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Il canto di Penelope (Margaret Atwood)

Margaret Atwood in questo romanzo, lascia parlare Penelope dall’Ade. La moglie di Odisseo si rivolge a noi, nel nostro secolo, e ci racconta la sua versione dei fatti: Ulisse, Troia, Elena…

Perché l’Odissea racconta un solo punto di vista: quello dell’eroe che aiuta a sconfiggere i troiani con lo stratagemma del cavallo di legno e che poi, tornando a casa, si ferma qua e là, mentre la moglie Penelope lo aspetta a casa, fedele e paziente, imbrogliando i pretendenti con lo scherzetto della famosa tela (che in realtà è un sudario per il suocero, che, nell’eterna attesa del figlio che non torna, potrebbe morire da un momento all’altro).

Penelope era figlia di un re di Sparta, intelligente ma non molto bella, sicuramente non bella come la cugina Elena, che faceva impazzire gli uomini ai suoi piedi. Quando è venuto il momento di darla in sposa, essendo una principessa, c’era in gioco una dote consistente, dunque i pretendenti erano numerosi. Ma erano tutti là per la dote, non per lei!

Lo stesso Ulisse aveva provato a sposare la bellissima Elena, ma non c’era riuscito: insomma, Penelope è un ripiego, e ce lo fa, molto femminilmente, notare. Ciononostante, una volta sposati, con Ulisse riesce a instaurare un bel rapporto, finché dura… perché a un certo punto inizia la guerra di Troia e Ulisse, essendo vincolato a un giuramento, deve partire.

Sta via vent’anni, abbandonando la moglie in uno scoglio di regno in mezzo a rocce e capre.

Ma Penelope ci parla da morta: ora sa tutto quello che è successo e adesso può parlare, perché nessuno può più farle del male.

Ad esempio, ci rivela che lei si era accorta subito che il mendicante che ha sfidato i pretendenti era suo marito, ma ha voluto lasciargli credere di esserci cascata, perché lui ci teneva a passare per uno bravo nei travestimenti. E quando Ulisse fa uccidere le dodici ancelle che per lui erano delle traditrici, ci confessa che le aveva mandate lei a spiare i proci per capire che intenzioni avevano, e le ancelle avevano obbedito.

Alcune poi, in seguito a questo atto di obbedienza, sono state stuprate, altre si sono addirittura innamorate di questi pretendenti di Penelope (erano giovani e belle, ricordiamocelo), ma a Ulisse questo non rileva: lui le fa impiccare perché lo hanno tradito.

E Penelope, dal regno dei morti, si pente e di duole di questo spargimento di sangue innocente di cui lei è parzialmente colpevole.

Ma a mio parere, le parti più interessanti del libro sono quelle in cui lei si confronta con la bellissima cugina Elena: vanitosa, attentissima al proprio aspetto, civetta con gli uomini e li lascia cadere nella sua trappola solo per il piacere di dimostrare che può farlo. Non le interessano le conseguenze.

Rispetto all’Odissea, qui si punta l’attenzione su Penelope che è, in definitiva, bruttina, ma intelligente, che tutti hanno corteggiata principalmente per i suoi soldi; si sottolinea che suo figlio Telemaco era viziato e che suo marito Ulisse era un furbastro che faceva quello che voleva; e che, infine, le donne sono sempre quelle che ci rimettono (a meno che non usino gli uomini ai propri scopi, come fa Elena).

Alla fine, non può manca un tribunale dei giorni nostri dove Ulisse viene giudicato.

Colpevole o innocente della morte dei pretendenti?

Innocente.

Colpevole o innocente della morte delle dodici ancelle?

Innocente.

E Ulisse, maestro d’inganno e travestimenti, anche se morto, non può restare a lungo nell’Ade. Va e viene, rivivendo nel nostro mondo sotto le spoglie più diverse. Alle sue calcagna, le furie, inviate dalle dodici ancelle che cercano vendetta.

Per scrivere questo romanzo, Margaret Atwood si è basata in gran parte sull’Odissea, ma anche sulle teorie di Graves, dove Penelope sarebbe stata la sacerdotessa di un culto di una divinità femminile; e devo dire che questa Penelope mi piace molto di più di quella canonica che tesse durante il giorno e disfa durante la notte.

