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Il cromosoma Calcutta (Amitav Ghosh)

Indefinibile.

Non è fantascienza, non è thriller, non è rosa, non è mainstream, non è storico, ma è un po’ tutto…

Il romanzo si snoda su tre piani temporali, ognuno legato all’altro perché il personaggio più recente indaga su quello della linea temporale precedente.

Antar, egiziano a New York, in un futuro prossimo indaga sui reperti del passato e incappa su Murungun che, nel 1995 a Calcutta, indagava su Ronald Ross, medico realmente esistito che nel 1898 ha scoperto come si trasmetteva il virus della malaria.

Sembra che le ricerche di Antar, Murungun e Ross siano guidate dal caso, eppure, qualcosa le sta indirizzando verso un obiettivo predefinito.

Predefinito da chi?

Da qualcuno che, sempre per caso, ha scoperto qualcosa che va al di là della malaria e che sembra sfociare nell’immortalità.

La storia è raccontata in modo visivo e discorsivo: vediamo i personaggi con i loro corpi e le loro espressioni, e capiamo gli avvenimento attraverso le loro parole, ma mi è poco chiaro il senso finale.

Un’interpretazione potrebbe essere quella che, attraverso i posteri e il loro interesse per la storia, si può rendere immortale un essere umano vissuto molto tempo prima (perché non credo proprio che Ghosh creda davvero nell’immortalità tout court).

Ma è un’interpretazione tirata per le orecchie.

Forse è uno di quei libri che bisogna leggere così come sono, senza farsi prendere da doveri interpretativi.

Però a me riesce difficile.

Ho bisogno di un messaggio, di una qualche forma di Verità.

Lungi da me il voler dire che questo romanzo non abbia un messaggio profondo, è solo che io non l’ho capito, e tutte le recensioni che ho trovato online non fanno altro che osannare il libro senza mai spiegarlo. Se lo avete letto, mi aiutate a decifrarlo?

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4 3 2 1 (Paul Auster)

Ci ho messo tre anni e tre giorni a finirlo. E non perché l’ho letto in inglese (da tirchia, non l’ho preso in italiano perché mi costava quasi il doppio).

Il fatto è che 4 3 2 1 è troppo americano. Quando incomincia a descriverti le partite di baseball o basket, quando ti spiega per filo e per segno la politica delle varie associazioni politiche universitarie durante il Sessantotto, quando ti nomina tutte le organizzazioni locali di estrazioni repubblicana o democratica, io, che sono italiana e non ho mai studiato così bene la società americana, semplicemente, non gli sto dietro.

Mi è piaciuta invece la storia di Ferguson. Anzi: le quattro storie di Ferguson, quattro diverse vite vissute da questo ragazzo (anche lui) puramente americano di origini ebrei attraverso alcuni degli anni più recenti e turbolenti degli Stati Uniti.

La Storia con la “S” maiuscola infatti è sempre dietro alle spalle di Ferguson che, tra una ragazza e l’altra, tra un libro e l’altro, si lascia più o meno coinvolgere dai movimenti sui diritti civili, dagli scandali, dalla guerra in Vietnam.

Ora che l’ho finito, ho capito perché nessuna recensione di 4 3 2 1 ne ha fatto un riassunto: è semplicemente impossibile.

Ferguson ha quattro vite alternative, cambia ragazze, studi, gusti sessuali e musicali… fa un incidente e perde due dita, oppure muore adolescente; si mette insieme ad Amy, oppure insieme a una ragazza francese; suo padre è ricco oppure fatica a racimolare i soldi per arrivare alla fine del mese perché suo fratello gli ha fatto fallire l’attività; sua madre è una fotografa in carriera oppure una donna insoddisfatta… insomma, in quattro vite, gli succede di tutto.

L’unica cosa che rimane costante è la storia americana alle sue spalle.

Questo romanzo è una dichiarazione d’amore agli Stati Uniti, con tutte le loro contraddizioni; è una dichiarazione di appartenenza a una nazione, alla sua storia e alla sua comunità.

Potrebbe un libro così essere mai scritto da un autore italiano per l’Italia?

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Il cardellino, Donna Tartt @casalettori

892 pagine e non sentirle!

