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Un matrimonio perfetto (Carla Cerati)

La storia tra Silvia e Fabrizio inizia durante la resistenza. Si conoscono, si piacciono, ma Fabrizio è uno che, pur di idee antifasciste, non prende davvero posizione. Non si arruola ma non va neanche con la resistenza, preferisce rimanere mesi chiuso in casa sotto la tutela della madre.

Quando la guerra finisce, sembra che tutto possa essere rinnovato, dalla politica alla sfera privata. Ma Silvia scalpita per iniziare una vita insieme, mentre Fabrizio la tira per le lunghe, con la scusa che non ha un lavoro stabile – che peraltro non cerca con molta convinzione.

Quando finalmente riescono a sposarsi, il miglioramento della loro posizione sociale non decolla subito e Fabrizio – che lamenta sempre qualche piccolo acciacco di non ben specificata natura – diventa distante sotto tutti i punti di vista.

Silvia si sente messa da parte, si sente sola, non si sente più apprezzata.

E’ così che diventa la classica casalinga insoddisfatta che si trova gli “amici”. Non sono tutti amanti, ma intrattiene con tutti dei rapporti ambigui: alcuni ci provano, anche in modo violento, altri sono tenuti sul filo del rasoio. Non rifiuta quando le chiedono di uscire, anche se sa che hanno certe intenzioni, va a trovarli a casa o li fa entrare in casa quando è da sola, oppure va via in auto con loro (e poi si trova nei guai).

Silvia e la sua amica Irene cominciano a darsi manforte per incontrare questo o quell’uomo (spesso più giovane di loro): si tengono i figli a vicenda, tacciono coi rispettivi mariti. Silvia, sia a casa che in villeggiatura, non esita a frequentare uomini di varia estrazione sociale, arriva al punto di avere una storia con quello che piace alla sua amica.

Insomma, una situazione di uno squallore piuttosto forte.

Carla Cerati, sebbene il suo sia uno stile Anni Sessanta, descrive tutto con molta poesia e scandaglia gli animi di Silvia sotto tutti i punti di vista, non solo emotivo, ma anche professionale. Questo tuttavia, a mio parere, non toglie nulla al fatto che la protagonista pecca un po’ di indecisione.

Non lascia il marito; all’inizio perché dice di esserne innamorata, nonostante tutto, e di volergli dare ancora delle possibilità. Poi entra in una fase di rassegnazione, dove tiene la casa nel modo migliore possibile, segue i figli e all’esterno sembra la moglie perfetta, ma si sente morta dentro.

Fabrizio si era lasciato sposare senza aver mai discusso con me la nostra vita futura. Tutto non era stato che una mia delirante visione.

Io parlo dal 2023, ma non capisco perché non lo lasci: non si giustifica mai dicendo che ci sono i figli, e le altre ragioni sono piuttosto nebulose, perché non parla approfonditamente delle sue paure nei confronti delle possibili reazioni dei parenti o degli amici in caso di separazione, ne fa solo qualche sporadico cenno.

Certo, allora, quando è stato scritto il libro, non c’era il divorzio, ma tutte le storielle che aveva con gli uomini erano più accettabili di una separazione?

Un altro aspetto che la Cerati sottolinea spesso è il rapporto tra gli uomini e le loro madri: ci sono diversi personaggi maschili che, per quanto adulti, vivono ancora con la madre e la mandano avanti quando c’è da fare qualcosa di scomodo, come, ad esempio, negarsi all’amante che telefona… da mettersi le mani nei capelli, perché non sono passati molti anni da allora!

In sostanza: il libro, nonostante l’età, bisogna leggerlo anche oggi, per lo stile di scrittura molto curato e perché descrive bene come si instaura gradualmente la stanchezza nei rapporti.

Quando vidi che ogni mezzo era inutile, mi sentii addosso il peso degli anni trascorsi assieme, riandai alle sue ostinazioni, alla fatica per ogni inezia; mi dissi che era troppo difficile lottare con lui, troppo distruttivo.

