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L’ultimo amico (Tahar Ben Jelloun)

A volte scelgo i libri in base al paese in cui mi piacerebbe trovarmi in quel momento.

Vivendo nella pianura Padana, adesso che in inverno è tutto freddo e grigio, e avevo bisogno di caldo e colori, così ho scelto il Marocco. Ma di paesaggi e luoghi in questo libro ho trovato ben poco.

E’ la storia di due amici, Alì e Mamed. Si conoscono da adolescenti e il loro legame dura per trent’anni, attraverso incarcerazioni, allontanamenti, matrimoni e malattia.

La vicenda inizia quando Alì, adulto, riceve una lettera dall’amico:

Poche frasi, brutali, secche, definitive. Le ho lette e rilette. Non è uno scherzo, una trovata di pessimo gusto. E’ una lettera destinata a distruggermi. La firma è proprio quella del mio amico Mamed. Non ci sono dubbi. Mamed, il mio ultimo amico.

Si inizia dunque a leggere il libro con l’aspettativa di scoprire quale è il contenuto della lettera. Il Primo a raccontare la storia è Alì, che passerà il testimone a Mamed dopo essere arrivato al punto definitivo della rottura dell’amicizia, senza però spiegarne il motivo.

Alì è un insegnante di lettere, molto colto, sposato con Soraya che non può avere figli. Mamed è un medico che ad un certo punto della sua vita si trasferisce in Svezia, e comincia a sentirsi diviso tra il rispetto per il paese di adozione e la nostalgia del paese di origine. Da giovani hanno vissuto insieme l’esperienza del carcere per le loro idee politiche e si sono sempre protetti a vicenda.

Il matrimonio di entrambi causa delle incrinature nell’amicizia: fa sorgere delle invidie, soprattutto da parte di Mamed, ma niente di così forte da rompere il rapporto. Eppure, ad un certo punto, Mamed incolpa Alì di aver cercato di imbrogliarlo quando si è occupato di arredare l’appartamento che Mamed aveva acquistato in Marocco mentre era in Svezia.

Le accuse sono spiazzanti, dopo tutto quello che hanno passato insieme.

Mentre leggi il libro ti viene naturale chiederti quando ci si può definire “amici”.

Credo che sia essenziale un certo grado di parità: se ci sono troppe differenze c’è sempre la possibilità che uno dei due possa sviluppare invidia nei confronti dell’altro… ma forse questo si verifica con più frequenza nelle amicizia femminili. Gli uomini – anche i due protagonisti – non scendono mai nei dettagli delle proprie emozioni, quando parlano. Mamed e Alì non parlano mai del rapporto con le proprie mogli, ad esempio. Le donne lo fanno: condividono molto, ma mettere sul tavolo certe emozioni ti espone anche alle ferite, ti rende vulnerabile.

Di certo il matrimonio cambia le cose: è un sovvertimento importante. Solo le vere amicizie sopravvivono.

E di sicuro, non si possono avere molti amici. Veri, intendo.

Conosco persone che esce quasi tutte le sere con così detti “amici”, ma quando hanno bisogno di qualcosa, non si vede nessuno. La vera amicizia richiede un investimento emotivo e temporale: devi sentire quello che sente il tuo amico, e per far questo, hai bisogno di trascorrere tempo con lui, essere concentrato su quello che prova.

Non ci sono molti veri amici nei grandi gruppi di persone, perché l’amicizia richiede un certo grado di esclusività: è nel rapporto a due, a quattro occhi, che puoi parlare sul serio, non davanti alla pizza, attorniamo da un gruppo di dieci, quindici persone.

E l’amicizia vera richiede un certo grado di accettazione del sacrificio.

Con i ritmi di oggi, vedo davvero poche vere amicizie. Tanta gente che esce a mangiare insieme, quella sì, ma c’è poca vera comunicazione. Si parla di argomenti neutri, che non ci riguardano sul serio, non si toccano neppure le paure e i desideri, c’è sempre il timore di esporsi. di rendersi attaccabili. Manca una vera fiducia di fondo.

