Helianos è costretta ad ospitare un ufficiale tedesco.Gli Helianos sono composti da padre, un editore intellettuale che ha perso il lavoro, la paurosa moglie, il dodicenne Alex e la piccola Leda, ritardata. C’era anche un altro figlio, ma è morto in guerra.Quando il maggiore Kalter arriva, è un incubo: li terrorizza, scatta per un nonnulla, li umilia, li costringe a dare i propri avanzi di cibo a un cane, mentre loro muoiono di fame.Dopo un anno, però, deve tornare in Germania per una licenza, e quando rientra il suo atteggiamento è completamente diverso, tanto che il capofamiglia inizia ad intrattenere con lui uno strano rapporto, restando ad ascoltare le sue tiritere politiche dopo cena.Credendo di essere diventato suo amico, o almeno di aver instaurato una specie di legame intellettuale, il capofamiglia fa un passo falso e viene arrestato.Mi fermo qui per non spoilerare.Il romanzo è incentrato su questa coppia e, senza alcun sdilinquimento, sul loro amore di lunga data. Non ci sono smancerie, solo appoggio reciproco, anche se dal punto di vista intellettuale i due non si capiscono.La vita, la guerra, la perdita del figlio, la cura dei due figli rimasti, le paure vere o presunte, fondano il loro rapportoE’ un libro molto attuale, per questo periodo di corona virus: il nemico in casa.E come le persone imparino ad adattarsi creando quasi una sorta di legame. Tant’è che quando il maggiore, il nemico, se ne sarà andato definitivamente, la donna continuerà a pensare a lui e a come lui abbia cambiato le loro vite.

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I ‘figli’ di Hitler (a cura di K. Ericsson, E. Simonsen)

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I figli nati da rapporti tra donne dei popoli occupati e soldati tedeschi durante la seconda guerra mondiale furono migliaia e migliaia.

Il Reich ebbe un atteggiamento ben definito nei loro confronti: bisognava tutelare solo quelli la cui madre era di razza superiore, e siccome consideravano di buona razza solo i popoli norvegesi, svedesi e di alcune zona francofone, solo a queste donne e ai loro figli furono garantiti (almeno in via di principio) sussidi e tutele.

Venne fondata un’organizzazione apposita, la Lebensborn (= fonte di vita) che si occupava di riconoscere e gestire i casi meritevoli di aiuti.

Lo scopo? Era sempre quello: arianizzare. Senza dimenticare il fatto che, soprattutto verso la fine della guerra, la Germania era rimasta a corto di soldati e che, già da anni, il tasso di nascite nel paese era molto basso. Dunque serviva sangue nuovo.

Ma come vivevano le donne e i bambini coinvolti?

Le donne venivano stigmatizzate: moltissime cercarono di tener nascosta la paternità del proprio figlio per evitare di venir ripudiate dalla famiglia di origine (il segreto spesso si protrasse per decenni).

Dopo la fine della guerra, vennero punite pubblicamente, in un modo o nell’altro (il taglio dei capelli era una delle punizioni più frequenti).

Una donna che avesse intrattenuto rapporti con un tedesco, un invasore, era comunque vista come una traditrice: non solo dell’eventuale marito, che magari era anche morto in guerra, ma soprattutto della patria. Il corpo delle donne era quasi considerato una proprietà nazionale, perché serviva a fornire cittadini. Non interessava a nessuno se quei rapporti fossero stati di amore o mercenari o semplici incontri casuali: chi frequentava il nemico era una “puttana dei tedeschi”.

Le madri si adattavano spesso a sposare uomini che si confacevano a questa loro condizione di svantaggio. Altre sembravano essere convinte di dover sopportare molto dai mariti in cambio dello status sociale che il matrimonio garantiva loro.

E i bambini?

I casi furono molto diversificati, a seconda del paese e della condizioni sociale delle parti coinvolte.

Nell’Europa dell’Est, i numeri sono ancora sconosciuti, perché il Reich si disinteressò di figli di “bassa qualità”. Ma anche nei paesi giudicati più meritevoli, come in Norvegia, dove questi figli erano considerati una ricchezza, i bambini vissero sempre in condizioni svantaggiate: non solo nel senso economico (anche se spesso venivano da ceti poveri), ma soprattutto in termini di stigmatizzazione sociale.

Quando conoscevano il proprio padre (e non erano molti casi, vista la tendenza delle madri e tener nascosti passati rapporti col “nemico”), avevano una vita dura sia a scuola che in famiglia. Anche quando non ci fu violenza fisica, i bambini si sentivano comunque diversi, figli di un paese che aveva causato massacri e sofferenze in tutta Europa.

Diversi furono gli atteggiamenti statali nei loro confronti: dargli la nazionalità o no? Mandarli in Germania (che era praticamente distrutta) o in Australia o dove?

A complicare le cose ci si mise pure la c.d. scienza: molti medici e psicologi erano dell’idea che le madri e i “figlia della guerra” fossero dei ritardati, confondendo spesso la condotta “morale” con la salute mentale.

Decine e decine di migliaia di casi.

C’è ancora gente in vita che non sa di avere avi tedeschi in famiglia.

 

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