Il romanzo racconta la storia di Theo Decker, che a 13 anni perde la madre in un attacco terroristico in un museo. Lui sopravvive miracolosamente, e in quegli attimi di confusione e paura succedono altre due cose che lo segnano per tutta la vita: tiene la mano al signor Welty, che sta morendo, e si porta via il quadro del Cardellino, un’opera dal valore inestimabile e che sua madre amava tantissimo.

E’ morta per colpa mia. Gli altri sono sempre stati fin troppo solerti nell’assicurarmi che, andiamo, ero solo un bambino, chi avrebbe potuto immaginarlo, un terribile incidente, maledetta sfortuna, sarebbe potuto accadere a chiunque, tutto assolutamente vero, ma io no ho mai creduto a una sola parola.

La grandezza del romanzo, però, non è tanto nella storia, che ha i suoi colpi di scena, ma nella nostalgia che lo permea ad ogni pagina.

Theo, dopo la morte della madre, prende quella che noi definiremmo una brutta strada: si dà alle droghe e al bere insieme al suo amico Boris. Rischia grosso quando un malvivente scopre che lui è in possesso del quadro (ma lo è davvero?? Non faccio spoiler), e finisce per perdere anche il padre, che aveva già perso da piccolo (aveva abbandonato moglie e figlio) e che… bè, scusate, mi fermo qui, rischio di raccontarvi tutto.

Anche da giovane adulto, Theo continua a chiedersi cosa sarebbe successo quel giorno al museo se… se… se… Questa domanda salta fuori spesso, e ci coinvolge tutti, perché tutti prima o poi ce lo chiediamo, sbaglio?

Eppure, alla fine Theo giungerà alla conclusione che è una domanda sbagliata.

Ma vi lascio il piacere della scoperta… Leggetelo!

Potete acquistarlo a questo link affiliato Amazon 

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Il libro delle illusioni, Paul Auster

David Zimmer è un professore che, in seguito alla morte della moglie e dei due figli, ha perso la voglia di vivere.

Un giorno, per caso, si ritrova a guardare un film degli anni Venti, e gli scappa una risata. Basta questo per invogliarlo a iniziare una ricerca sul protagonista di quella comica, Hector Mann, un attore che stava per salire alla ribalta di Hollywood quando, all’improvviso, è misteriosamente scomparso.

Zimmer viene contattato via lettera da Frieda Spelling, che si dice moglie di Hector Mann: gli spiega che il marito è ancora vivo e che vuole conoscerlo.

Il professore si lascerà coinvolgere dalla storia dell’ex attore, ma noi, che leggiamo il resoconto scritto undici anni dopo i fatti, restiamo sempre col dubbio se ciò che è successo è successo davvero così.

Hector Mann è morto di morte naturale, o no?

I suoi film sono stati tutti distrutti, o no?

Ciò che si vede è ciò che c’è, o c’è anche ciò che non si vede?

La verità è davvero l’unica cosa che conta?

Può esistere l’arte fine a se stessa, destinata a non esser condivisa?

Se spariscono dal mondo tutte le testimonianze della vita di Hector, allora Hector sarà davvero esistito?

Chiuso il libro mi è rimasto il sentore di non averlo capito del tutto: cosa voleva dirci Auster con questa corsa all’ultimo minuto per vedere dei film che sono stati girati allo scopo di venir distrutti per sempre?

Guardiamo alle somiglianze: Zimmer sta traducendo le Memorie di un uomo morto (Chateaubriand) e ha scritto un libro che potrà esser letto solo dopo la propria morte e Alma (la sua ragazza per otto giorni) ne ha scritto un altro che potrà pubblicare solo una volta morto Hector Mann (non faccio altro spoiler).

C’è morte ovunque, in questo libro, nel senso di morte fisica e di dimenticanza.

La morte fisica avviene per caso: un incidente aereo, una pallottola vagante, uno spintone. Non ci si può far niente.

Ma contro la dimenticanza sì, si può lottare. Coi libri, coi film con l’arte.

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Una vita nel vuoto, Irwin Shaw

Mi piacciono i film americani, ma solo quando sono… film, non quando sono libri scritti sotto forma di sceneggiatura camuffata da romanzo.

Questa storia, poi, la trovo molto didascalica: il protagonista è malato di adrenalina, vive una vita senza significato e si sente rinascere solo quando si dedica agli sport estremi o rischia di morire.