Ne viene fuori una donna che vive all’ombra di un marito famoso ma che non è così passiva come ce la vogliono far sembrare: che per essere accettata, bruttina com’è, deve farsi passare per paziente e sottomessa, tanto da diventare l’archetipo della moglie ideale, per molti.

Lei a casa a respingere i pretendenti e a tutelare la sua virtù, il marito in giro per il mondo a intingere il biscottino dove gli pare.

Ma quanto piace questa versione di Penelope silenziosa a certi uomini?

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Cercando Alaska (John Green)

Il romanzo è diviso in due parti ben distinte e per spiegarvele devo fare un po’ di spoiler.

Nella prima, Miles, detto Ciccio, inizia a frequentare il liceo di Culver Creek, Alabama. Qua fa la conoscenza del Colonnello, il suo compagno di stanza, del suo amico Takumi, e soprattutto di Alaska, di cui si innamora su due piedi, nonostante lei abbia un ragazzo fisso di cui si dice innamoratissima.

Tutta la prima parte parla di sigarette, scherzi goliardici, bevute, vomito, dialoghi senza capo né coda e le giornate sono scandite da un conto alla rovescia che è l’unico fattore che mi ha fatto continuare la lettura: volevo sapere cosa sarebbe successo il giorno zero.

Perché questa prima parte, nonostante ci siano accenni di interesse in Ciccio (che si impara a memoria tutte le ultime parole dei personaggi famosi) e Alaska (grande lettrice), la trama è scarsa. Devo ammettere che, a differenza di molti altri che hanno letto il libro, Alaska non mi stava molto simpatica: passava dalle domande filosofiche al vomito da bevute con una velocità da bipolare. E questo è l’effetto che ha voluto darne l’autore, ma lo si capisce solo dopo il giorno zero, e nel frattempo mi sono annoiata a leggere di questi che non avevano niente di meglio da fare nella vita che pensare a come comprarsi le sigarette e a dove nascondere le bottiglie di alcool.

Nel giorno zero, Alaska muore in un incidente stradale. Era ubriaca fradicia e dopo l’ennesima sbronza, gli amici l’avevano coperta mentre se ne andava dal campus di notte in auto per una destinazione ignota.

Qui i discorsi iniziano a farsi letterariamente interessanti (eh sì, Alaska doveva morire). Tutti i suoi amici più cari iniziano a soffrire di sensi di colpa per averla lasciata andar via in quelle condizioni. Sbigottiti, cercano una ragione.

Era talmente ubriaca da non vedere l’auto della polizia su cui si è sfracellata? O è stato un suicidio? Dove stava andando? Quali sono state le sue ultime parole?

Il fatto è che una ragione non la trovano. Non solo non c’è una ragione per la morte, ma non c’è neanche modo di capire davvero cosa frullasse per la testa di Alaska Young.

Young: giovane.

E’ un modo che l’autore adotta per dirci che i giovani non li possiamo capire, hanno troppa energia che si irradia in mille direzioni. E’ un modo per dirci che anche tra i giovani c’è l’incomprensione, la distanza. Non è un caso se Miles nota in più di un’occasione quanti strati di vestiti lo separano da un amico o dall’altro, e non è un caso se ammette di essere in cerca del suo grande Forse, un Forse che rimane tale anche alla fine del libro.

E’ un modo per ricordarci che anche da giovani si percepisce il labirinto in cui viviamo, che è una metafora per la sofferenza, e che anche da giovani, sebbene si sembri così spensierati, ci si chiede come si sfugge ad esso.

Non ci sono risposte a domande così antiche.

Forse una possibilità è lasciar andare: lasciarsi andare. Lasciar andare le persone che sono morte per rendersi conto, ancora una volta, di essere vivi.

Un’ultima nota.

Questo romanzo, come tanti altri che si rivolgono agli adolescenti, sembra dividere il mondo in giovani e vecchi.

In realtà, sono millenni che abitiamo questa terra, e i giovani, se non muoiono, si trasformano in vecchi. Voglio dire: sono le stesse persone, e da quando esistiamo c’è una sorta di vetro che divide gli uni dagli altri, come se fossero esseri di due pianeti diversi. Ognuna delle due categorie soffre di senso di superiorità, per un motivo o per l’altro, ma è inevitabile che un giovane, per quanta energia e intelligenza mostri nell’età d’oro, poi finisca col telecomando a guardarsi le serie di Netflix e a bersi le pubblicità di Gucci.

