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Il museo del mondo (Melania Mazzucco)

Sono nel periodo di letture a tema artistico.

Ringraziamo il cielo che ci sono scrittori che scrivono di questo tema in modo comprensibile, come fa la Mazzucco, che ti fa venire la curiosità di entrare nei musei (o almeno di guardare le foto delle opere in internet), e mandiamo a quel paese tutti i critici che sporcano la carta con frasi incomprensibili al preciso scopo di allontanare le masse dall’arte.

In questo libro, la Mazzucco prende in considerazione solo di pittura che lei ha visto dal vivo e per la quale nutre il desiderio di rivederla.

Ecco, quando certe persone mi chiedono perché leggo tanto, non posso certo nominare la bellezza di un libro come questo, perché… beh, perché non ha uno scopo pratico. Non mi serve per applicare quello che imparo nel mio lavoro di tutti i giorni e non guadagnerò nulla dal sapere come si chiama un quadro di Bosch o di Georgia O’Keeffe, eppure, ogni tanto, ho bisogno di dedicarmi a qualcosa che non abbia applicazioni pratiche.

Non per denigrare le liste della spesa, per carità. Le liste della spesa sono utilissime quando devi andare al supermercato, ma nella vita di tutti i giorni, ormai, le conversazioni si riducono a un elenco di informazioni o di commenti che si fermano alla superficie delle cose.

Se passo davanti ad un bar e vedo delle persone sedute all’interno, non mi soffermo a pensarci. Fermarmi a pensare su quelle due persone potrebbe perfino essere controproducente nell’economia delle mie giornate.

Ma se guardo un quadro di Hopper in cui un uomo e una donna sono al bancone e non si parlano, allora mi faccio delle domande. Perché non si parlano? Perché si sono trovati là? Come se ne andranno? Insieme o separati? Siamo sicuri che tutte queste domande, un giorno, non possano tornarmi utili se applicate alla mia vita o a quelli che mi stanno vicini?

L’arte dovrebbe aiutarci a guardare sotto la superficie, e mai come oggi ce n’è bisogno.

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Limbo, Melania G. Mazzucco

Posso dire che non mi piace la ragazza in copertina? Ormai l’ho scritto.
Non si capisce se è imbronciata, incazzata, sospettosa o pericolosa. Forse tutti questi aggettivi insieme, e proprio per questo polpettone di aggettivi, mi dava fastidio prendere in mano il libro. Emana energia negativa.

Eppure la storia mi è piaciuta, perché mi piace come scrive la Mazzucco, anche se stavolta un appunto devo farlo: homework, live e rewind sono tre voci diverse. Il live in terza persona segue i punti di vista dei vari personaggi; l’homework è la voce di Manuela, la soldatessa, che racconta quello che le è successo in A-Stan; rewind è la voce del presunto Mattia che spiega un po’ (poco) di sé alla fine. Queste tre voci dovevano essere diversificate, invece si sentiva lo stile da scrittrice navigata. Ma Manuela è stata una teppista finché non ha iniziato a darsi da fare per l’esercito e Mattia è un medico specialista in oculistica (o oftalmologia, non chiedetemi la differenza): non ho notato alcuna differenza tra le voci.
Solo una voce unica. Bella, per carità, piena di belle immagini e metafore, ma mancavano altre due esperienze di vita…

Per chi l’ha letto: secondo voi, la figura al balcone dell’albergo dell’ultima pagine, è Mattia?
Perché ho questo bisogno di sapere cosa pensava la Mazzucco mentre l’ha scritto? Nella sua testa, era lui o no?

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Libri legati


Sebbene il mio criterio di scelta dei libri da leggere sia ai limiti del bizzarro, spesso trovo che si leghino tra loro, sembra quasi che qualcuno li abbia scelti per me.
Ad esempio…
Ho finito di leggere LA CAMERA DI BALTUS della Mazzucco. In un passo parla di Aracne, perché l’affresco pullula di ragni:
“Aracne: la tessitrice artista che rappresenta nella sua tela le ingiustizie, le menzogne e le colpe degli dei. Aracne, che viene trasformata in ragno rinsecchito per aver osato sfidare nella sua arte la dea Atena.”
E poi procede ponendo il parallelismo tra Aracne e il Maestro (sconosciuto allo studioso). By the way: è un libro di parallelismi, questo.