Mi fa poi un po’ ridere la classica storia romantica in cui i due si sposano dopo appena cinque mesi che si conoscono: colpo di fulmine, amore per tutta la vita. E’ uno stereotipo così… americano, così… cinematografico!

Ho sospeso la lettura a p. 135 (su 314) perché non ce la facevo a continuare, e poi ho sbirciato la fine (attenzione: spoiler!!!), dove Mike si riconcilia con la moglie quando capisce da che parte stanno i veri valori.

Banale.

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La casa della gioia, Edith Wharton @CasaLettori

Lasciatemi un attimo, che mi riprenda dalla drammatica fine di questo romanzo…

Ecco, adesso ce la faccio.

Lily Bart è una bellissima donna della New York dei primi anni del Novecento. Viene da una famiglia caduta in rovina, è orfana, senza mezzi, ma è abituata al lusso e dotata di modi squisiti, e indispensabili, per l’alta società del tempo. Per queste ragioni, le signore se la contendono come fosse un trofeo da mostrare alle numerose feste della Saison.

Ma la vita che conduce, costringe Lily a spendere più di quello che la sua magra rendita e l’aiuto di una vecchia zia le permettono. L’unica soluzione davvero definitiva sarebbe sposare un ricco. E le occasioni non le mancano, data la sua bellezza e la sua grazia.

Eppure… eppure finisce sempre col mettersi nei guai. Parlerei quasi di autosabotaggio.

Perché Lily, in fondo, pur anelando ad appartenere a quel mondo pieno di luci, ne sente anche la vacuità.

Non è un personaggio facile, Lily. La sua smania di lusso me la fa sentire estranea, all’inizio: la nostra mentalità moderna ce la rende incomprensibile, soprattutto quando capiamo che si innamora del giovane e intelligente avvocato Selden, ma che non accetta di sposarlo perché lui non può garantirle il lusso che lei vorrebbe.

Pian piano Lily scende nella scala sociale, di gradino in gradino, fino a una delle infamie più dissacratorie: la necessità di lavorare per vivere (sob!!).

Lily Bart è un essere combattuto, che si comporta esternamente in un modo ma che, internamente, critica ciò che fa e le ragioni per cui è costretta a farlo. Le astuzie a cui si riduce per accalappiarsi i ricconi sono rese possibili dalla sua intelligenza e dalla sua capacità di indagare i fini ultimi delle persone; eppure tutto ciò non basta, e Lily finirà male. Molto male. Quando sembra che ci sia un filo di luce, un’ombra di redenzione… niente, finisce male.

Il finale tragico è inevitabile per due ragioni:

  1. l’orgoglio.
  2. L’educazione.

Sono questi i due diavoli che impediscono a Lily e Selden di capirsi; e sebbene le regole di quella società siano molto diverse dalla nostra, i moventi del comportamento individuale sono sempre gli stessi. Si cercano i soldi, per ottenere altro. Ma alla fine i soldi diventano lo scopo, e lo scambio tra obiettivo e mezzi diventa fatale.

Edith Wharton doveva fare la psicologa: certe sfumature emotive solo una psicologa (donna) poteva illuminarle così.

Solamente un neo nel libro: questa edizione è piena di refusi.

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Qualcuno, di Alice McDermott @Einaudieditore

Come donna occhialuta dalla vita, diciamolo, piuttosto banale, devo rendere grazie alla McDermott per aver scritto un libro su una donna occhialuta dalla vita – diciamolo ancora – banale.

In fondo, cosa facciamo, dalla nascita alla morte, se non gioire e rattristarci delle solite cose? Nascite, morti, amori, disillusioni, delusioni, figli, lavoro… eppure, in questa normalità, ognuna sente a modo suo.

La Marie del romanzo ci racconta tutto con parole semplici, ma evocative: dalla sua infanzia a Brooklyn, al suo primo innamoramento con tanto di abbandono per una ragazza più ricca, al suo lavoro alle pompe funebri, al suo matrimonio e ai suoi figli. Una vita normalissima, come se la raccontasse ad un’amica appena incontrata dopo tanti anni.

Tace spesso, ma lascia intuire. In fondo, spesso neanche la vita ti spiega il perché di certi avvenimenti.