Il mondo va a catafascio, eppure in tutte le epoche ci sono state coorti di giovani pronti a cambiarlo.

E siamo ancora qui, con gli stessi problemi che vanno avanti da millenni.

Se i giovani fossero davvero la speranza dell’umanità, perché in tutti questi secoli non siamo mai riusciti a venirne fuori?

Le persone mature dovrebbero cercare di ricordarsi com’erano da giovani, e i giovani dovrebbero fare uno sforzo e ricordarsi che invecchieranno. Un po’ di rispetto da entrambe le parti non guasterebbe.

Chissà, magari un giorno potremmo perfino parlare di una possibile collaborazione…

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La gabbia d’oro – Tre fratelli nell’incubo della rivoluzione iraniana (Shirin Ebadi)

Shrin Ebadi, iraniana, era un giudice: l’hanno licenziata perché una donna non poteva rivestire un ruolo del genere. Per la sua lotta per i diritti civili, le è stato conferito il Premio Nobel nel 2003. Ma la storia che racconta in questo libro non parla di lei. Parla di una famiglia di suoi amici.

Padre e madre che cercano di tenersi lontani dalla politica, la figlia Parì, amica intima di Shirin, che cerca sempre di far ridere. E poi tre fratelli, che lontani dalla politica non riescono a stare, arrivando a non rivolgersi più la parola.

Il più grande, fedele allo Scià, dovrà emigrare negli Stati Uniti e morirà dopo l’ennesima delusione. Il più giovane passerà agli ordini del potere islamico, facendosi crescere la barba e parlando a slogan come il suo mullah. Il figlio di mezzo invece si dedicherà anima e corpo a combattere a favore di ideali comunisti.

Non finisce bene, la storia di questa famiglia. Vi risparmio i dettagli, ma potete immaginarli com’era (e com’è ancora) la vita in un paese teocratico che non ammette la libertà di parola: torture, guerra, esilio, sicari, isolamento, errori giudiziari…

A proposito di errori giudiziari. Nel libro si racconta la storia di un anziano zio che era un oftalmologo: arrestato per errore (il suo nome comparire in un’agendina di un conoscente di un sospettato), esce dal carcere e sfugge alla morte per un puro caro. Riunito ai famigliari racconterà di quando doveva lavorare in carcere.

“Come mai c’erano tante persone malate agli occhi? Non è un’epidemia insolita?” (…)

“Sono le conseguenze della fustigazione. Alle frustate può seguire uno shock nervoso che causa lo scoppio delle vene nel cuore, nei reni e negli occhi. Se non si cura immediatamente l’emorragia, il paziente può restare cieco.”

La gabbia d’oro del titolo è la gabbia dell’ideologia. Quando i tre fratelli abbracciano le rispettive ideologie, smettono di parlarsi, e anche quando si parlano, non si capiscono. E’ come se ogni parola sbattesse sulle sbarre di una gabbia d’oro, che fa sentire al sicuro chi si è rifugiato all’interno ma che impedisce ogni contatto con l’esterno.

E noi, di quali ideologie soffriamo?

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Potere e sopravvivenza (Elias Canetti)

Di Canetti spero di leggere presto “Massa e potere”, che è la summa del suo pensiero sulla materia, ma già questo libretto ne contiene alcuni punti.

Si tratta di una raccolta di saggi che non sono omogenei tra loro ma sono legati dai due temi del titolo, appunto il potere e la sopravvivenza.

Sembra incredibile, ma questi due argomenti li ritroviamo in tutti i saggi, sia quando parla del suo ex idolo Karl Kraus, il cui potere si incarnava nelle accuse che gettava intorno a sè, quando parla del diario, di HItler e del suo architetto Speer, di Confucio e di Tolstoj.

Data la varietà dei soggetti, è inutile neanche provare a fare un riassunto, ma vi lascio solo un paio di estratti che riguardano la scrittura dei diari, visto che io ne tengo uno da quando avevo sette anni (7!).

Nel diario non si parla soltanto con se stessi: si parla anche con gli altri. Tutti i colloqui che nella realtà non si possono portare fino in fondo poiché finirebbero in atti di brutalità, tutte le parole assolute, irriguardose, spietate, che spesso sentiamo di dover dire agli altri, tutto questo si deposita nel diario.

