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Liberi dalle vecchie abitudini (Pema Chodron)

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Come si trova la capacità di non fare un dramma dei propri problemi?

Lo strumento principale è la meditazione; tuttavia, anche durante il giorno, nel bel mezzo dei nostri impegni quotidiani, ci si può… fermare.

Tre respiri consapevoli.

Possiamo farli ogni volta che siamo travolti dalla rabbia o dalla paura, ma bisogna farlo subito, appena avvertiamo che l’onda si sta preparando ad investirci: bisogna farlo, insomma, prima che sia troppo tardi.

La rabbia, in particolare, mi interessa, perché negli ultimi anni mi sono accorta di essere vittima di accessi d’ira, soprattutto in ufficio, quando il lavoro è eccessivo e/o i clienti mi rispondono male, buttandola sul personale (come se lo facessi apposta a rifiutare i loro reclami).

Ma la rabbia la vedo ovunque.

Nei social, soprattutto.

Sono tutti arrabbiati. Tutti si lamentano, tutti postano commenti sarcastici: contro gli immigrati, i gay, i politici… contro la gente che non tiene il naso dietro la mascherina, contro la ragazza che si è fatta musulmana, contro chi va a messa, contro chi non ci va, contro chi non rispetta i topi dei gruppi…

Ecco, a tal riguardo, l’autrice ci dice questo:

Al di sotto dell’odio, al di sotto di qualsiasi azione o parola crudele, di qualsiasi disumanizzazione, c’è sempre la paura.

La rabbia nasce dalla paura.

Di perdere la propria identità, principalmente. La propria immagine di cittadino, di buon lavoratore, di italiano, di macho, di donna di casa ecc…

Il guaio è che diamo troppa importanza a questa identità. Rimaniamo in una prospettiva microscopica, senza allargare gli occhi oltre noi stessi e oltre il nostro tempo, dimentichiamo che c’è stato un prima, ci sarà un dopo, e c’è, sempre, un altrove, dove noi non ci siamo, eppure la vita continua.

Di solito cambiamo prospettiva in seguito ad eventi calamitosi, scioccanti, mortali.

Quando è morta mia madre, mi son trovata davanti allo schermo del PC, in ufficio, a chiedermi se quello che facevo aveva un senso. Domanda che non mi era mai fatta, visto che avevo fatto fatica a trovare quel posto e mi ero sempre impegnata in quel lavoro.

Poi, noi o qualcuno che ci è caro ha un incidente o una grave malattia, ed è come se ci togliessimo la benda dagli occhi. Vediamo la mancanza di significato di gran parte di quello che facciamo e il vuoto di quello a cui ci attacchiamo.

Prospettiva, dunque, è la parola d’ordine.

Non assolutizziamo quello che siamo e che facciamo: persone, lavoro, luoghi, possedimenti. Oltre a noi, al di là del confine della nostra pelle, c’è tutto un mondo.

Un altro.

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115 idee per vivere meglio – Vera Birkenbihl (audiolibro)

Sono incappata in Vera Birkenbihl l’anno scorso, cercando dei suggerimenti per lo studio delle lingue. Nei paesi tedescofoni è molto conosciuta per aver suddiviso il processo in quattro fasi (decodificazione – ascolto attivo – ascolto passivo – attività), permettendo agli studenti di imparare con molta meno fatica e in modo naturale.

Solo ieri ho scoperto questo audiolibro che esula dall’insegnamento delle lingue in senso stretto.

Non sono riuscita a trovarlo in Italiano: nel nostro paese la Birkenbihl è poco conosciuta; ho visto solo un suo libro edito dalla Franco Angeli, che però verte sul linguaggio del corpo. Tuttavia, per chi conosce il tedesco, l’audio è comprensibile, non troppo veloce e si capisce (io non sono assolutamente bilingue!!).

L’audiolibro è composto da 115 domande e risposte. Tutto è molto pratico.

Ad esempio:

Come affronto una persona collerica?

Risposta: non lo fai. La collera ha spesso radici nel passato della persona, radici di cui la persona stessa non è consapevole. Se la affronti di petto, non farà altro che prenderti come bersaglio per lo sfogo.

Oppure:

Come ti rivolgi ai tuoi colleghi?