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La conoscenza e i suoi nemici – Tom Nichols

IMG_20200209_112118[1]L’era dell’incompetenza e i rischi per la democrazia

Tom Nichols è professore allo U.S. Naval War college e alla Harvard Extension School e ha spesso ricoperto ruoli di consigliere presso personaggi politici statunitensi.

In questo libro se la prende con i cittadini statunitensi (ma ricordatevi che noi italiani prendiamo gli stessi vizi degli americani, solo con qualche anno di ritardo): Perché? Perché sono ignoranti.

Non è una novità, direte.

Beh, una novità c’è, e consiste nel fatto che si beano della loro ignoranza più che in passato, disprezzano gli esperti come non mai e sono sempre più aggressivi nell’esprimere le loro opinioni, considerate alla stregua di verità assolute.

Questa situazione è una deriva dell’errato concetto di uguaglianza: se siamo tutti uguali, dicono, allora la mia opinione vale quanto quella di un esperto, no?

In realtà, l’uguaglianza andrebbe legata al valore del voto: il mio voto vale quanto quello di un esperto. Ma quando si parla di competenza, le cose stanno molto diversamente.

La proliferazione di teorie del complotto, di stereotipi e di bias da conferma è legata a molti fattori.

Tra questi, il crollo qualitativo dell’istruzione americana: tutti vogliono andare al college. E tutti i college, vogliono attirare il più gran numero possibile di studenti, perché ogni studente paga fior fiore di soldi per frequentare. Ne deriva che gli studenti si trasformano in clienti.

E cosa fa un cliente? Ha sempre ragione. Bisogna accontentarlo: dargli ciò che vuole, non ciò di cui ha bisogno. Ecco, allora, college e istituti universitari che diversificano l’offerta di attività extra-curriculari e spendono milioni di dollari nell’arredamento (di design!) dei dormitori: tutti aspetti esteriori che fungono da allettanti specchietti delle allodole, peccato che poi l’offerta contenutistica vera e propria venga messa in un angolino.

Ed ecco, ancora, sistemi pubblici di valutazione degli insegnanti: gli insegnati ricevono commenti e votazioni da parte dei ragazzi. E’ esattamente il contrario di quello che si faceva qualche anno fa, quando erano i professori a valutare gli studenti… Ma i prof devono adeguarsi, perché se, ad esempio, assegnano troppi libri da leggere, allora la loro valutazione scende, l’appetibilità del loro corso cade in picchiata, diminuisce il numero dei frequentanti e il prof rischia il posto.

L’incompetenza e l’aggressività contro gli esperti è fomentata anche dalla rete (che per altri versi avrebbe anche i suoi vantaggi).

Uno dei rischi di internet è che rischia di renderci più rigidi nelle nostre opinioni, nonostante la maggior possibilità di informazione.

Un esempio?

Chi seguiamo se siamo di destra (o sinistra)?

Un giornale di destra, un comico/cantante/attore di destra, tanti amici di destra (o sinistra)… appena ci accorgiamo che qualcuno esprime un’opinione diversa dalla nostra, lo blocchiamo (magari, dopo averci litigato un po’ online). Di sicuro non continuiamo a seguirlo.

In generale, online la nostra tolleranza ad ascoltare opinioni diverse dalla nostra è quasi inesistente.

Ne consegue che la nostra dieta informativa è totalmente squilibrata.

Mi direte: anche gli esperti a volte sbagliano. Certo. Ed è un bene che lo si scopra. Ma il fatto che lo si scopra è già una prova che il sistema scientifico funziona ancora.

Bisogna dire inoltre che, nella stragrande maggioranza dei casi, gli esperti ci azzeccano. Eppure questo fa molto, ma molto meno notizia di un esperto che sbaglia. Fatalità, oggi, se sbaglia un esperto, la tendenza è di credere che tutti gli esperti sbaglino. Tutti. Questa sfiducia di base verso la competenza può essere pericolosa.

Nichols analizza l’ascesa al potere di Trump come il risultato di una generica ignoranza collettiva, ma questo è solo uno dei tantissimi esempi in cui la diffidenza verso la competenza è pericolosa.