Sentite qui come descrive il dolore del suo primo parto:

Di suppliche al cielo ne avevo mandate talmente tante – per prima cosa che il bambino fosse sano, e di non morire di parto, se possibile; adesso soltanto che il dolore avesse fine – da sentirmi ormai come un venditore di spazzole che bussa a un robusto portone, un portone senza cardini, senza maniglie.

Quante Marie sono esistite e quante ne esistono e quante ne esisteranno ancora senza che nessuno ne scriva la storia?

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Home before dark – @susancheever

In Italia non si trova molto di John Cheever: questa sua biografia ho dovuto comprarla e leggerla in inglese. E’ scritta dalla figlia Susan, a sua volta scrittrice: l’avevo “incontrata” nella sua biografia di Louisa May Alcott, e mi era piaciuta molto.

Tuttavia, questo libro non mi ha appassionato allo stesso livello.

John Cheever non ha certo avuto una vita avventurosa, e riconosco le difficoltà che si possono incontrare nello stilare la vita di uno scrittore: uno scrittore scrive, non c’è molto altro da aggiungere!

Il resto della sua vita è stato segnato dalla normalità (qualunque cosa si intenda con questa parola), dalla famiglia, dai frequenti traslochi, dai suoi cattivi rapporti con la moglie, dalla sua omosessualità latente e dall’alcolismo.

Era una biografia dovuta, ma non posso definirla appassionante. E’ scritta bene, ma alla sera non tornavo a casa con la voglia di prenderla in mano per mettermi a leggere. Ammetto anche di aver saltato dei passaggi (più che altro descrizioni di paesaggi e di comuni visite tra vicini di casa). Nonostante questo, è comunque valsa la pena di leggere i passaggi in cui la Cheever racconta di come a tredici anni chiacchierava di libri con suo padre. Magari avessi avuto qualcuno con cui parlare di libri durante la mia adolescenza!

Cheever per gran parte della sua vita ha litigato con i soldi (o con la loro mancanza), con la moglie e con la bottiglia. Ha attraversato tutti gli stadi dell’alcolismo, e solo chi ha vissuto con un alcolizzato sa cosa significa. E’ rilevante il fatto che anche la madre di Cheever era alcolizzata. E anche la stessa Susan Cheever lo è stata (tanto che ha pure scritto un saggio sull’America e l’alcool).

Lasciatemi tradurre qui un paio di frasi che ho trovato alla fine del libro (by the way, perché i libri americani hanno questi interessantissimi inserti per i gruppi di lettura, con domande piene di spunti interessanti e interviste all’autore, e in Italia no??):

Mark Twain diceva che se non c’è scoperta per lo scrittore durante la scrittura di un libro, non ci sarà scoperta per il lettore. Scrivendo Home Before Dark ho scoperto che mio padre era bisessuale. Ho inoltre iniziato a capire il suo legame con l’alcool.

(…) Scrivo nella speranza che la mia esperienza in tutte le sue specificità possa aiutare altre persone – o perché possono riconoscersi in essa e sentirsi meno sole – o per altre ragioni.

 

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Beauvoir in Love, Irène Frain @Librimondadori

Biografia romanzata (o romanzo biografico) della storia tra Simone de Beauvoir e lo scrittore Nelson Algren.

Non ho messo alcun aggettivo al sostantivo “storia”. Non la considererei una vera e propria storia d’amore. Piuttosto, una storia di passione, una forte attrazione sessuale.

La Frain si è basata su un’enorme massa di documenti per scrivere questo romanzo; tuttavia, la storia che ho letto (volentieri e fino alla fine) mi è sembrata un altro pianeta rispetto a quello che sapevo della De Beauvoir. Facendo il confronto con alcuni passaggi di “La forza delle cose”, che è la sua autobiografia di quel periodo, ne vengono fuori due donne diverse. Nell’autobiografia, vediamo un’intellettuale famosa tutta infervorata nelle discussioni politiche e filosofiche che si innamora di un uomo pur restando legata a Sartre. Nel romanzo vediamo una donna che ha perso la testa per un uomo ma che resta legata a Sartre: manca tutta, e dico tutta, la sua parte intellettuale.

Nel romanzo non si fa cenno alla filosofia e alla politica: la De Beauvoir viene rappresentata a volte come una seduttrice, a volte come una bimbetta, a volte come un’isterica, a volte come una donna completamente perduta per l’amante, ma non c’è traccia della sua personalità pubblica; è come se non esistesse; e non si fa il minimo accenno neanche all’altra passione dell’intellettuale: i viaggi. Esistono solo i due amanti.

