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Lo scrittore fantasma – Philip Roth

La trama è quasi inconsistente: un giovane aspirante scrittore, Nathan Zuckerman, va a trovare il suo idolo letterario, tale Lonoff, nella sua isolata casa sulle colline del New England.

L’incontro è cordiale: Lonoff si rivela essere uno scrittore maniacale, abitudinario, senza niente che possa rendere interessante una sua biografia, se mai a qualcuno venisse in mente di scriverla.

Gli unici eventi che possono smuovere questo elettroencefalogramma piatto, sono legati alla presenza di una giovane dal passato misterioso: è una ex studentessa di Lonoff, e nel corso della lettura si scopre che lei e il suo prof hanno una relazione.

La moglie di Lonoff, Hope, lo sa, e fa un paio di scenate a cui Zuckerman assiste attonito.

Il romanzo finisce con la ragazza che se ne va e Hope che si incammina a piedi, in mezzo alla neve, brontolando che non vuol saperne di tornare a casa: Lonoff la segue.

Raccontato così, sembra di una noia mortale, ma non lo è, ve lo assicuro: il bello del romanzo è dato da tutti i temi sollevati: la sopravvivenza al nazismo, la vita dello scrittore e il suo rapporto con la famiglia, il jet-set letterario, l’ebraismo ai giorni nostri, il senso di colpa…

Ad esempio: Nathan Zuckerman è in rotta col padre per via di un racconto che ha scritto basandosi su una storia familiare. Il racconto non è piaciuto a nessun parente perché sembra che gli ebrei siano descritti nel modo più classico possibile, come avari e imbroglioni. Questo piccolo episodio gira tutto intorno al modo in cui gli ebrei di oggi percepiscono se stessi, con la paura di venir giudicati per via della loro appartenenza e non della loro personalità.

Alla fine, davanti agli occhi ho l’immagine di un popolo che si vede diffamato anche quando non lo è (perlomeno io l’ho vista così), perché se il racconto di Zuckerman sia antisemita non è per niente scontato.

Non solo: Zuckerman appena vede la ragazza misteriosa se ne innamora, e fantastica che lei sia in realtà Anna Frank, sopravvissuta in incognito. Se così fosse, Nathan riuscirebbe a giustificarsi col padre: vedi, gli direbbe, credi che io odi la mia ebraicità, ma in realtà mi sposo con nientepopodimenoche Anna Frank!

E questo non è altro che la conferma del suo senso di colpa, perché, se per farsi perdonare dal padre ha bisogno di sposare l’emblema letterario della persecuzione ebraica, bè, qualcosa non va…

Mettetevela via: il romanzo non vi dà soluzioni. Nessuna via di fuga, nessuna rivelazione chiarificatrice, nessuna svolta che possa sistemare le cose, in nessun campo.

Philip Roth mette i problemi e i temi sul piatto, prende le frasi e le gira: tutto il resto spetta al lettore.

Una forma di collaborazione tra scrittore e utente, quasi.

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Il velo dipinto – W. S. Maugham

Kitty appartiene alla media borghesia inglese. E’ giovane e carina e finisce per sposare un medico che la porta in Cina. La storia è ambientata all’inizio del secolo scorso (credo… i riferimenti temporali non sono molti), quando gli stranieri non erano ancora ben visti dai locali. Kitty, dopo un po’, si accorge di non amare il marito Walter, che, nonostante le sue buone qualità, è un tipo piuttosto chiuso e di interessi diametralmente opposti a quelli della moglie. Lei finisce così per trovarsi un amante.

Solo che Walter lo scopre… per evitare scandali, lui la costringe a trasferirsi nell’interno del paese, dove imperversa il colera. Lei è dapprima terrorizzata, ma poi, grazie anche all’incontro con alcune suore missionarie francesi, comincia a riflettere sul suo comportamento e sul senso della vita in generale.

Punti a favore del romanzo: l’introspezione psicologia è molto buona. Maugham delinea bene le differenze di carattere tra marito e moglie, e, rifuggendo da un lieto fine o da un’illuminazione improvvisa, la vicenda si snoda in modo realistico.