La scelta delle parole che designano i tuoi colleghi/sottoposti/superiori è spesso una profezia che si autoavvera. La Birkenbihl porta un esempio di una ditta di trasporti americana (l’esempio è tratto in realtà da un’opera di Tony Robbins), dove gli errori costituivano un’elevata percentuale dei costi a fine anno.

La soluzione è stata quella di chiamare gli autisti “esperti logistici”.

Nel primo periodo, gli stessi autisti si sono presi un po’ in giro per l’appellativo un po’ altisonante; tuttavia, dopo un mesetto, hanno cominciato a comportarsi davvero come “esperti logistici” e la percentuale di errori è crollata, riducendo di molto i costi.

Ancora:

Come si gestiscono i reclami dei clienti?

La risposta è lunga per riportarla qui, ma i primi due passi sono: ascolta bene e ascolta tutto. Chiedi cosa puoi fare per aiutarlo, e se non riesci a soddisfarlo come vorrebbe lui, allora cerca un compromesso. L’importante è fargli sentire che ti sei preso carico del problema, perché non c’è niente di peggio per un cliente arrabbiato di essere anche… ignorato, o ascoltato solo per finta.

Quello che la Birkenbihl sottolinea è che il cliente insoddisfatto della qualità del prodotto o del servizio non riterrà colpevole l’azienda o il reparto: ma se la prenderà con te. Per il cervello è più facile individualizzare le colpe: il cervello preferisce ragionare su individui, non su collettività.

Questo, da impiegata che si occupa della qualità in un’azienda, ve lo posso garantire: al cliente non frega niente delle politiche aziendali, delle vacanze italiane o delle tue malattie. Se non gli rispondi in modo soddisfacente, qualunque sia la motivazione, darà la colpa a te.

Certo, la Birkenbihl dà anche un altro consiglio: se ti accorgi che la pressione per le lamentele dei clienti è troppo elevata, chiediti se sei nell’azienda giusta. Domanda scomoda…

Gli argomenti affrontati in questo audiolibro spaziano molto (sono solo alla domanda 30, ne ho ancora 85 da ascoltare). Per esempio: cosa fai quando ti accorgi che una persona si… fissa? Sarà capitato anche a te: sei in mezzo a una riunione o a un pranzo di famiglia, e ti fissi su un punto nel vuoto, senza pensare a nulla.

Cosa fare? Niente. Questi momenti di “fissazione” sono messaggi del corpo: ci sta dicendo che abbiamo bisogno di staccare un attimo; sono momenti in cui davvero non si pensa a nulla e il cervello entra in una modalità simile a quella della meditazione. Forse siamo sottoposti a troppo stress, forse il pranzo è orribile ma non possiamo dirlo, forse percepisci che è inutile parlare durante la riunione perché le tue parole sarebbero travisate o rifiutate. Allora, prendiamo atto di questo bisogno, nostro o altrui.

Un altro suggerimento (non me li sono scritti, li riporto così come me li ricordo) è di sorridere quando si è arrabbiati o nervosi: il fatto stesso di sorridere, di portare in su gli angoli della bocca, causa una pressione su dei nervi che interagiscono col cervello per immettere nel corpo alcuni ormoni della positività e questo abbassa i livelli del cortisolo, l’ormone dello stress.

E ancora:

Come fare per impedire che i pensieri negativi ci tolgano il sonno di notte?

Risposta: il cervello non ubbidisce se gli dici di non pensare a qualcosa. Se gli dici di non pensare al colore rosso, inizia a pensare al colore rosso. L’unico modo è sostituire i pensieri negativi con altri positivi, con ricordi di bei momenti.

Infine, vi riporto un aneddoto che mi ha fatto riflettere.

In India, gli elefanti adulti non vengono lasciati in gabbie o legati con catene. Se l’uomo deve allontanarsi un attimo, li lega con una sottile fune a una canna di bambù, e loro stanno fermi. Perché non scappano?

Perché da piccoli venivano legati con delle catene a dei grossi alberi. Col tempo, imparano a restare fermi anche con una lieve sensazione di… legamento. Solo il fuoco li può far scappare strappando corda e canna di bambù.