Ma Aracne mi ricompare anche in “Perché amiamo scrivere” di Duccio Demetrio.
“Più volte si è andati mostrando che molto assomiglia al racconto, ai discorsi umani, e anche allo scrivere, l’opera paziente di chi ordisce tele, arazzi, tessuti. Il filo della memoria, del ragionamento, della narrazione…”
E questo è un saggio di filosofia. O mitologia? Non chiaro. Trovo sia interessante il punto centrale del libro di Demetrio, il suo tentativo di trovare una musa per la scrittura, unica forma d’arte che ne è priva (in occidente). Lui la trova in Eco, che amava Narciso, ma che viene trasformata in pietra e privata della parola, nonché condannata a ripetere solo le ultime sillabe che sente (ma che tiene in sè le parole scritte). Il resto del libro è un’ode alla scrittura che costruisce parallelismi con i miti classici: alla lunga, però, la lettura cade, perché sebbene ammiri la ricchezza di immagini e lo stile di Demetrio, il contenuto si ripete troppo.

Infine, appena iniziato, MR. GWYN di Baricco. E qui c’è uno scrittore che decide di smettere di scrivere ma… si accorge di non poterne fare a meno. Il legame col libro di Demetrio si pone qui, quando Demetrio dice:
“Non basta decidere di non scrivere più. Continua ad aleggiare il suo soffio vitale, ci riafferra inaspettatamente. Ci scopriamo braccati da un’assuefazione che non fa vittime, tranne tra chi ne soffra.”
E infatti Mr. Gwyn trova un sistema alternativo per utilizzare la scrittura senza scrivere libri: scriverà ritratti.

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Lei così amata, Melania Mazzucco

Scrittura moooolto diversa da La Lunga Attesa Dell’Angelo… più lineare, meno mirabolanti le similitudini… sembra quasi un’altra scrittrice (per non parlare de Un Giorno Perfetto. Cambi di stile così marcati riescono a produrli solo scrittori di prima categoria o quelli che si servono di un ghost writer, io opto per la prima)… storia interessante, certo. Ereditiera rinnega la famiglia per inseguire il sogno della scrittura e l’innamorata (figlia di Thomas Mann, mica un’arachide!), rinchiusa in manicomio, viaggiatrice per mezzo mondo, tutto sullo sfondo degli anni trenta, culturali e fascisti. Il libro supera le 400 pagine, ma si ha l’impressione che molte vicissitudini non vi abbiano trovato spazio. E la protagonista è morta a soli 34 anni (io ne ho trentacinque, e non ho fatto un centesimo di quello che ha fatto lei!).

Alla fine però, mi chiedo: e se l’avessi conosciuta? Probabilmente non avrei legato. Troppo preoccupata di tagliare i ponti con quello che era, come i giovani d’oggi (e parlo di ragazzi che hanno 10-15 anni meno di me, non eoni), scansagenitori e scansaparenti per partito preso. Anche questa è una forma di chiusura mentale, alla fine, sebbene ai giorni d’oggi il livello culturale e il numero di libri letti sia irrisorio (ah, se qualcuno vuol dimostrarmi il contrario, la sfida è aperta).

Due appunti sul testo, sebbene la Mazzucco mi piaccia e ammiri la profondità con cui ha studiato la vita della Schwarzenbach (con tanto di traduzioni di sue opere e viaggi nei luoghi da lei vissuti).

– Per ben due volte nel corso del libro nomina un “cielo trapuntato di stelle”. Similitudine da poveri, che verrebbe in testa perfino a me.

– A pagina 229 la protagonista “si ritrovò in una strada non asfaltata”. Poche righe dopo, però, “l’asfalto era sdrucciolevole”. Ma allora, ‘sta strada era asfaltata oppure no??

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Vita, Melania G. Mazzucco

Cos’è di questo romanzo che mi lascia in bocca il gusto di kiwy acerbo? La Mazzucco era una delle mie scrittrici preferite… non la storia, per quanto drammatica e reale. Ce ne sono state altre, nella mia esperienza di lettrice pazza, di storie anche più drammatiche, di quelle che a volte ti fanno lacrimare, indignare al punto di voler fare Qualcosa, anche se poi, alla fine, ognuno esce un po’ alla volta dalle storie di carta e rientra nelle sue, di carne, pastasciutte e ordini al computer.

Forse il dubbio che le frasi brevi siano, oltre che semplici alla lettura, anche pià facili da scrivere? Eppure non posso affermare che la M. si sia impegnata poco in questa ricostruzione. Ciononostante, l’abbondanza di punteggiatura mi ha spezzato troppo la fluidità della lettura. L’ha accelerata, certo, perché ti viene voglia di andare avanti, ma ad alta voce scivola nella monotonia. Da un premio Strega questa sensazione non mi piace.

Non dico certo che sia un brutto libro, ne metto solo in rilievo un aspetto che non credevo mi sarebbe saltato all’occhio, a me, che non ho formazione letteraria. Mi sono sentita come davanti a un angolo acuto. So che chi lo ha disegnato voleva dare l’idea di un angolo inferiore ai 90°, eppure se lo guardi dalla parte opposta, ne viene fuori un angolo ottuso.

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