Punto a sfavore: perché ambientare la vicenda in Cina? Questo immenso paese viene descritto solo nei suoi paesaggi, visti attraverso lo schermo emotivo di Kitty, ma in realtà manca del tutto lo spirito “cinese”. Le Amah e i portatori e tutti i personaggi locali che compaiono nel romanzo sono mere comparse che non parlano se non per stereotipi. Nessun accenno alla storia recente o contemporanea alla vicenda, né alla millenaria cultura del paese. Insomma, se Maugham ha scelto la Cina, deve averlo fatto solo per coniugare l’introspezione psicologica (che qui è profonda) con un vago bisogno di esotico che, una volta finita la lettura, lascia un senso di superfluo.

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La verità sul codice Da Vinci, Bart D. Ehrman

So che è uscito Origin di Dan Brown, ma prima di leggerlo, avevo bisogno di chiarire esattamente (esattamente, non per sentito dire) cosa nel Codice Da Vinci era storia e cosa era invenzione. Questo piacevole saggio di Ehrman è perfetto allo scopo.

Il libro di Dan Brown è un’opera di fantasia, checchè ne dica l’autore quando all’inizio dichiara che le fonti a cui si è ispirato sono vere.

Innanzitutto, non sappiamo nulla sul presunto matrimonio tra Gesù e la Maddalena. Questo Brown non poteva ammetterlo, ma è probabile che Gesù fosse celibe e casto: niente di strano a quei tempi; anche gli esseni avevano scelto questo stile di vita (by the way: Gesù non era un esseno, ma il suo pensiero aveva molti punti in comune col loro).

Se Gesù fosse stato sposato, qualche fonte avrebbe riportato il dato. E invece niente, né nei quattro vangeli, né nei vangeli apocrifi.

Poi: se lui e la Maddalena fossero stati marito e moglie, perché identificare lei nominando la sua provenienza (Maria di Magdala) per distinguerla dalle altre Marie dei testi? Sarebbe bastato dire Maria moglie di Gesù, no?

Gesù era un apocalittico, un profeta ebreo che prevedeva l’arrivo IMMINENTE del Regno di Dio. In tale regno, non ci sarebbe più stata divisione tra uomo e donna, dunque nessun rapporto sessuale, perché tutti sarebbero stati casti: si presume dunque che Gesù volesse anticipare un po’ quello che sarebbe successo nel regno, che ai suoi giorni era solo un granello di senape, ma che sarebbe cresciuto fino a diventare un albero gigantesco. Niente di più probabile, dunque, che fosse celibe e casto.

E poi, guardiamo a Paolo: anche lui era un apocalittico. Anche lui prevedeva l’arrivo imminente del regno. E dunque scriveva, nelle lettere, che siccome tutto stava per essere sovvertito, non aveva senso darsi tanto da fare per cambiare le cose: chi era sposato, restasse sposato, chi era celibe, restasse tale. Tanto da là a poco arrivava il Regno…

Dan Brown dice che nel Vangelo apocrifo di Filippo sta scritto che la Maddalena è la compagna di Gesù, e che in aramaico, quando si dice Compagna, si intende moglie. Peccato che quel vangelo fosse scritto in copto, l’antico egiziano, e che la parola vada tradotta effettivamente come compagna, amica.

Cadendo la relazione sessuale tra Gesù e la Maddalena, cadrebbe tutto il Codice Da Vinci e Dan Brown non avrebbe fatto i miliardi. Ma in fondo lui è un romanziere, io mi son divertita a leggerlo. Il guaio si pone quando il pubblico in senso lato prende il romanzo come oro colato e va in giro a dire che Gesù era sposato e che la chiesa delle origini era matriarcale…

Ma andiamo avanti con i chiarimenti.

La Maddalena non era una prostituta. Non ci sono testi che lo affermano.

Tale idea si fece largo cinquecento anni dopo che queste fonti furono scritte, quando papa Gregorio il Grande tenne un sermone in cui affermava che Maria Maddalena non era altri che la peccatrice citata in Luca 7 (…)

Altra cosuccia errata del romanzo di Dan Brown è che la chiesa primitiva non celebrava il femminino sacro. Probabile, da alcuni accenni nei testi storici, che le donne avessero un ruolo più importante che nel resto della società, anche perché, se il Regno era vicino e se bisognava anticiparlo con dei gesti, era auspicabile che si iniziasse da subito a ridurre la distanza tra uomo e donna.