Le astuzie e le misure precauzionali per tenere segreto un diario non saranno mai troppe. Delle serrature non c’è da fidarsi. Molto meglio le scritture cifrate. Io uso una stenografia modificata che nessuno sarebbe in grado di decifrare senza un lavoro di settimane.

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Gli eredi della miniera (Jocelyne Saucier)

Di questo romanzo mi è piaciuta la costruzione perché gli eventi sono presentati un po’ alla volta, a seconda del punto di vista di chi racconta.

E’ la storia di una famiglia canadese negli anni Sessanta. Il padre ha scoperto una miniera di minerali, grazie alla quale è sorta una piccola cittadina, ma poi una società mineraria lo ha imbrogliato e gliel’ha sottratta.

L’uomo ha ventuno figli. Matz, il primo che inizia a raccontare la storia, è l’ultimo nato e vive nell’orgoglio di appartenere a una famiglia così numerosa e conosciuta, ma quello che c’è davvero sotto lo scopriamo un po’ alla volta, man mano che si presentano gli altri fratelli.

Quando incomincia a raccontare, si trova in un albergo per un congresso di minatori: la famiglia, nel tempo si è dispersa, e quel congresso è forse l’unica occasione che hanno per incontrarsi tutti di nuovo dopo trent’anni.

Veniamo così a conoscenza della madre, che ogni notte girava per i letti a contare i figli; del padre, che passava tutto il suo tempo in cantina a studiare i suoi minerali; di Geronimo, che è diventato medico di guerra e che è sempre in giro per il mondo; di Jean D’Arc, la figlia maggiore che ha sempre cercato di controllare i fratelli minori.

Vediamo come il padre abbia scoperto una vena di minerale dopo che la miniera è stata chiusa e inizia a scavare di nascosto insieme al figlio maggiore.

Ma soprattutto sentiamo la storia delle due gemelle, Tommy e Angéle, così identiche che perfino i genitori e i fratelli non riescono a distinguerle.

La tragedia gira proprio attorno ad Angéle, la più dolce tra tutti i bambini: proprio per la sua dolcezza, viene quasi adottata da una ricca famiglia che non riesce ad avere figli. Inizia a star via durante l’estate, e poi anche durante l’anno, per entrare in una scuola privata: quando torna a casa fatica a reinserirsi, gli altri fratelli, che sono rimasti a vivere nella povertà e in mezzo all’odio dei vicini di casa, vedono il suo allontanamento quasi come un tradimento.

Ma il giorno del congresso, Tommy, la sua gemella, è sul piede di guerra e giura che… mai più prenderà il posto di Angéle.

Non dico altro altrimenti vi rovino la storia (non l’ho trovata tradotta in italiano, solo in francese e tedesco).

Se devo dare un giudizio, devo dire che verso la fine la tensione scema un poco: quando si capisce cosa è successo, e manca solo un piccolo dettaglio per mettere tutte le tessere al suo posto, quel dettaglio è un po’ debole (mi riferisco al motivo per cui Angéle compie un gesto).

Però per la maggior parte del libro la lettura è piacevole, spero che venga tradotto presto in italiano.

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Raccontino

L’ACQUA LO SA (SERENA GOBBO)


Mia moglie aveva cercato di avvertirmi, una delle ultime volte che mi ero chinato ad ascoltare i suoi sussurri. Aveva un fiato dolciastro, che attribuivo al glucosio delle flebo, e che invece era dovuto – ora lo so – alla carne che si disfaceva.
“Lui sta arrivando” aveva detto, e io avevo annuito, muto, senza notare che aveva detto “lui”, e non “lei”, come faceva nelle ultime settimane.


“Lei”, Clara la nominava spesso, e non era una figura impietosa con la falce sporca di sangue: era una donna velata a lutto che offriva una sua forma di accoglienza, e pronta a porgerle la mano per sollevarla un’ultima volta da quel letto che Clara non abbandonava ormai da mesi. “Lei” non era neanche una figura ossuta e spigolosa: era dotata di un corpo arrotondato e morbido, e di una voce delicata che la chiamava sottovoce con la delicatezza di un foulard di seta che ondeggiava al vento.
“Lei”, insomma, era una donna: imperscrutabile e profonda, come un pozzo nel quale si precipita con terrore ma che, in fondo, ci accoglie su uno strato di morbida terra misericordiosa.