Spesso le persone si comportano come gli elefanti: le catene sono diventate fili di lana e i baobab sono solo fili d’erba, però continuiamo a star fermi, bloccati.

Non è una bellissima similitudine?

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Ciò che credo – Hans Kueng

Hans Kueng, uno dei teologi più controversi (per la chiesa cattolica, che prende in malo modo molte delle sue critiche), con questo libro ci racconta in cosa crede davvero, al di là della dottrina ufficiale e dei litigi che si è trovato ad affrontare in decenni e decenni di lavoro.

Perché Hans Kueng, nonostante tutto, rimane cristiano-cattolico.

Credo – e anche lui lo afferma – che gran parte della sua fede sia fatta di un nocciolo duro composto dalla sua Fiducia di fondo: nella vita, nelle persone, nel mondo. E’ una fiducia che viene messa alla prova, ma che è sempre là. Tuttavia, non la può spiegare, e queste 344 pagine di libro non mi hanno convinta.

Come si può nutrire ancora fede in un mondo che non fornisce nessuna prova a favore dell’esistenza di un Dio? Ebbene: Kuengle prove se le cerca. Nelle scienze naturali, nella musica, nella matematica…

Ci convince?

No, perché, più che di prove, si tratta di indizi e deduzioni personali, e perché, come non si possono fornire prove dell’inesistenza di Dio, non si possono fornire neanche prove per la sua inesistenza. Niente di nuovo, dunque, qui.

Non ci convince neanche quando passa alla Teodicea, quella branca della teologica che si occupa della… giustificazione di Dio. Cioè: se c’è così tanto male nel mondo, come può essere Dio onnipotente? Se è onnipotente, allora non è buono, perché non ci protegge da uragani e olocausti. E se è davvero buono, allora non è onnipotente, perché comunque non ci aiuta.

Devo dire però che ho ammirato la sincerità di Kueng, quando ammette, semplicemente, che la teodicea non si può spiegare.

Il suo modello, è il Gesù storico: è un modello da seguire soprattutto per quanto riguarda la sua capacità di accettazione del male inevitabile e la sua capacità di amare anche i nemici. Secondo Kueng, la figura storica di Gesù (attenzione: storica, non “tradizionale, ortodossa”) è ciò che lo fa restare cristiano.

Non capisco.

Non è necessario essere un cristiano cattolico per prendere Gesù come modello: è un personaggio la cui grandezza è riconosciuta anche la di fuori della nostra religione. E il messaggio di amore che viene portato avanti dalla chiesa cattolica, non è esclusivo (senza parlare di tutti gli scandali in merito a pedofilia e denaro).

Non capisco neanche bene la sua scelta tra un Dio persona e impersonale. Una volta accettato che Dio esiste, la distinzione non è oziosa: se dio è personale, allora ha senso rivolgersi a lui con la preghiera. Se non lo è, acquista più significato un atteggiamento simile alle meditazioni/contemplazioni orientali.

Voglio dire: per Kueng Dio non è persona (non nel senso comune del termine, perché non ci si può sempre riferire all’esperienza quotidiana), tuttavia, lui prega (anche se si adatta le preghiere a modo suo).

Se poi voglio finire la lista dei punti su cui sono in disaccordo, eccone altri due:

  • Kueng dice che non esistono gli extraterrestri. Lo dice in una frase molto perentoria, dopo aver specificato che lui si è anche dedicato all’astronomia. Ma ho l’impressione che ne escluda l’esistenza per elevare il significato dell’esistenza dell’uomo, più che per reali deduzioni scientifiche (come puoi escludere che la vita esista in galassie e pianeti lontanissimi? E’ una questione statistica, di probabilità…).
  • Dice che non si potrà mai eliminare la sofferenza animale, perché, alla fine, l’uomo deve mangiare. Falso. Si può vivere benissimo senza mangiare gli animali.

Direte: ma se non sei d’accordo su quasi niente di quello che dice, per cosa lo leggi?

Beh, è una persona colta, che ha studiato per una vita intera. Magari è fuorviato dalle sue credenze (questa benedetta fiducia di fondo…), ma si è dato da fare.

E poi, è stato coraggioso: quando qualcosa non va nella chiesa cattolica, lui lo dice.