Ma le donne rimanevano comunque esseri subordinati e, per essere ammesse al regno, dovevano comunque… diventare come uomini. Col passare del tempo, poi, le iniziali aperture alle donne sono svanite, e ha ripreso vigore l’antico paternalismo: ma non è stato Costantino a decidere questa svolta, come dice invece Brown nel suo romanzo.

E ricordiamo comunque, che per quanto Gesù accettasse di parlare pubblicamente con le donne e per quanto alcune donne (presumibilmente ricche o nubili, cioè libere dai doveri domestici) facessero parte del suo seguito, aveva comunque scelto solo discepoli maschi, e faceva conto su questi 12 discepoli per guidare le 12 tribù di Israele.

Dopotutto, l’uguaglianza effettiva tra uomini  e donne si sarebbe concretizzata col Regno di Dio (che doveva arrivare presto, una questione di pochissimo tempo), perciò che senso aveva darsi da fare per mettere in piedi un progetto di riforma sociale? Si trattava solo di anticipare il Regno con piccoli segni, con piccoli granelli di senape. Poi il Regno avrebbe fatto il resto.

Altra incongruenza: non è  stato Costantino a decidere quali testi includere nel Canone. Il processo era già in atto, e terminò molto tempo dopo la morte dell’imperatore.

Ancora: nel romanzo, Dan Brown dice che Gesù aveva incaricato Maria Maddalena di guidare la sua chiesa. Sbagliato: in base al Vangelo apocrifo di Maria, Gesù avrebbe sì rivelato una verità alla Maddalena, ma questa Verità aveva a che fare con la salvezza dell’anima, non con la guida della sua chiesa (anche perché, non serviva guidarla molto a lungo, visto che il Regno sarebbe arrivato prima della fine della loro generazione).

Il post si sta allungando, non posso riportare altre differenze tra i documenti storici e il romanzo di Dan Brown; vorrei però sottolineare un punto, che riguarda l’esistenza di Gesù, perché per alcuni è ancora dubbia.

I testi che ne parlano sono i vangeli. E sono anche i testi più antichi e più attendibili.

Ci sono poi due fonti pagane, cioè non ebraiche né cristiane, che lo citano (Plinio, governatore romano, e Tacito, storico romano).

Infine c’è una fonte ebraica, Flavio Giuseppe. Queste sono le fonti più attendibili (e Ehrman, da buon storico, ci spiega ad un certo punto quando una fonte è attendibile).

Dunque Gesù è esistito, ha creato della confusione in Giudea ed è morto crocifisso.

Su cosa abbia detto e fatto ESATTAMENTE… bè, questo è un altro discorso.

 

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La guardarobiera, @pmcgrathnovels, @lanavediteseoed

Non dovete leggere questo romanzo aspettandovi la stessa morbosità di “Follia”, “Il morbo di Haggard” o di “Grottesco”. E’ qualcosa di diverso, molto più sottile, con meno accadimenti drammatici, meno macabri, (forse) meno passionalità. Eppure è un libro che merita di esser letto.

Joan, capo guardarobiera di teatro, è appena rimasta vedova del marito, famoso e affascinante attore. Siamo nella Londra del 1947, in un inverno freddissimo: è difficile trovare viveri e riuscire a scaldarsi, ci sono, qui e là, episodi di rinascente fascismo.

Joan è confusa: si convince che il marito non è morto, che il suo spirito c’è ancora. Lo sente dentro l’armadio, tra i suoi vestiti, e crede di rivederlo in Frank Stone, giovane attore con cui inizia una relazione.

Il romanzo è tutto un gioco di specchi tra realtà e immaginazione (malata): Joan prima sente la mancanza del marito, poi inizia ad odiarlo perché scopre che era un fascista (lei è ebrea); prima odia il genero, credendolo l’assassino del marito, poi ne abbraccia la causa; Frank Stone prima è il recipiente del defunto, poi è un contenitore vuoto (talmente vuoto che passa dalla madre alla figlia con “maschia” velocità).

Interessante la scelta di affidare la narrazione ad un presunto coro femminile, al corrente dei fatti e a volte materialmente presente, eppure non ben definito.

Ciò che sembra, non è; le rivelazioni non sono mai plateali, ma sfumate, si scivola dalla fantasia alla realtà senza fuochi d’artificio, ed è forse questo l’elemento più realistico del romanzo. Per questo non lo definirei “thriller psicologico”, come dicono tante recensioni giornalistiche. E’ un romanzo prima psicologico, e poi storico.