“Lui” non sapevo chi fosse, ma quando tutto finì e tornai a casa, mi accorsi che qualcosa era cambiato. L’erba continuava a crescere lungo il canale; i runner continuavano ad allenarsi sulla strada davanti a casa nostra – mia -; le auto sul cavalcavia continuavano a correre; eppure Carla aveva avuto ragione per l’ultima volta: “lui” stava arrivando.
Se ne accorse anche Cristoforo: una mattina, due giorni dopo che ero tornato, mi destai alle otto e un quarto e saltai a sedere sul letto. Non avevo sentito il miagolio che per dodici anni mi aveva svegliato con una puntualità ragioneristica alle sette. Uscii in pigiama e pantofole e Cristoforo non c’era. Lo aspettai tutto il giorno e i giorni successivi; lo chiamai, gli lasciai i bocconcini nella ciotola, ma non lo vidi più, e alla fine dovetti regalare ad un’associazione le scatolette che lui non avrebbe più mangiato.


In questi mesi ho cercato di raccogliere degli indizi su di “lui”, di capire chi è, cosa vuole.


Il primo è stato lo sguardo di Carla. Quando mi parlava di “lei”, teneva gli occhi socchiusi, come se ci fosse stato un raggio di sole a sfiorarle le palpebre; ma quando aveva nominato “lui”, l’espressione era stata molto diversa. Sulle prime avevo pensato che l’avesse pungolata un dolore improvviso, sfuggito alle maglie delle droghe che le giravano per le vene: un guizzo di fuoco che le aveva fatto strabuzzare gli occhi e raddrizzare la schiena. Ma il dottore mi aveva tranquillizzato, ormai dolori fisici non ne poteva sentire.


Un altro indizio era stata la scomparsa di Cristoforo, che si allontanava solo quando arrivava un estraneo e che tornava non appena l’intruso se ne andava.
Infine, l’ho sentito anch’io. Lo sento anche ora. E’ decisamente “lui”. Non so che faccia abbia, nè cosa voglia, ma c’è, è qui con me, sempre.


La prima volta che l’ho sentito distintamente, stavo attraversando il ponte pedonale per andare alla candelora: mi è sempre piaciuto il rimbombo dei passi sul pavimento di legno e metallo, e il luccichio dell’acqua che si intravede tra i gerani; ma quella volta è stato molto diverso.
“Lui” era lì. Mi son girato. A parte me, solo una madre con una carrozzina. Ci siamo salutati con un cenno della testa e lei mi ha superato, accelerando. Ma “lui” era ancora lì.


Adesso, quando mi veglio di notte per andare in bagno, sento il suo fiato, calmo e ineluttabile. Di giorno, il sottofondo dell’autostrada copre il suo respiro, ma “lui” resta qua, in attesa, non so di cosa. Non so da dove viene, né se ha un nome o se qualcuno, con quel nome, lo ha mai chiamato.
Non so a chi rivolgermi. Clara e Cristoforo, che sapevano, se ne sono andati. Don Gino dice che è Gesù, che cerca di farmi sentire la sua vicinanza, ma non c’è niente di divino, in “lui”.


Quando attraverso il ponte sento che potrei quasi toccarlo, come se là, la grata di ferro dei gerani gli donasse una forza magnetica che lo rende denso, palpabile.


Stamattina, alla fine, ho capito che il ponte non c’entra nulla.


Stavo tornando dalla messa ed è stato come se qualcuno mi chiamasse. Mi sono affacciato al parapetto e ho guardato l’acqua che scorre sotto, e l’ho visto. Ho visto la sagoma della sua testa. Non ne distinguevo i lineamenti, ma era lui per forza, c’ero solo io sul ponte.


E’ l’acqua che me l’ha mostrato. L’acqua lo sa. Deve averlo incontrato nei suoi innumerevoli viaggi, dai monti al mare e dal mare al cielo. Lo ha affrontato, attraversato, forse sconfitto più volte. Forse.
Sa chi è, cosa vuole. Sa perché ha scelto me. E vuole dirmelo, aspetta solo che io vada da lei…


Stanotte.


Stanotte andrò dall’acqua col mio fardello di domande. Mi chinerò su di lei, come facevo con Clara negli ultimi giorni, e ascolterò quello che ha da dirmi.