Sicuramente questo è l’effetto voluto dalla Frain: rendere l’intensità del rapporto a due, finchè è durato. E ha ben reso anche lo sdoppiamento della De Beauvoir quando spiegava che in lei c’erano due donne che di raro si trovavano d’accordo: Simone, la donna innamorata di Algren, e Il Castoro, dal soprannome che indicava il suo ruolo all’interno dell’originario gruppo di amici ed intellettuali di Parigi.

Leggendo in parallelo il romanzo e l’autobiografia, è interessante vedere come il rapporto venga fuori sotto due lenti completamente differenti. Ovviamente, su queste vicende è più interessante il romanzo, soprattutto perché ben evidenzia l’andamento della relazione, dall’apice al lento declino, fino all’odio finale.

Ma sono arrivati davvero ad odiarsi? Certo, in vecchiaia, quando venivano intervistati e le domande cadevano sulla loro relazione, entrambi si scaldavano parecchio. Ma la De Beauvoir ha portato per tutta la vita l’anellino d’argento che Algren le aveva regalato (anzi, ha voluto essere seppellita con quello), e ha conservato accanto al letto tutte le lettere che lui le ha scritto (a differenza di tutto il resto del suo archivio, di cui lei non ha mai avuto molta cura). Mentre Algren si teneva in casa un collage fatto con tutti i ricordi che aveva raccolto nei loro incontri.

Perché la loro storia è finita? Dal romanzo, sembrerebbe che la De Beauvoir non abbia mai voluto abbandonare Sartre. A lui era legata dal loro patto: loro due formavano l’amore necessario, altre persone potevano intrufolarsi nel rapporto solo come amori “contingenti“. Ma Algren non ci stava (neanche gli altri amanti, se è per questo, né da parte della De Beauvoir, né da parte di Sartre).

Ecco cosa dice la De Beauvoir in “La forza delle cose”:

(…) è vero che la mia intesa con Sartre resiste da più di trent’anni, ma non sempre questo è avvenuto senza perdite e complicazioni di cui gli “altri” hanno pagato le spese.


Devo dire la mia? Questo patto tra Sartre e la De Beauvoir mi sembra tanto un accordo di comodo. Cioè: scopiamo con chi ci pare, ma restiamoci intellettualmente fedeli raccontandoci tutto. Già nel romanzo si capisce che i due non si dicevano davvero tutto: sembra che la De Beauvoir non abbia mai confessato a Sartre quando fosse gelosa di Dolores, la donna che lui “amava” mentre lei era innamorata di Algren. Ma anche Sartre si teneva certe cose per sé.

Prima di leggere questo romanzo pensavo che l’essere umano fosse un animale con tendenze poligame. Ora propendo per una via meno estrema: la poligamia crea casini. E poi, diciamolo: senza fatica, senza commitment, come dicono gli americani, non si crea nulla, né a livello personale, né a livello di coppia.

 

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Winter Journal – Paul Auster

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I loved The New York Trilogy. I cannot say the same thing for Hand to Mouth. But maybe I am not the right person for Auster’s autobiographies. Actually, this is – I think – his third authobiography. He writes of himself as “you”, in second person, maybe to add some distance between him and himself.

My interest went up and down. I must admit that I did not like the lists: lists of things he did, of actions, of people… in my opinion you cannot write a page full of list. You can do it in your journal, if you keep it in your drawer… same reasoning for the lack of internal order: he writes subjects as they get his memory: from early years, to the 64th birthday, from writing, to house moving, from panic attaks to marriage, from sexual impulses to dance.

I appreciated the parts in wich he tells about his mother’s Youth and Death, and how she was despised by the “dour matrons of father’s family” because she acted as if she was the most beautiful woman on the earth. But I also liked the way in wich he remembers her, as a woman who was, at the same time, very practical, active and sensitive. And I love the doutful life she had, because the author will never know if she had a lover during her marriage or not.

At the end: no, I did not like this book very much, but if you have the change, please do read it. It is anyway a collection of memories of a man who has lived, loved, written, read, suffered and travelled a lot (Gosh, I do not know how many times he moved from a house to another: I would become mad doing that!). A little sad, maybe, because he reminds us that we will wither too, despite all our current ebullience, but anyway useful.

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