Ad esempio: ho visto un’intervista di recente, in cui ammetteva di essere malato di Alzheimer. Ha dichiarato che quando sarà il momento, lui vorrà decidere come morire.

Si è dichiarato contro l’infallibilità papale e ha spiegato l’inconsistenza dell’immacolata concezione e del peccato originale. Non condivide che la chiesa cattolica sia ancora contraria all’entrata delle donne nel clero e ribadisce che la resurrezione di Cristo non va intesa come rianimazione di cadavere, ma in senso più profondo.

(…) mi rifiuto categoricamente di sostenere, sulla base di una comprensione maschile di Dio tipicamente romana, l’impossibilità e l’inadeguatezza dell’ordinazione delle donne, che ritengo conforme alle scritture e ai tempi.

Tra due giorni è Pasqua: quanti di quelli che andranno a messa sono ancora convinti che il cadavere di Gesù sia uscito coi propri piedi dal sepolcro? La maggioranza, temo.

Parliamo di aborto?

Oggi (…) si sostiene – appunto più in base ad argomenti teologico-dogmatici che non medico-biologici – che anche la cellula-uovo fecondata è già persona, concezione che ha avuto come conseguenza un inasprimento circa la questione dell’aborto.

E poi ci sono alcuni passaggi in cui se la prende con lo sfruttamento mediatico della personalità papale e delle (presunte) reliquie (Notre-Dame: tutti preoccupati per la corona di spine di Cristo, mi raccomando): tutti sintomi di una fede ancora infantile, non adulta né responsabile.

Insomma, non andrò a messa neanche questa Pasqua, ma le persone che “cercano” mi piacciono.

Anche se alla fine giungono alla conclusione che qualcosa esiste solo perché

Io sono convinto che la mia vita è stata più felice con Dio piuttosto che senza.

Forse la mia è solo invidia.

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Come vivere felici in un mondo imperfetto – Dalai Lama

Dalai lama

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(…) la maggior parte dei problemi che affliggono gli esseri umani sono determinati dal desiderio sfrenato e dall’attaccamento che consideriamo, erroneamente, entità stabili e durature.

Questa frase potrebbe riassumere tutto il libro, composto da una raccolta di scritti preparati per tempi ed occasioni diverse. Ma ce ne sono tante altre da annotare, enunciate in modo semplicissimo e pragmatico:

Quando comprendi che tutti gli esseri viventi sono accomunati sia dal desiderio di raggiungere la felicità sia dal diritto di ottenerla, ti senti automaticamente in empatia e vicino a tutti loro.

Quanto sopra dovrebbe aiutarci ad affrontare anche le persone che ci stanno sullo stomaco (o sull’intestino…), ma non è facile eliminare i sentimenti che inibiscono la compassione, quali la rabbia e l’odio. Epperò, ci dice il Dalai Lama, la pratica della compassione è l’unico sistema per diventare altruista: sembra una presa in giro, ma è così. Senza considerare che se vogliamo essere più calmi e sereni, dobbiamo essere compassionevoli… insomma, è un serpente che si morde la coda.

Chiaro è che si può essere felici in un mondo imperfetto solo perché

la maggior parte delle nostre sofferenze non sono dovute a fattori esterni ma ad eventi interni come l’insorgere di emozioni negative. Il migliore antidoto per difendersi da questi eventi devastanti è coltivare la nostra capacità di gestire tali emozioni.

Come? Con la meditazione, ovviamente.

D’accordo su tutto, quando parla di psicologia e gestione delle emozioni negative/compassione. Su un punto però non ci incontriamo: il Dalai Lama ripete più volte che l’Onu può/deve diventare un supervisore per i problemi transnazionali (inquinamento, flussi migratori ecc…). Qui secondo me pecca di ingenuità. L’Onu può esser nata con le più belle intenzioni del mondo, ma alla fine è gestita da ricchi e politicanti.

Se vogliamo davvero cambiare qualcosa, cominciamo noi, dal nostro piccolo.

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Come diventare un Buddha in cinque settimane – Giulio Cesare Giacobbe

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Sebbene non si tratti di un libro lungo, è molto denso. L’autore stesso ci consiglia di leggerlo almeno due volte, una per assimilare i concetti base e una per metterli in pratica. Giacobbe ha studiato bene il buddhismo, e dunque parte dai precetti base, spiegandoceli in modo anche molto comico e irriverente, ma senza mai allontanarsi dal nocciolo: la sofferenza e il suo allontanamento.