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I giorni dell’abbandono – Elena Ferrante

Olga, 38 anni, viene lasciata dal marito. All’inizio, le motivazioni del gesto non sono chiare: “un improvviso vuoto di senso”, si giustifica Mario, e se ne va, da un giorno all’altro, senza neanche prendere le sue cose.E’ dramma: Olga inizia a regredire nel mondo emotivo della sua infanzia, la Napoli vissuta da sotto il tavolo della cucina, dove la madre, sarta, parlava con le clienti dei fatti della vita.

La mia famiglia d’origine era di sentimenti rumorosi, esibiti.

L’abbandono del marito le riporta in superficie il ricordo infantile della Poverella, una vicina di casa con due figli, anche lei rimasta sola; una donna che, in seguito al trauma, cambia completamente personalità: da donna gentile e sorridente, diventa l’oggetto della pietà del quartiere, fino a tentare il suicidio due volte, la seconda delle quali, con successo.Olga, suo malgrado, si ritrova a incarnare la metamorfosi della Poverella: inizia a cambiare il modo di parlare, infarcendo i discorsi di parolacce e cinismo, in un crescendo di atteggiamenti aggressivi, che la porterà a picchiare il marito per strada come nelle peggiori sceneggiate.L’apice del decadimento lo si nota nel rapporto coi due figli piccoli, di cui si disinteressa, e i suoi tentativi di calmare l’insensatezza attraverso le pulizie e la cura della casa non hanno alcun effetto; tuttavia, il dramma toccherà il culmine con un’altra vittima innocente (che non vi svelo per non spoilerare!).Piacevole lettura: non solo per il crescendo della tensione, che ti porta ad andare avanti trattenendo il fiato per vedere come andrà a finire e chi ci andrà di mezzo, ma soprattutto per la scrittura, sobria e immaginifica al contempo.

(…) mi ero definitivamente abituata ad aspettare con pazienza che ogni emozione implodesse e prendesse la via della voce pacata, custodita in gola per non dare spettacolo di me.

Non avete mai provato, voi, questo desiderio di autocontrollo fuori misura, che cozza contro il vostro naturale temperamento?

Chissà quando era accaduto che avevo smarrito quella carica cocciuta di energia animale, con l’adolescenza forse.

E voi non vi siete ritrovati smorti, opachi, in confronto agli anni della giovinezza?

Gli inganni delle parole, tutto un imbroglio, forse la terra promessa è senza più vocaboli per abbellire i fatti.

E vi siete accorti che il reale, tutto ciò che vi circonda, è, alla fine, indefinibile, verbalmente inafferrabile non descrittibile?Le riflessioni di Olga potrebbero essere quella di ogni donna davanti a un evento sconvolgente: è questo che fa del libro un’opera vera, al di là della vicenda narrata.Non ho letto “L’amica geniale”, ma fino ad ora è il libro della Ferrante che mi è piaciuto di più, anche più de “L’amore molesto” e de “La figlia oscura”.4 stelline su 5.

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Pastorale americana – Philip Roth @CasaLettori

Nathan Zuckerman, l’alter ego di Philip Roth che ritroviamo anche in altri romanzi, da giovane è stato un fan silenzioso dello Svedese, un giovane ebreo bello, bravo, gentile, benestante. Per Zuckerman e per molti altri, lui era un modello da imitare: per anni ed anni Zuckerman è vissuto col ricordo di un episodio in cui lo Svedese, semplicemente, gli ha rivolto la parola, tirandolo fuori dal limbo dell’inesistenza in cui vivacchiava.

Per questo, quando, ormai sessantenne e con un’operazione alla prostata alle spalle, riceve una lettera dello Svedese in cui gli chiede di incontrarlo, Zuckerman va in fibrillazione. Nella lettera il suo idolo gli ha anticipato che vuole parlargli di alcuni fatti che hanno amareggiato la vita al padre, ma quando si incontrano, al ristorante, nessuno dei due trova il coraggio per entrare in argomento.

Solo qualche mese dopo Zuckerman viene a scoprire che lo Svedese è morto di tumore. E’ il fratello dello Svedese, a raccontarglielo e ad accennargli del dramma che aveva sconvolto la sua famiglia: l’amatissima figlia, lasciatasi trascinare dall’odio contro la guerra nel Vietnam, aveva messo una bomba in un ufficio postale uccidendo una persona innocente.