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E poi siamo arrivati alla fine (Joshua Ferris)

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No, non ho scelto il libro perché il titolo, in questi giorni di COVID-19, è beneaugurante, tant’é che questo romanzo non ha nulla a che fare con i virus: si parla di ufficio e di impiegati.

Siamo a Chicago in una grossa agenzia pubblicitaria. La storia è raccontata dal punto di vista di un “noi” non meglio precisato.

In realtà non c’è una vera e propria storia, ce ne sono tante: tutto è pettegolezzo, tutto è riportato, tutto è chiacchiera, tutto è dialogo. Raccontare quello che si sa (o si pensa di sapere) degli altri è lo sport ufficiale.

Lynn, la socia fredda e orientata al business, ha un tumore al seno, ma se ne avrà la certezza solo dopo metà libro. Tom Mota è (forse) pazzo e si aspettano che, dopo il licenziamento, torni ad uccidere tutti. Amber è incinta di Larry, che però non vuole mettere a repentaglio il suo matrimonio e che vorrebbe che lei abortisca.

Carl, sposato con un’oncologa, è in depressione e ruba le medicine di una collega, anche lei in depressione perché le hanno rapito e ucciso la figlia di otto anni.

Ho avuto le mie difficoltà a inquadrare tutti i personaggi, perché sono tanti,  e l’unica caratteristica che li unisce è lo spauracchio del licenziamento.

Faccio notare una cosa: della vita che ognuno di loro conduce fuori del lavoro non si sa quasi nulla. Sintomatico il fatto che la vicenda attraversa l’11 settembre e questo non viene neanche nominato.

Alla fine la lettura ti prende, però questo libro non finirà nella lista dei miei libri preferiti.

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La ragazza del treno – Paula Hawkins

Tanto nominato quanto scontato… così imparo a leggere libri troppo pubblicizzati!

Farò un po’ di spoiler, ma il romanzo è così scadente che perfino io – nota a livello internazionale per l’incapacità di scoprire i colpevoli – ho capito chi aveva fatto cosa.

La storia della ragazza che passa in treno davanti alla casa del suo ex marito – e che per caso entra in contatto con la scomparsa e l’assassinio di una donna – è piena di COINCIDENZE: ebbene, quando le coincidenze fioccano come pop-corn, subiscono una metamorfosi e diventano punti deboli.

E’ un caso che Rachel si sia fissata a guardare proprio una coppia la cui casa dà sulla ferrovia; è un caso che la donna della coppia fosse la baby sitter della figlia del suo ex marito; è un caso che proprio quella donna scompaia; è un caso che proprio la sera della scomparsa Rachel fosse nei paraggi…

Un ulteriore elemento che fa scadere il libro è l’amnesia alcolica. Banale, banale, banale. Rachel non ricorda cosa ha fatto la sera del crimine. Non solo: non ricorda neanche tutte le volte in cui si ubriacava quando era sposata, e si è costruita una versione del proprio matrimonio che si rivelerà fallace.

E continua a ricaderci, a bere, a decidere di smettere e a ricominciare di nuovo fino a stordirsi: ma fatti curare, cazzo!

Volete un’altra banalità?

Rachel, osservando questa coppia apparentemente perfetta dal finestrino del treno, si è fatta le sue favolette mentali, tanto da dare dei nomi fittizi ai due protagonisti. Ma dopo la scomparsa della donna, si mette in contatto col marito. Bè, dopo due incontri in cui i due praticamente neanche si dicono il nome, finiscono a letto insieme. Ma… erano ubriachi, ovvio!

Di sicuro questo romanzo non avrebbe potuto essere ambientato in una comunità mormona.

Salviamo qualcosa?

Certo.

Megan, la donna che scompare, è (tra le altre cose) annoiata: credo che la sua noia sia stata ben resa e che abbia assunto un ruolo abbastanza verosimile nel decorso dei fatti.

Altro aspetto da salvare: Rachel sente una forte spinta a immischiarsi nella scomparsa di Megan perché l’ha vista con un uomo diverso dal marito. Questo le fa rivivere – ancora e ancora – il tradimento del suo uomo, dal quale non riesce a risollevarsi.