Senza volerlo, il contenuto di questo libro si collega a quello del post precedente sulla forza di volontà, perché molto dipende dalla capacità di osservarsi.

L’uscire dalla mente, diventare l’osservatore del nostro stesso pensiero, attuale la Retta Concentrazione, non è di per sé difficile da realizzare: il difficile è RICORDARSI DI FARLO.

Interessante il parallelismo con la teologia cattolica, secondo la quale sarebbe proprio l’attivazione della coscienza a rendere possibile il libero arbitrio, che è l’elemento cardine della nostra umanità. Dopo tutto, gli animali non osservano il proprio pensiero, no? Ma ultimamente anche la psicologia e le neuroscienze si sono date allo studio dell’autosservazione: sembra che attivando le zone del cervello addette all’autosservazione, si tolga energia ad altre parti, ad esempio, quelle in cui sorge la rabbia o la tristezza.

E poi ricordiamoci sempre che mente e cervello sono un tutt’uno. Non puoi calmare la mente se non calmi anche il corpo/respiro.

Giacobbe anche qui ricorre alla suddivisione della psiche in bambino, adulto e genitore.

Semplice e profondo al tempo stesso: da leggere.

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La mente supera la medicina – Lissa Rankin

Lissa Rankin ha un curriculum di studi da medico standard, figlia di un medico standard e con anni di esperienza come medico standard. Insomma, era un dottore che credeva che la biologia e la fisiologia fossero gli elementi cardine della salute. Tuttavia era insoddisfatta dei risultati che otteneva con i propri pazienti, era insoddisfatta del suo ruolo di medico-burocrate e della sua salute, sempre al limite della malattia grave.
Finché ad un certo punto, in seguito a una serie di eventi (lutti e malattie che l’hanno colpita in un brevissimo lasso di tempo) si è detta: basta, o mi fermo o schiatto.
E così ha lasciato il suo lavoro fisso di medico e si è trasferita in un luogo più vivibile, più verde, dedicandosi all’arte e alla scrittura. Ma le coincidenze non la lasciavano stare. Continuava a incontrare certi tipi di persone, a parlare di certi tipi di guarigioni…

La curiosità femminile si è mixata con l’atteggiamento medico e Lissa Rankin ha iniziato a studiare il ruolo della mente nella salute e nella malattia. Partendo proprio da un approccio scientifico, si è posta l’obiettivo di studiare l’effetto placebo e quello nocebo.
Pian pianino si è accorta di quale ruolo importantissimo possa giocare la nostra mente.
Non arriva mai a dirci di abbandonare le cure allopatiche, perché se la medicina moderna ha raggiunto dei risultati, quando si può bisogna approfittarne. Ma ha scoperto che l’approccio fisiologico, quando esclusivo, è troppo estremo. La salute dipende da più concause, e se se ne va, bisogna lavorare su più fronti.

La felicità spiana la strada alla longevità

Si tratta non solo di rivedere completamente il rapporto medico-paziente, col paziente che deve prendere in mano la propria salute e rientrare in contatto col proprio corpo; ma anche di ripensare al concetto di cura. Prendersi cura del paziente non significa dargli in mano una ricetta e spedirlo fuori dallo studio entro i dieci minuti canonici.

Gli aspetti che influiscono sulla nostra salute (sia sulla mente che sul corpo) sono:
– la sensazione di non essere impotenti
– la meditazione/contatto col corpo
– la sessualità
– il riposo
– un’attività lavorativa che risponda alle nostre passioni
– la spiritualità
– la creatività
– le giuste relazioni sociali

Ovviamente, inutile farsi overdose di yoga e vivere in un ambiente familiare da favola, se poi fumi cinque pacchetti di sigarette al giorno e ti strafoghi di patatine fritte e alcool… ma è anche vero che un vegano crudista work-out addict può essere più malato di un couch-potato americano se è emotivamente represso o se non ha rapporti decenti con la gente che frequenta.