Notevole la capacità di McGrath di immedesimarsi nelle paturnie degli attori di teatro, nelle sfumature dei loro pensieri. Mentre leggevo mi chiedevo come faceva, e poi l’ho scoperto: è sposato con un’attrice…

Insomma, una lettura consigliata non a chi cerca fuoco e fiamme, passioni e tremori, ma sì a chi vuole immergersi in una mente ai… confini.

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I giardini di Ceylon, Shyam Selvadurai, @ilsaggiatoreed

Quando fuori c’è l’inverno grigio e gelato, niente è meglio di un libro che parla di monsoni, palme da cocco, verande colonnate, sari di cretonne, distese di piante da tè, Sri Lanka…

I protagonisti sono due: Annalukshmi, insegnante ventitreenne a cui la società impone di scegliere tra il suo amato lavoro e un marito (già, non si possono ottenere entrambi); e Balendran, il suo ricco zio, costretto a rinunciare a un amore omosessuale per prendersi cura della propria famiglia.

La vicenda, ambientata negli anni venti, è molteplice e coinvolge molti personaggi, tutti ben delineati, ognuno con una sua caratteristica prevalente che te li fa odiare o amare. C’è, ad esempio, il padre di Balendran, che ha costretto il figlio maggiore, Arul, ad abbandonare Ceylon dopo aver scelto una donna di casta inferiore come moglie. C’è Nancy, la figlia adottiva della direttrice della scuola in cui lavora Annalukshmi, che si innamora di un impiegato povero coinvolgo con le prime sommosse sindacali del paese. Ci sono le sorelle di Anna, che si gasano a mille appena un rappresentante del sesso opposto rivolge loro la parola. C’è la madre di Balendran, che non parla inglese, che sembra un personaggio secondario ma che alla fine risulta essere quella che conosce meglio le dinamiche familiari e sociali.

Si tratta di un romanzo storico, che ben intreccia vicende private e pubbliche.

L’autore ha parlato in modo variegato, ma non superficiale, delle varie opinioni del tempo nei confronti del dominio inglese. Noi, oggi, diremmo: autonomia! Libertà! Suffragio universale! A casa i colonialisti! Ma allora non era così semplice. Se al dominio inglese si sostituisce un dominio locale, i poveri ne trarranno davvero giovamento?

I finali non sono scontati. La nostra mentalità romantica ci farebbe preferire una certa evoluzione, ma l’autore ha ben tenuto conto sia dei tempi, che dell’ambiente sociale che dei caratteri dei personaggi. Se il romanzo inizia con un enorme scompiglio a causa di Annalukshmi che va a lavorare in bicicletta, non può finire con un gesto teatrale poco realistico… però il finale è rimasto aperto, ha dato il là, ha fatto capire come si è evoluta la personalità di Anna, e ci lascia il piacere di lasciarla andare alla propria vita.

Un bel libro.

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Nudi e crudi, Alan Bennett @adelphiedizioni

Novantacinque pagine, solo 95 pagine, ma piene di ironia e ben scritte.

I coniugi Ransone rientrano da una serata all’opera e ritrovano la casa vuota; ma proprio vuota-vuota. Non è rimasta neanche la moquette, neanche lo sformato in forno. Chi sarà stato?

Il giallo si scopre solo alla fine, ma nel frattempo entriamo nell’intimità della coppia, scopriamo la povertà emotiva che ha caratterizzato i loro trent’anni di matrimonio, le loro abitudini incancrenite, i loro riti ormai inutili, i loro sotterfugi e le loro piccole meschinità.

Il signor Ransome è un avvocato, pignolo, che riprende la moglie ad ogni minima défaillance, anche verbale. Lei è una sciocchina, che non riesce a finire un libro capendone i contenuti, abituata a contare sul marito anche per fare la spesa. Eppure, tra i due, sarà lei a uscirne. Viva.

Viva due volte, non solo perché il marito morirà, ma perché la signora Ransome riuscirà, pian piano, proprio grazie al furto di trent’anni di oggetti, a cambiare. Si accorgerà di un bar che aveva sotto casa e in cui non era mai entrata; si comprerà dei mobili pacchiani da un indiano; inizierà a imparare un lessico emotivo tramite delle trasmissioni trash che non aveva mai visto.

E’ un romanzo sulla mancanza di comunicazione tra due persone che si conoscono da decenni, ma anche sulla mancanza di comprensione di se stessi (finché non subentra uno shock).