La soluzione?

Sviluppare il pensiero critico.

Ma qui, ci vorrebbero altri libri sul… come!

 

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La dieta del digiuno, Umberto Veronesi @libriMondadori

Chiedo ufficialmente alla Mondadori di rimborsarmi gli 11 Euro spesi per acquistare questo libro.

Motivazione: promessa al pubblico non rispettata.

Perché, lasciando da parte i romanzi, dove i titoli possono sconfinare nella poesia, nei saggi non si può mettere un titolo e poi parlare di un argomento che è esattamente l’opposto!

Questo libro non parla di digiuno, se non di striscio: parla di alimentazione!

Ti spiega i macroelementi, i microelementi, l’alimentazione ottimale per bambini ed adulti, il vegetarianesimo, la necessità di esser magri per vivere a lungo… ma poi, quando si tratta di spiegarti nei dettagli come digiunare, Veronesi si limita a dirti che lui fa un pasto al giorno (faceva, scusate).

Non ti dà suggerimenti su come fare per superare le voglie che ti possono afferrare nei primi giorni di digiuno, non ti parla di autofagia o concetti similari, non ti parla di gradualità, non ti sottopone nessuna delle ricerche scientifiche in cui è stato dimostrato quanto bene faccia il digiuno intermittente.

Non dico che sia un male leggerlo: dico che il titolo è uno specchietto per le allodole (o le allocche, come me).

Posso esser d’accordo quando suggerisce: niente carne! Poche calorie! Ma poi… mi dice di bere latte…! Di mucca!? senza parlare del punto in cui definisce il tofu come “soia fermentata” (grave errore: il tofu non è soia fermentata; casomai, soia cagliata: procedimento di preparazione e reazione chimica sono completamente differenti).

Dunque: comprate questo libro solo se volete farvi un ripasso dei concetti chiave dell’alimentazione e del vegetarianesimo etico.

PS: lancio l’esca alla Mondadori: non serve che mi rimborsiate il valore di questo libro. Potete anche mandarmene un altro; diverso, però…

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Le lacrime di Nietzsche, Irvin D. Yalom @NeriPozza

Bel libro: mi sento di suggerirlo a tutti gli amanti dei romanzi, non solo a chi si interessa di psicanalisi e filosofia.

Yalom, psichiatra e scrittore, parte dai dati anagrafici, reali, di personaggi storici (Nietzsche, Lou Salomè, Breuer, Sigmund Freud…) per farne un romanzo di fantasia, ma senza mai allontanarsi dalla verosimiglianza dei caratteri per quanto se ne può trarre da testi e testimonianze scritte; tranne forse nel caso di Lou Salomè, che difficilmente si sarebbe sentita in colpa per aver rifiutato di sposare Nietzsche, almeno al punto da ricorrere a un medico per aiutarlo. Ma non c’è rischio di confondere fantasia e realtà, perché l’autore alla fine ci spiega cosa ha inventato e cosa no.

Le malattie (o la malattia) di Nietzsche sono un mistero clinico difficile da svelare. Breuer, nel romanzo, dandone un’interpretazione, quasi giunge a una forma di guarigione: e se non ci giunge del tutto, questo dipende da Nietzsche. Ma non posso dirvi di più, altrimenti svelo troppo.

Quello che posso dire, è che nel romanzo è ben delineata l’amicizia che nasce tra il filosofo e il medico, nonostante i blocchi emotivi di entrambi; e sebbene il rapporto medico-paziente venga rivisto in modo originale – ribaltato, direi –  alla fine entrambi riescono a imparare qualcosa su se stesso e sull’altro. Merito della logoterapia, la terapia della parola, che riesce non sono a creare un’amicizia, ma anche a farci conoscere personaggi storici nel loro carattere, nei loro pregi e difetti (perché, diciamolo, Nietzsche aveva dei problemi con le donne…).

L’insegnamento generale che ne ho ottenuto, però, non è tanto nozionistico: non gira attorno alla storia del pensiero o della filosofia. L’insegnamento che si ottiene da questo libro è che nella solitudine non si guarisce.