Ecco… Io a Lissa Rankin do ragione su tutto ma poi, quando leggo frasi come quella che seguono, mi pare di leggere il libro scritto da una marziana che non ha la più pallida idea di dove si trovi il Nordest italiano:

(…) quando sul lavoro ti senti libero di essere creativo, sei autonomo e rispettato, hai scopi chiari di cui puoi misurare il raggiungimento, sei appoggiato dai colleghi, credi di stare facendo qualcosa in sintonia con i tuoi valori, sai di essere utile agli altri, senti di avere una scopo e una missione, riesci a esprimere le tue doti, sei ben pagato e hai tempo libero a sufficienza per fare altre cose, è molto più probabile che godrai di buona salute e non sarai stressato sul lavoro.

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Come smettere di farsi le seghe mentali e godersi la vita (Giulio Cesare Giacobbe)

Ma sì, dai: pur di avvicinare alla lettura chi non legge mai, va bene anche uno stile così stravaccato e, a volte, volgarotto.

Il pensiero è il risultato dell’evoluzione naturale e serve per la sopravvivenza, per il problem solving: cioè, abbiamo un problema, ci si pensa su, si trova una soluzione e si agisce di conseguenza. E questo va bene: un pensiero finalizzato all’azione è una sega mentale benefica.

Ma il nostro cervello è perennemente occupato dalle seghe mentali malefiche, quelle scollegate dalla realtà e dalle azioni: è questo che ci porta via energie e che ci fa star male.

Per smettere di farsi le seghe mentali occorre rivolgere la propria attenzione a ciò che si sta facendo, a ciò che ci succede, al mondo che si ha intorno.

Ed è qui che Giacobbe ci porta ad esempio la disciplina buddista della meditazione/contemplazione e della presenza mentale, accennando velocemente a qualche tecnica (mantra vocali o silenziosi, ad esempio). Per attivare il processo della consapevolezza, si parte da un atto di volontà.

Dobbiamo soltanto pensarci.
E’ sufficiente infatti che spostiamo la nostra attenzione dall’oggetto della percezione alla modalità della percezione stessa, cioè alla nostra reazione emotiva o all’immagine che abbiamo di noi stessi in quel momento.

Sembra che il cervello abbia una quantità di energia stabile: se la indirizziamo verso la consapevolezza, togliamo energia alle seghe mentali, alle reti neuronali che sono andate in loop con un certo pensiero autoalimentandosi. Questa è una spiegazione razionale del sorriso del Buddha.

Ma voi non vi lamentate del vostro cervello? Io sì e tanto!! Soprattutto al lavoro, quando mi incavolo e perdo le staffe, e comincio a borbottare per conto mio ad alta voce: non mi piaccio per niente. In occasioni del genere, invece di seguire il cervello, bisogna ricordarsi di fermarsi e osservarsi, guardarsi da fuori. Perché è facile guardare gli altri come si comportano: è quando siamo noi a comportarci come loro che non ci rendiamo conto di quanto diamo fastidio!
L’esempio classico è il pettegolezzo e la malalingua: sono sempre gli/le altri/e ad essere pettegoli/e. Se però noi cominciamo a parlare alle spalle di questo/a o quel/la collega, allora non è pettegolezzo, stiamo solo raccontando come sono andate le cose…

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La consapevolezza del respiro – Buddhadasa

Ho sbagliato libro… cercavo un testo per approfondire lo yoga e sono finita in ambito buddhista, e per di più thailandese, con tanti termini in pali (come se non bastasse il sanscrito indiano…). Ma ormai che l’avevo comprato, l’ho letto, anche se non so quanto serva leggere testi del genere se non li metto in pratica. 😦
La meditazione da sola, intesa come posizione immobile (meditazione formale, la chiamano) mi risulta difficile, e suddividerla in sedici passi, come fa Buddhadasa, non fa altro che complicarmi la vita. Neanche la pratica breve mi si addice, sebbene lui l’abbia prevista per i praticanti pigri!

La pratica di Buddhadasa è divisa in quattro tetradi (ognuna poi divisa in quattro passi): contemplazione del respiro, delle sensazioni, della mente e del Dhamma.
Il respiro può essere lungo o corto: bisogna studiarlo con tutti i suoi effetti.
Le sensazioni sono quelle che ci tengono prigionieri, facciamo tutto in vista delle sensazioni:

Imparare a padroneggiare le sensazioni più sottili ci mette in grado di padroneggiare quelle più basse, grossolane e meschine. Controllando le più difficili, sapremo controllare le più semplici e infantili.