Molto carino.

Io non ho humor inglese, non mi sono messa a ridere mentre lo leggevo, ma so di gente che lo ha fatto. Per gli altri: leggetelo perché racconta con molta eleganza sia gli aspetti allegri che gli aspetti tristi di una convivenza.

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La notte del santo, Remo Bassini @fanuccieditore

Iniziamo subito con un paio di morti ammazzati, quasi decapitati. E poi ne arrivano altri. Stessa modalità, ma vittime apparentemente slegate tra loro. La prima idea che salta in mente è che dietro agli omicidi, iniziati la notte del Santo patrono di Torino, ci sia una motivazione di natura religiosa, forse una setta. Ma pian piano, i dettagli iniziano a collimare tra loro: alla fine (che non vi svelo) le indagini vengono messe sottosopra e la curiosità ti costringe ad accelerare la lettura (terminata in tre giorni, nonostante un altro libro e l’inizio della scuola).

L’effetto sorpresa, che in un noir ci sta, arriva. Però questo è un noir atipico: il presunto protagonista, il commissario Dallavita, non è quello che risolve il caso. Lui tira le somme: grazie a lui scopriamo gli altarini dei colleghi, della Torino Bene, dei servizi segreti, ma in realtà il caso si era chiuso prima, grazia all’ispettore Tavoletti, o almeno si era chiuso per i giornali e i cittadini di Torino.

Dallavita non segue il caso passo per passo perché è a una svolta decisiva nella sua vita privata: lasciare la moglie Carmen. Ha bisogno di pensare, di star solo, e si prende un mese di ferie. Non è una scelta facile, la sua, ed è resa più difficile anche dall’atteggiamento della moglie, che attraverso telefonate ed SMS lo fa sentire un vero pezzo di cacca.

Quando un libro mi prende, provo nei confronti dei personaggi sentimenti forti, come se fossero persone che ho frequentato per un periodo breve ma intenso; forse anche di più: perché nella vita vera di rado vieni a sapere cosa pensa il tuo vicino o un tuo amico, mentre questo ti succede coi personaggi dei libri.

Nel caso di Dallavita, devo ammettere che non mi sarebbe piaciuto, dal vivo. Troppo altalenante in campo femminile, per i miei gusti talebani; e poi fuma (oh sì, il fumo mi dà tanto fastidio, anche nei libri), e inizia ad eccedere nel bere. Nessun personaggio del libro, però, è piatto: sono tutti multisfaccettati. Anche dal punto di vista della bravura nel lavoro, non sono perfetti: Dallavita per esempio si fa prendere in giro di brutto da un sospettato, mentre Tavoletti ha i suoi lati poco… legali. Questo l’ho trovato coraggioso, da parte di uno scrittore: la gente vera non è come nei telefilm americani, ci piace per certi aspetti, e non ci piace per altri.

Potrei forse avanzare una critica molto soggettiva sulla cupezza dei protagonisti: il noir italiano è abbastanza saturo di poliziotti dannati (anche se devo ammettere che, a difesa di Bassini, il suo Dallavita è dannato sì, ma non è bello né giovane, e qui esprimo la mia gratitudine per la rottura degli schemi).

Riassumendo: un romanzo con molti fili, che però si chiudono tutti alla fine; con personaggi pieni di fantasmi, che però si mettono in chiaro nelle ultime pagine; e con almeno tre conclusioni da dedurre tra le righe:

  1. trova il movente e troverai l’assassino;
  2. guardati dalle belle donne;
  3. anche i ricchi piangono.

 

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Tante piccole sedie rosse, Edna O’Brien @EinaudiEditore

Cosa dire? Spiazzante.

Sia nella storia che nel modo in cui è scritta.

Andiamo per ordine.

La storia si articola in tre parti.

Nella prima, facciamo conoscenza con questo misterioso e affascinante straniero che arriva in un paesino irlandese. Lavora come guaritore e sessuologo. Fidelma, la più bella e sola del paese, si innamora di lui e gli chiede un figlio, visto che lo ha sempre desiderato ma dal marito non è mai riuscita ad averne uno. Poi Vlad viene arrestato perché si scopre che era un criminale della guerra Jugoslava. Fidelma viene prelevata da casa da tre uomini, ex amici di Vlad, che la fanno abortire senza tanti fronzoli.