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Gran Canaria, di A. J. Cronin @libribompiani


Cronin era un grande affabulatore e un buon conoscitore dell’animo umano. Però, rileggendo un suo libro oggi, ci si accorge di quanto sia cambiato l’atteggiamento di un lettore davanti ai personaggi letterari.

La storia: Harvey Leight è un medico cui sono morti tre pazienti a causa di un esperimento andato a male. Disilluso e arrabbiato, si lascia convincere a intraprendere un viaggio fino alle Canarie. Sulla nave incontra dei passeggeri sono diversissimi tra loro: Robert e Susan, missionario e sorella; Corcoran, ex pugile bonaccione e fanfarone; Monna Lisa, donnone dalle molte risorse ma poco affabile; e, infine, Mary Fielding, bellissima, ricchissima e sposatissima trentacinquenne, con due suoi accompagnatori.

I passeggeri faticano a legare tra loro. Scocca l’amore a prima vista tra Mary e Leight, ma un’epidemia di febbre gialla rischia di dividerli per sempre una volta arrivati a destinazione. Non dico come finisce, ma anticipo che l’incontro tra i due sembra essere il frutto di una fatalità che si ripete nei secoli.

La storia si lascerebbe leggere, se non fosse che i rapporti tra i passeggeri sono fin troppo chiari dall’inizio. Non c’è una conoscenza graduale, si stabiliscono subito i ruoli, le simpatie e le antipatie: non funziona così, nella realtà. E neanche a farlo apposta, Susan si innamora perdutamente di Leight: dopo che ci avrà parlato insieme due volte…

Non manca la scazzottata, vinta ovviamente dal protagonista, né la tragedia, in cui rimane vittima il personaggio più umile ed altruista: entrambi elementi un po’ scontati.

Ho una edizione del 1943 che è una barzelletta. A parte gli “ella” e gli “essa”, che dopo un po’ diventano illeggibili, ci sono delle imprecisioni nella traduzione che oggi sarebbero impensabili, come l’uso di “pretendere” per tradurre “pretend”, al posto di fingere. E poi, i tempi verbali… mamma mia! Tutto il romanzo si svolge al passato, ma come le giustifico traduzioni del genere:

Non aveva capito le parole; non le capirebbe mai.

(al posto di “non le avrebbe capite mai”)

Non aveva mai messo piede in quella stamberga, e non ce lo rimetterebbe più.

(al posto di “non ce lo avrebbe rimesso”)

Credo che questi, più che errori (leggendoli mi vengono i brividi, peggio del gessetto sulla lavagna), fossero frutti del tempo: 1943, guerra. E gli inglesi erano nemici. Forse non era facile trovare un traduttore con le contropalle in materia di condizionale passato… 🙂

Ad ogni modo, è uno dei pochissimi romanzi ambientati nelle Canarie. Ne avete altri da consigliarmi?

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La dieta nutritariana – Joel Fuhrman

La tesi di fondo non si discosta dal libro precedente, Eat to live, ma stavolta si incentra un po’ di più sul confronto con altre diete (dalla mediterranea alla paleo, ad esempio) e ci sono piccole differenze in merito alla percentuale di proteine animali ammesse (che se prima era attorno al 10% ora sono sul 5%, ma, ammette, se tendono a 0, ancora meglio). Dice inoltre che ha scoperto quanto facciano bene le alliacee crude (aglio e cipolle varie) e i funghi cotti, e dunque negli ultimi cinque anni la sua dieta incorpora questi alimenti molto di più.