Esistono persone così, che sono emotivamente invischiate nel proprio passato tanto da vedere le storie altrui in modo del tutto sfalsato? Sì, esistono.

Ultimo aspetto da salvare: il parallelismo tra Rachel e Megan. Sono entrambe senza direzione, senza un senso che possa mostrare loro strade alternative alla tragedia.

Esistono persone così? Sì, esistono, e questa verosimiglianza salva il romanzo; ma lo salva nonostante la trama da thriller privo di consistenza, un thriller che non ci dà nulla di nuovo.

Voto: 2,5/5.

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Padre e figlio, Giuseppe Fraschetti @Alettieditore

Ecco l’ennesima prova che saper scrivere non significa “saper scrivere un romanzo”.

Ripetizioni di concetti, dialoghi inverosimili, troppi avverbi in “-mente”, mancanza di dettagli visualizzanti…

Ma se non faccio un esempio concreto, non rendo l’idea.

Chiara, operatrice umanitaria in un paese arabo, è stata rapita e rilasciata. Si trova, dopo questa destabilizzante esperienza, davanti alla madre. Ecco il dialogo tra le due.

“Mamma, ti devo dire una cosa….”

“Di che si tratta? dimmi, non mi tenere in ansia”

“Sono incinta…”

“Cosa ? ma se hai detto a tutti che sei stata trattata bene e con il massimo rispetto? sicuramente è stato uno di loro… non è così?”

“E’ vero che mi hanno trattata col massimo rispetto… ma è stato uno di loro… è stata una cosa quasi accidentale… si era molto innamorato di me…”

“Perché non lo hai detto alle autorità che ti hanno interrogato?”

“Non voglio che si sappia… sono fatti miei personali; e poi, se lo avessi detto, l’opinione pubblica ne avrebbe tratto un’immagine falsa di quello che è stato il trattamento che mi è stato riservato, nel complesso buono e rispettoso; si è trattato di un vero e proprio incidente, non voluto da nessuno, forse nemmeno da lui…”

“Lui chi?”

“Mamma, ma di chi pensi che sia parlando, ovviamente di chi mi ha messo incinta…”

“Già, quel mascalzone… ma mi pare quasi che tu lo voglia giustificare..”

“E’ vero, è proprio così: lui ha fatto questo in preda ad un impulso che non è riuscito a fermare…”

“E’ sempre così…”

“No, mamma, non è vero: normalmente lo stupro è premeditato, calcolato a freddo ed eseguito proprio con l’intenzione di arrecare oltraggio oltre a tutto il resto; in questo caso è un vero e proprio delitto; ma non fu così nel mio caso: lui non aveva intenzione di oltraggiarmi; di questo sono assolutamente certa….”

L’ho riscritto riportando esattamente la punteggiatura, lasciando stare le virgolette finali che si aprono invece di chiudersi, perché il mio computer si rifiuta di farle. L’ho riscritto anche con lo spazio tra la parola e il punto esclamativo che la segue (“Cosa ?”). L’ho riscritto senza il punto alla fine dei dialoghi. L’ho riscritto con i quattro puntini di sospensione invece dei tre, canonici.

Ma anche limitandosi a tre puntini di sospensione, perché metterne così tanti? Il signor ingegner Fraschetti non ha mai visto quanti pochi puntini di sospensione ci sono nei romanzi in circolazione (se si escludono certe opere sperimentali)?

E ora arriviamo ai dettagli del contenuto.

a) “Se lo avessi detto, l’opinione pubblica ne avrebbe tratto un’immagine falsa di quello che è stato il trattamento”. Quel ne è superfluo. Errore di prima media.

b) “(…) trattamento che mi è stato riservato, nel complesso buono e rispettoso”. Una frase incidentale del genere, nella foga di un discorso su un presunto stupro non è per nulla verosimile.

c) La madre che chiede “lui chi?”. Ma di cosa stiamo parlando? Cos’è questa madre, malata di alzheimer o una che, mentre la figlia le parla della gravidanza inaspettata, si è distratta un attimo mescolando il minestrone?