Ma la trama, come in tutti i libri di Roth, è solo una scusa: i temi vanno al di là degli atti di terrorismo. Qui si parla di America, del sogno americano e della delusione che questo sogno ha causato. Si parla di concorsi di bellezza e di baseball, delle aspettative e dei problemi che ne derivano; si parla di ricerca di senso nella religione e nella morale; si parla di incomunicabilità all’interno della famiglia e della cerchia degli amici più stretti; si parla dell’impossibilità di conoscere davvero un essere umano; e si parla dell’America.

Philip Roth, come i suoi personaggi, si è sempre sentito americano: ebreo sì, ma integrato, e felice di vivere nel suo paese. Ciò non gli ha impedito (e non ha impedito ai suoi personaggi) di accorgersi delle contraddizioni: del razzismo, ad esempio, strisciante o apertamente dichiarato; ma anche dell’incapacità di trovare un senso nel benessere materiale.

Una volta gli ebrei cercavano di sfuggire all’oppressione; adesso scappano da dove l’oppressione non esiste. Una volta scappavano perché erano poveri; adesso scappano perché sono ricchi.

Prendiamo lo Svedese: visto dall’esterno aveva tutto ciò che un americano può desiderare per sentirsi soddisfatto, a partire dall’azienda bene avviata, fino alla moglie ex reginetta di bellezza. Si è sempre dato da fare, si è sempre sentito responsabile per la famiglia e l’azienda e il suo paese, è sempre stato attento a non offendere chicchessia; eppure, gli capita questa mazzata tra capo e collo.

E chi è il colpevole? Lo Svedese analizza tutta la sua vita, quasi giorno per giorno, in cerca del suo peccato originale, ma non c’è niente che possa essere considerato come la causa scatenante delle sue disgrazie. E di questa mancanza di una ragione lui non riesce a capacitarsi.

Eppure, nell’occhio del ciclone, ancora si sforza per tenere insieme i cocci:

Sua figlia era una folle assassina che si nascondeva sul pavimento di una stanza di Newark, sua moglie aveva un amante che fingeva di scoparla sopra il lavandino della cucina, la sua ex amante aveva portato coscientemente la sua famiglia al disastro e lui stava cercando d’ingraziarsi suo padre spaccando il capello in quattro.

La visione generale è cupa, è vero, ma Roth non cerca soluzioni. Il romanzo stesso termina senza aver chiuso tutti i fili narrativi (ad esempio manca tutta la storia dello Svedese con la seconda moglie, e non si sa nulla di come finisce davvero la figlia).

Perché mi è dunque piaciuto questo romanzo?

Innanzitutto per la prosa così ricca, mai banale. E poi perché ad ogni riga c’è una piccola verità: tanti, tanti dettagli, sia psicologici che ambientali. Pastorale Americana è un quadro che puoi restare a osservare per ore, scoprendo sempre qualcosa che non avevi notato prima.

I dettagli sono così tanti che è impossibile non trovarne alcuni che si adattano alla tua vita.

Alla fine dici: bè, sì, anche io sono un po’ Svedese. O sono un po’ sua moglie, o sua figlia, o suo padre. O mio padre è come suo padre, o la mia vicina di casa è come sua figlia, o, o…

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La ragione del più forte – Andrea Carraro

Uno dei primi romanzi di Andrea Carraro, scritto nel 1999.

E’ la storia di Gregorio, 35 anni, ancora convivente con la madre, che lui chiama “il donnone” e che la quarta di copertina definisce “opprimente”, ma che a me ha ricordato semplicemente tantissime madri italiane di figli grandi e grossi che non si scollano dalle gonne.

I primi capitoli ci introducono subito nella scialba vita di questo impiegato di banca: senza veri amici, criticone e invidioso, gretto, pronto a giudicare alla prima occhiata, senza compassione per gli altri, acido come una zitella… Devo continuare?

Il libro è particolare perché questo non-eroe è il protagonista e la voce narrante, dunque noi lo vediamo agire come un vigliacco e lo sentiamo parlare come un novantenne insoddisfatto, ma il punto di vista è sempre il suo: da un lato abbiamo la sua vita insignificante e dall’altro tutte le giustificazioni dietro le quali si nasconde (ah, dimenticavo: quando va in pausa, non timbra).