Mangiate, dunque, tutti i giorni, le G-bombs:
G = greens – verdure verdi
B = beans – legumi
O = onions – alliacee
M = mushrooms – funghi
B = berries – frutti di bosco
S = seeds – semi

Il suo approccio si basa sull’abbondanza di questi alimenti, non ci si alza mai da tavola con la fame, anzi. Certo, si tratta anche di ridurre il sale (e qui io faccio una fatica della malora!!!) e gli oli, che sono grassi senza nutrienti.
Attenzione, però: non è d’accordo neanche con i medici vegani Ornish ed Esselstyn, che proclamano una dieta vegana low fat come la migliore. Secondo Fuhrman i semi, pur essendo grassi, sono da integrare nella dieta, come testimoniano molte ricerche recenti. Io dico la mia: a parole Fuhrman non si dice d’accordo con questi altri medici, ma poi alla fine anche lui limita le dosi di frutta secca e semi a una manciata al giorno (circa 30 grammi, o un po’ di più per gli sportivi), dunque le posizioni non si discostano molto.

Ecco la lista delle cose da mangiare ogni giorno:
– grande insalata mista come portata principale di almeno un pasto
– una porzione (preferibilmente intorno ai 200-250 gr) di legumi
– una porzione doppia di verdure al vapore
– frutta secca e semi, almeno 30 g le donne, 40 g gli uomini. La metà deve essere costituita da noci, semi di canapa, di chia, di lino o di sesamo
– mangiare un po’ di funghi cotti e di cipolla cruda
– mangiare almeno tre frutti.

La riduzione di peso è garantita, almeno da quello che riportano le testimonianze nel libro. Ma è sulla salute che il dottore punta l’accento, sulla risoluzione di problemi cardiovascolari, depressione, e altra bella roba.

Partendo già da una base vegana, questo vademecum per me è una bazzecola. A parte il sale. E’ da una settimana che l’ho tolto, e mi sembra di essere una condannata ai lavori forzati (le spezie non sono la stessa cosa!!), anche se devo ammettere che ogni giorno va un po’ meglio. E voi ci avete mai provato?

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Fa bene o fa male? – Silvio Garattini

Devo dire la verità: quando ho letto sulla copertina che l’autore, il dottor Garattini, “viene chiamato continuamente da giornali e da televisioni”, mi son detta: oh, no, ecco l’ennesimo pseudo-dottore che si sforza di far contenti un po’ tutti, che cavalca le diete di turno e che non prende mai una posizione sua per paura di essere additato come eretico.
Un po’ come il dottor Oz, per intenderci.

Ma non è stato così. Sebbene non mi sia trovata sempre d’accordo con le sue tesi (il capitolo sulla terapia Di Bella secondo me non è stato approfondito a dovere, non sono state discusse le tesi dei dibelliani, se non altro per contrastarle… se voleva), mi sono accorta che è uno con idee sue, anche impopolari, a volte.
Per esempio, la sua posizione sulle droghe leggere è contraria alla legalizzazione, che viene oggi tanto sventolata come sintomo di apertura mentale.
Che dire dei capitoli sul fumo?
Premetto che non sono obiettiva: trovo che il fumo faccia schifo. Trovo poco femminili le donne che fumano e mi danno un senso di sporco gli uomini che fumano. Ed entrambi, in un modo o nell’altro, puzzano…
Ma Garattini è più scientifico e allo stesso tempo più estremista di me:
parlando dei fumatori dice

se questi 12 milioni (di fumatori) tagliassero, tutti insieme, i ponti con il pacchetto (…) chirurghi, cardiologi, pneumologi e tanti altri medici avrebbero parecchio lavoro in meno perché tanta patologia è concentrata nei fumatori. Il cancro del polmone diventerebbe una malattia rara, visto che l’80% dei casi oggi riguarda il popolo dei fumatori (attivi e passivi).

E ancora:

Come può essere autorevole ed efficace un dottore che raccomanda al suo paziente di non fumare quando lui stesso ostenta sul tavolo un pacchetto di sigarette? Trovo davvero squallido vedere questi camici bianchi che mollano i reparti per recarsi all’aperto e riempirsi i polmoni di fumo.

Assolutamente da leggere le parti che spiegano come viene composto il prezzo delle medicine (scordatevelo che i prezzi alti siano dettati dal principio attivo o dalla ricerca: è tutta una questione di promozione, pubblicità e informatori sanitari)

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Esperti di troppo, Ivan Illich et al.