d) “(…) un impulso che non è riuscito a fermare”. A me questa frase non mi suona come descrizione verosimile di quello che è accaduto. Non so dire esattamente perché, ma mi suona falso.

e) Chiara sta raccontando cosa è successo e si mette a descrivere, in generale, come avviene uno stupro (“normalmente lo stupro è premeditato, calcolato a freddo ed eseguito proprio con l’intenzione di arrecare oltraggio…”). Ci mancava solo che aprisse il dizionario e leggesse il lemma.

f) Quando spiega quali sono le ragioni generali per cui viene effettuato lo stupro (a proposito, sono troppo generali, banali, quasi, non mi sembra una descrizione degna di essere ricompresa in un romanzo che vuol definirsi tale), ad un certo punto dice che è per arrecare oltraggio “oltre a tutto il resto”. Cosa vuol dire questa frase? Banale, opaca, vuota, superflua: o spieghi, o la cancelli.

Mi fermo qui perché sennò divento noiosa come questa scena. Non dico nulla in merito alla mancanza di plasticità della scena (perché non descrive le persone mentre parlano?), che ci impedisce di vedere davvero quello che stiamo leggendo.

E ho riportato un estratto che è poco meno di una pagina. Non vi dico il resto.

Qui la colpa della sciatteria va divisa a metà tra il sig. ing. Fraschetti, che manca di un minimo di senso critico, e la casa editrice Aletti, che non ha colto questi ed altri dettagli che io, da semplice lettrice (e non professionista di editoria) ho colto.

Ma… oh, cosa vedo… la Aletti è una casa editrice a pagamento?

Ops…

 

  • “Se lo avessi deto, l’opinione pubblica ne avrebbe tratto un’immagine falsa di quello che è stato i

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Entra nella mia vita, Clara Sanchez @garzantilibri

LA STORIA: Veronica scopre di avere una sorella che non vive con la sua famiglia perché è stata rubata in culla. Lo scopre attraverso una foto che ha trovato in una cartellina in un armadio dei genitori. Ma per sette anni non fa domande e non chiede nulla. Poi la curiosità vince e inizia ad indagare per conto suo finché scopre il giro di malaffare che si cela dietro questa compravendita di neonati (la storia è tratta da un fatto di cronaca) e sua sorella Laura scappa dalla famiglia fasulla.

COMMENTO: Ragazzi, che lentezza…

L’avevo già iniziato e interrotto un paio di anni fa, ma dovendo andare in spagna per le vacanze, volevo immergermi nell’atmosfera. Beh, anche qui, di spagnolo c’è poco. E poi questo romanzo è così lento… infarcito di pensieri e riflessioni che non mandano avanti la storia ma che, peggio, sono anche abbastanza scontati, non danno un vero approfondimento psicologico.

Altra pecca: la storia viene mandata avanti (per così dire) attraverso le voci delle due sorelle. Ma il loro modo di esprimersi, nonostante siano cresciute in due ambienti totalmente differenti, è uguale. A volte leggendo dovevo tornare indietro di un paio di pagine per vedere chi stava parlando, se Veronica o Laura.

Altri difettucci di minore entità si potevano perdonare: ad esempio la storia tra Veronica e il belloccio di turno, storia troppo rapida e insignificante per la vicenda principale; oppure la mancanza di una spiegazione del sospetto della madre circa la morte della figlia; quello che non si può perdonare è la noia.

Ad un certo punto, siccome volevo arrivare alla fine e capire se i cattivi venivano puniti (e vi avviso: non se ne parla nel libro), ho iniziato a saltare paragrafi e, nonostante questo, continuavo a seguire la storia, prova del fatto che le parti saltate erano del tutto superflue.

Io non mi chiedo come si faccia a scrivere un libro così: l’autrice ci ha messo del suo, e uno scrittore non è mai il miglior giudice del proprio lavoro. Io mi chiedo: come si fa a vendere un libro del genere? Dove erano gli editor? Come ci si può affidare totalmente al marketing e alla notorietà dell’autrice?

Sconsigliato.

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