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L’incanto del benessere (Paul Krugman)

Vi siete mai chiesti perché i politici prendono certe decisioni al posto di altre in materia economica?

Qualcuno può rispondere: perché si affidano agli economisti.

Ebbene, la risposta è parziale. Perché una cosa sono gli economisti, di solito accademici che scrivono per i pochi iniziati capaci di capirli, e un’altra cosa sono gli imprenditori politici, personaggi, di solito giornalisti (ma a volte anche economisti) che sanno come scrivere per il pubblico.

Ebbene, le due figure sono molto diverse. Di solito i politici non si affidano ad economisti tout court, perché le teorie economiche sono molto complesse e fanno ricorso a troppa aritmetica per riuscire a far colpo sull’elettorato. Ecco l’entrata in scenda, dunque, degli imprenditori politici, bravi divulgatori, spesso con un background economico, ma che, proprio per risultare “simpatici” al grande pubblico, spesso peccano di semplificazione (ed è per questo che, anche se di origini accademiche, spesso sono “ripudiati” dai colleghi).

Ai politici di professione questo importa poco: l’importante è convincere la gente a votare in un certo modo, e per farlo è più utile un professionista che sappia creare una narrazione efficace. Spesso un governo si scegli i i consulenti perché il loro discorso economico si adatta meglio alle idee che il governo ha già in testa.

Krugman sostiene questa tesi analizzando gli anni della politica repubblicana negli Stati Uniti dal 1973 fino al 1993 (il libro è uscito nel 1994).

Al di là di un ripasso generale sulle teorie keynesiane, monetariste e offertiste, Krugman commenta le decisioni politiche prese da dodici anni di governo di destra (Reagan e Bush) cercando di essere il più possibile super partes (lui sarebbe di estrazione keynesiana).

Infatti, io mi aspettavo che dicesse peste e corna del liberismo, invece è saltato fuori che i conservatori non hanno poi causato quel caos infernale che la controparte temeva, soprattutto perché i veri interventi economici sono attuati dalla Federal Reserve Bank, che in realtà è abbastanza autonoma dal governo centrale.

Qualcosa di brutto però, durante gli anni conservatori, è successo: è aumentata notevolmente la sperequazione dei redditi tra ricchi e poveri, flagello che tormenta gli Stati Uniti ancora oggi, nel 2021, e sono molto interessanti le pagine in cui Krugman spiega quali possono essere le cause di questa sperequazione.

Un altro grosso problema americano è la bassa produttività.

La produttività è il principio cardine su cui si basa lo stato di salute di un’economia, ma le cause delle sue oscillazioni non sono davvero conosciute.

Il problema è che i politici attribuiscono la colpa della bassa produttività a fattori diversi, in base a quello di cui hanno bisogno.

Un errore madornale, ad esempio, è quello di dire che la produttività è bassa per colpa della concorrenza internazionale.

Ebbene: produttività di un paese e scambi internazionali NON sono direttamente legati. Eppure, molti governi, da questa e dall’altra parte dell’oceano, sostengono che bisogna attuare delle politiche di controllo del commercio internazionale per sostenere l’economia del proprio stato…

Insomma: l’economia è una disciplina che dovrebbe farci capire come funziona una realtà, ma è poco adatta a dare indicazioni per modificare quella realtà in una data direzione perché le variabili sono troppe e poco controllabili. Eppure i politici si servono di divulgatori di professione, spesso per giustificare manovre che, altrimenti, sarebbero poco popolari per l’elettorato.

Più che una lotta tra diverse teorie politiche, è una lotta tra diverse narrazioni della realtà.

Ancora una volta, non è la realtà che ci spinge ad agire in un certo modo, ma la narrazione che ne facciamo (ve lo ricordate Harari??).

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