La mente va concentrata per renderla adatta al lavoro finale, cioè la vittoria finale sul dukkha (sofferenza).
Infine, nella contemplazione del Dhamma, si passa alla conoscenza della natura delle cose di cui siamo schiavi.

Ovviamente ci sono dei punti di contatto con il pranayama yogico, ma ovviamente Buddhadasa dice:

Non solo l’Anapanasati funziona altrettanto bene delle pratiche yogiche, ma ne costituisce un perfezionamento. Nel kayanupassana (contemplazione del corpo), prendiamo il pranayama dello yoga indiano, lo sviluppiamo e lo miglioriamo nella sua forma più adatta ed efficace.

Trovo più concisi e utili i commenti del traduttore alla fine, del tipo “Quello che ci serve è autodisciplina, non autotortura“, oppure “La meditazione (…) va al di là dei periodi di seduta. La pratica formale, seduta e camminata, è molto importante, e pochissimi sono quelli che non ne hanno bisogno, ma il nostro interesse primario è la vita: una vita libera da dukkha“.

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Il cambiamento, Come riconoscere e sviluppare il proprio potenziale spirituale – Wayne W. Dyer

Conoscevo l’autore dal saggio “Prendi la vita nelle tue mani”, e, ragazzi, è proprio il caso di parlare di cambiamento! Da un approccio alla vita improntato al successo e all’attività/proattività, a uno spirituale, incentrato sul silenzio, sul lasciar fare, sull’accettazione.
Prima: hai un problema? Per affrontarlo fai questo e quest’altro.
Ora: hai un problema? Forse non è un problema, forse è il tuo ego che te lo fa considerare tale, forse il vero problema non è quello che credi.

L’ego definisce l’Ambizione come lotta per essere migliori di chiunque altro, per vincere a tutti i costi, accumulare più beni, ed essere giudicati dagli altri come persone di indiscusso successo.

Noi veniamo dalla non forma, dalla non-ambizione, dunque dovremmo essere non-ambizione. Il viaggio non è un andare, ma un tornare, ma per far questo bisogna riconoscere l’ego e le sue bugie, che dicono: io sono ciò che ho, io sono quello che faccio, io sono ciò che gli altri pensano di me, io sono diverso da chiunque altro, io sono separato da ciò che nella mia vita è assente, io sono separato da Dio.
Per accorgerci del nostro stesso ego e dell’ambizione che ci guida, spesso abbiamo bisogno di una caduta, lo si legge in tantissimi testi di religioni diverse, la notte dell’anima, il punto più basso che ci permette poi di prendere lo slancio per andare verso l’alto. E da quel momento si cominciano a notare le singolarità, le c.d. coincidenze.

Mi sto rendendo conto di una cosa: che la gente cambia. A volte in peggio, a volte in meglio. Ma gli altri, quelli che osservano da fuori, fanno fatica ad accorgersene: le etichette, una volta attaccate, sono peggio della Loctite.

PS: ecchissenefrega?

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La mente che mente, Osho

Qualsiasi cosa vi sia necessaria, abbiatela; e qualsiasi cosa non vi sia necessaria, dimenticatevene. (…)

I pensieri non possono vivere al di fuori dei desideri. (…)

L’infelicità è una conseguenza, è l’ombra della mente.

Quante barzellette in questo libro, anche sul sesso (forse soprattutto sul sesso).
Ecco, ora le vendite di questo autore saliranno a mille.

Il problema è la mente e i desideri che essa fa nascere. Il desiderio di essere ammirato/a, per esempio. Quante chiacchiere alle spalle comporta questo desiderio di primeggiare negli uffici, nei circoli sportivi, nelle famiglie? Perché ti hanno detto che se primeggi, va bene.

Libertà significa avere controllo sulla propria mente, sulla tua cosiddetta mente, che non è tua, perché ti è stata data dagli altri in singoli frammenti. Una parte di essa appartiene a tua madre, un’altra parte a tuo padre, un’altra parte a tuo zio e così via…

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