Esperti di troppo – il paradosso delle professioni disabilitanti

Finalmente ho letto qualcosa di Illich!
Era un grande! Scriveva in dieci lingue (adoro questi poliglotti volontari) e si è interessato a più ambiti di ricerca, dalla storia, alla teologia, alla storia dell’arte, alla filosofia, alle scienze sociali… ma, udite udite, ho scoperto che era un sacerdote cattolico! Anzi, è diventato anche vescovo… Uno con la mente così aperta non poteva durare molto in un’istituzione quale la Chiesa di Roma, e infatti è finito davanti al sant’Uffizio. Alla fine ha rinunciato a titoli, benefici e servizi ecclesiastici (pur rimanendo sempre, fino alla fine della sua vita, un sacerdote e un lettore del breviario).

Il saggio di Illich contenuto in questo libro parla delle istituzioni e degli esperti che vi sono all’interno: esperti a cui noi deleghiamo la definizione e cura dei nostri bisogni.
Pensiamo alla scuola, dove sono gli insegnanti a decidere chi ha imparato quello che serve per andare avanti. O alla professione medica, che definisce le malattie (non solo biologiche) e impone le cure (o getta un’ombra di disapprovazione sociale su chi non segue i consigli dei medici).

Interessantissima e densa la sua analisi delle illusioni che hanno causato questo stato di predominanza degli esperti: leggetelo. A volte sembra estremo, ma consideriamo che il saggio è stato scritto nel 1977 e valutiamo quanto sia attuale oggi!

Ci sono poi altri interventi: Irving Kenneth Zola che parla dei medici disabilitanti, John McKnight, Jonathan Caplan (avvocato) e Harley Shaiken (ex operaio) che parlano delle istituzioni e degli esperti in vari campi (tra cui la giustizia).

Come dicevo, è un libro corto ma denso, difficile da condensare in un post di blog: leggetelo.

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Il cervello anarchico, Enzo Soresi

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Un po’ saggio, un po’ biografia.
Incentrato sulle capacità di autoguarigione del cervello, Soresi, Pneumologo e oncologo, analizza l’incidenza dello stress e della situazione psichica sulla malattia. Ma sparsi per il libro ci sono tantissimi aneddoti che riguardano la sua esperienza in ospedale e non: medici che buttano in faccia diagnosi mortali ai pazienti, medici che coltivano la relazione col malato senza dimenticare che è una persona viva… si va da un estremo all’altro.

Parla dell’effetto placebo (ma anche di quello nocebo), mai sufficientemente studiato e sfruttato.
Parla delle donne cambogiane che, costrette dai Khmer rossi ad assistere alla tortura di mariti e figli, hanno pianto fino a perdere la vista.
Parla dell’insorgenza di malattie psicologiche e organiche in seguito ad eventi stressanti (dal tradimento del coniuge, alla morte di un familiare).
Parla di gente che, affetta da malattie mortali, non è morta finché non ha compiuto qualcosa che gli stava a cuore.
Parla della multiterapia Di Bella (Soresi faceva parte del pool che doveva testarla per i tumori polmonari).
Parla schietto, senza tacere suoi errori diagnostici, ma anche senza tacere quelli altrui, nonché i dubbi che nutre sui medici di famiglia e sulla preparazione che viene loro impartita dal sistema universitario tradizionale, del tutto astruso dalla medicina alternativa o non convenzionale (che – in certi casi – funziona) e dalla necessità empatica.

A volte, leggendo, ho l’impressione chiara che si tratti di opinioni personali, tentativi, interpretazioni. Certo. Però mi è sembrato un medico umano, non un burocrate.
Lui ha lasciato il posto di primario di un ospedale milanese per preservarsi dallo stress e dalla burocrazia galoppante, ora si dedica ai malati in via privata, appoggiandosi, ove necessario, ad un pool di specialisti e senza rifiutare in via preventiva approcci non convenzionali (fitoterapia, agopuntura…).
Almeno si documenta, cerca di migliorarsi.
Non ho la stessa impressione quando vado dal mio medico a farmi fare una ricetta.

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