Nella seconda parte, Fidelma se ne è andata da casa e inizia a vivere a Londra in mezzo agli immigrati.

Nella terza parte, Fidelma va all’Aja a incontrare Vlad, ora recluso. Non dirò come va il loro incontro, né come finisce la storia.

Già la storia di questa donna è conturbante: pensate, desiderare tanto un figlio, restare in cinta e scoprire che il padre ha ammazzato e fatto ammazzare donne, vecchi e bambini, e poi venir quasi maciullata da tre sconosciuti. Non c’è da ridere.

Ma anche il modo in cui è raccontata la storia è fatto apposta per creare un senso di estraneità, per spiazzarti.

Una delle tecniche che usa, è cambiare il tempo verbale all’interno dello stesso paragrafo, dal presente al passato e viceversa. Poi ci sono tante voci diverse, ognuna che parla col suo timbro, e molte sono straniere, con le proprie sgrammaticature. È quasi un romanzo corale, ma con voci diversissime tra loro, e sebbene non partecipino tutte a raccontare la stessa storia, sono tutte legate da un filo rosso di violenza. E poi, ci sono le citazioni, dalla canzonetta pop a Shakesperare.

Insomma, un romanzo che tiene alta l’attenzione facendola andare di qua e di là come vuole lui.

Mi sono accorta di quanto sia brava l’autrice quando ho visto come ha caratterizzato Vlad: ce lo ha fatto conoscere con gli occhi della cittadina di Cloonoila, incuriosendoci quando si incuriosivano i suoi abitanti, ma anche spaventandoci e ammaliandoci come capitava a loro. Poi lo shock della scoperta è quasi subitaneo, sebbene, prima, l’autrice avesse già sparso degli indizi sulla versa personalità di questo straniero.

Merita di esser letto. Ti fa capire come sia difficile capire le persone.

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Ritorno dall’India – Abraham B. Yehoshua

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Consiglierei la lettura di questo romanzo? Non posso rispondere con un sì secco.

La storia si svolge in un paio di anni. Benji Rubin, un giovane chirurgo di neanche trent’anni parte per l’India con una coppia: lui è il direttore amministrativo dell’ospedale, lei un’avvocatessa. Entrambi sono attorno alla cinquantina e sovrappeso. Lo scopo del viaggio è andare a prendere la figlia dei due, che si è ammalata di epatite.

Il giovane si innamora, e neanche lui capisce come, di Dorit, la donna, che, pur legatissima al marito, ci sta. Poi il dottorino si sposa, perché Dorit ha detto che uno scapolo è… pericoloso (boh). Nasce una figlia. Ma la mogliettina è anche lei innamorata dell’India, e alla fine ci torna, con la bambina piccola. Ah, nel frattempo muore il marito di Dorit.

Benji e la moglie si mettono in testa che l’anima del marito di Dorit è trasmigrata nel corpo del giovane medico.

Come finisce? Che la madre di Benji all’improvviso parte, da sola, per l’India, e va a riprendersi la nipotina, perché è preoccupata che non sia il posto più salubre del mondo per una bambina così piccola. E nel frattempo, Dorit dice a Benji che non vuole un amante e che vuole imparare a vivere da sola.

La storia in sé mi lascia un po’ perplessa, nel senso che mi sto ancora chiedendo il senso profondo. Si parla di mistero? Di morte? Di ritorno in senso lato? Forse tutto ciò insieme.

La vicenda è narrata molto nei dettagli, sia quelli psicologici (cosa pensa Benji, che parla in prima persona) che ambientali. E molti capitoli hanno delle introduzioni visionarie in corsivo, ma non chiedetemi… che cavolo simbolizzano!

Però devo ammettere che questo scandagliare profondo nei pensieri di Benji Rubin mi ha davvero dato l’impressione di trovarmi nella testa di un’altra persona e di stare in Israele ed India per la durata della lettura. Per quanto creda di non aver raggiunto il cuore del romanzo, mi sento comunque arricchita, come quando fai una bella chiacchierata con qualcuno, una di quelle chiacchierate in cui ascolti e sei ascoltata, nessuno ti interrompe e ti pare di aver compreso una persona al di fuori di te.

 

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Saggezza

imageTratto da “Cicerone voce di Roma” di Taylor Caldwell….

 

come possiamo dare torto alla saggia madre di Cicerone?

 

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