E cosa fa questo scialbo tipetto? Si rivolge ad un’agenzia matrimoniale per farsi arrivare dalla Russia la ventiduenne Sonja, giovane, allegra, gnocca e, dopo un po’, innamorata (nonostante in uno come lui non ci sia niente di cui innamorarsi, e lo dico da donna).

La mette in un appartamento lontano da casa per tenerla nascosta a sua madre, perché non dar giustificazioni (o perché si vergogna con gli amici di non essere riuscito a trovarsi una donna in un modo normale?), e già dopo due giorni che se la spupazza, le fa una scenata di gelosia perché l’ha vista parlare con dei ragazzi in piazza.

Il rapporto con questa povera ragazza, che non reagisce se non con qualche muso lungo, degenera. Gregorio arriva a picchiarla e a chiuderla nell’appartamento per evitare che parli con altri uomini.

Non faccio spoiler, ma leggetelo, perché è brevissimo (solo 133 pagine): forse un po’ troppo breve, in quanto certe situazioni avrebbe potuto approfondirle di più; ma forse va bene così, perché una persona come Gregorio si sarebbe solo dilungato nelle autogiustificazioni e non avrebbe aggiunto molto alla storia.

Conformismo, bugie, e squallore di un italiano medio, di cui fa le spese una povera immigrata.

Ma attenzione: sono i personaggi più utili, questi.

Perché noi ci vediamo come persone a posto, sempre con la coscienza pulita: leggiamo questo romanzo e giudichiamo negativamente Gregorio, senza renderci conto che certi suoi atteggiamenti sono anche i nostri.

E se nel finale Gregorio – dopo una breve esperienza di quasi pentimento – ritorna ad essere se stesso, la cosa ci disturba: tanto meglio.

Ce lo ricorderemo, forse, la prossima volta che proveremo a servirci delle persone.

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L’ultimo settembre – Elizabeth Bowen @NeriPozza

1920, Irlanda.

Siamo nella proprietà dei Naylor, appartenenti all’aristocrazia anglo-irlandese. Vivono di ricevimenti, tè pomeridiani e partite di tennis estive. Sembrerebbe una vita ideale, peccato che tutto attorno imperversa la guerra.

Gli inglesi hanno stanziato il proprio esercito in Irlanda per contrastare gli attacchi dell’Ira. Ogni tanto si vede qualcuno incappucciato che attraversa un giardino di fretta, o si incontra un tipo mascherato e armato in un mulino abbandonato.

Nelle chiacchiere di salotto a volte i odono degli accenni a scaramucce e a ragazze che si sono trovate coi capelli rasati, ree di esser uscite con militari inglesi, me nessuno si sconvolge più di tanto.

Ma dai Naylor non si parla di queste… volgarità. Se qualcuno finisce sul discorso, lady Naylor è bravissima a svicolare.

Lois è nipote di Sir Naylor: è orfana. In famiglia la considerano poco, quasi non la ascoltano quando parla, e lei stessa, in un riflesso della poca attenzione che riceve, è una giovane dalle idee confuse, che non sa cosa fare nella vita.

Quando Gerald, tenente inglese, le dichiara il suo amore, lei reagisce in modo quasi indifferente, tranne poi sforzarsi di sembrare più coinvolta: ma è un atteggiamento mentale, razionale, perché il suo scopo è andarsene dalla casa dei Naylor e dalle loro eleganti maniere vuote.

Epilogo tragico, che non vi dico per non fare spoiler, ma che era abbastanza scontato, visto che lady Naylor non voleva saperne di un matrimonio della nipote con un poveraccio inglese (credo le desse più fastidio il “poveraccio” che l'”inglese”).

Nonostante la Bowen abbia dichiarato che Lois è un personaggio inventato, il romanzo è sfacciatamente autobiografico: basti pensare che anche l’autrice apparteneva alla stessa classe sociale e che è stata allontanata dal suo paese dalle zie proprio per evitare che si rovinasse con un militare inglese.

Oltre alla storia dei protagonisti, c’è lo sfondo delle incomprensioni tra inglesi e irlandesi, uno sfondo pieno di stereotipi e senso di superiorità.

La Bowen ha un’alta capacità narrativa: forse troppo alta per me.

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