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Gli anni della leggerezza (Elizabeth Jane Howard) @FaziEditore

Sussex, 1937. La famiglia Cazalet, come ogni anno, si riunisce nella casa di campagna dei capistipite, il generale e la duchessa.

Ci sono quattro figli: Hugh, il più vecchio, tornato dalla prima guerra mondiale senza la mano sinistra e con dei ricorrenti mal di testa; è sposato con Sybil, che è incinta, e hanno due figli.

Il secondo figlio è Edward: bello e affascinante, è sposato con Villy, ma ha una serie di amichette segrete, mentre la moglie si chiede in continuazione se ha fatto bene ad abbandonare la sua carriera da ballerina per dedicarsi al marito e ai figli.

Poi c’è Rachel, nubile, che vive con i genitori, ma che ama la sua amica Sid, un rapporto che è necessariamente tenuto nascosto a tutti.

Infine c’è Rupert, il più giovane e giocoso, vedovo e risposato con la giovanissima Zoe, che fatica a inserirsi nella famiglia e che è totalmente dedita alla propria bellezza.

Il generale, senza star tanto a parlarne, inizia a costruire e preparare alloggi per orfani e feriti di guerra, e tutta la famiglia è coinvolta nei lavori, sebbene i più giovani si dedichino anche ai loro svaghi estivi.

Le donne del romanzo sono come ci si aspetta siano le donne dell’epoca vittoriana: lavorano a maglia, organizzano la servitù, si preoccupano dell’entrata in società delle figlie e delle scuole dei figli. Non ci si aspetta da loro che provino desideri di carriera o che si interessino di politica.

Eppure desideri e curiosità inespresse covano sempre sotto l’aspetto esteriore.

Viene dato molto spazio ai più piccoli, alle loro litigate, alle loro domande e ai loro crucci: da Polly, la figlia di Hugh, che ha paura della guerra e non vuol sentirne parlare, a Louise che, un po’ più grande, si trova al centro di un’attenzione malsana da parte del padre, Edward.

Molti sentimenti e sensazioni, però, ci sono descritti dalla Howard senza che i protagonisti li esternino: non va bene piangere in pubblico, né parlar male di qualcuno, tanto meno nominare bisogni fisiologici; il sesso, poi, è un tabù che genera più curiosità che rassegnazione.

Un bel romanzo che ci presenta tante psicologie diverse.

E mi chiedo: la situazione della donna media è davvero tanto diversa oggi?

Quanta fatica fa ad affermarsi l’idea che il cognome della madre abbia la stessa dignità di quello del padre, ad esempio?

La necessità del cognome unico (paterno) viene giustificata ricorrendo alla praticità, alla tradizione, alla semplicità… e non ci si rende conto che la parità dei diritti passa anche attraverso la parola (anzi, spesso sono le donne a non rendersene conto).

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Conoscere una donna – Amos Oz

Dunque, dunque, dunque…

Se dovessi limitarmi alla trama, sarebbe questa: Yoel, che lavora nei servizi segreti, perde la moglie per un incidente, e fatica a riprendersi.

253 pagine così.

In realtà il mestiere di Amoz Oz va sempre al di là degli accadimenti esteriori. Il suo è un continuo scandaglio interiore, in questo caso, sui dubbi (lievi) di Yoel circa il rapporto tra la moglie e il vicino di casa che è morto nello stesso incidente, e sui suoi tentennamenti per avvicinarsi alla figlia Neta, che soffre di epilessia (forse).

Tutto è sfumato: i sentimenti, i dialoghi, il lavoro, il rapporto coi vicini.

I dialoghi non hanno né capo né coda: non seguono un filo logico di domande e risposte, si interrompono, svicolano, sbandano con argomenti che non c’entrano nulla con la questione iniziale. E alla fine, il nodo centrale resta intatto: sono dialoghi che non “risolvono” né consolano.

Il lavoro di Yoel – che lui abbandona per seguire meglio la figlia, dice (ma è vero? La segue, la figlia, in queste 253 pagine?) – ci resta oscuro: non ha nulla a che fare con l’idea cinematografica della spia israeliana. Ci scappa un morto, è vero, ma le circostanze non vengono mai chiarite.

Il rapporto coi vicini americani è quello più frustrante: sono fratello e sorella. Il fratello mette praticamente Yoel nel letto della sorella, e a volte, forse, assiste. La cosa non viene commentata, e se ci si chiede se c’è qualche amore o qualche tipo di sentimento tra lui e la donna, la questione viene buttata là, quasi fosse senza importanza, quasi come se la donna fosse una figura di carta, senza spessore. Yoel non si pone alcuna remora morale.

In tutta questa nebbia, Yoel si accorge che manca qualcosa. La cerca, a volte gli sembra di avvicinarsi, ma gli fanno “male gli occhi” per lo sforzo. Eppure lui è un agente dei servizi israeliani, dovrebbe intendersene di segreti e dei modi per farli venire a galla.

Niente, non ci riesce.

Verso la fine del libro, sembra abbandonare la sua inattività (per tutto il romanzo non fa altro che dedicarsi al giardinaggio e ai lavoretti casalinghi) per darsi al volontariato in un ospedale; ma anche qui, non si capisce se lo fa per rientrare nel mondo, per provarci con le colleghe o per reale interesse nei valori del volontariato.

Insomma: non solo non si può conoscere una donna ma neanche se stessi, e neanche il resto del mondo.

Non si può conoscere niente.

A meno che, il messaggio non sia: accettiamo quello che ci arriva.

In tal caso, l’epopea passiva di Yoel potrebbe avere un senso.

Certo è che un messaggio del genere si poteva far passare con un romanzo più appassionante.

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Il senso di una fine, Julian Barnes @CasaLettori

Perché nessuno mi ha mai parlato di Julian Barnes?

Questo scrittore è bravissimo!

“Il senso di una fine” unisce il racconto di una bella storia a tutta una serie di piccole e grandi riflessioni su una marea di argomenti: il rapporto tra gioventù e vecchiaia, la memoria, la storia singolare e la Grande Storia, il tempo che può tornare indietro quando si aggancia ai ricordi, l’inconoscibilità del passato e delle persone…

La prima parte del libro racconta la gioventù di Tony Webster e della sua amicizia con Adrian, ragazzo intelligentissimo e, sotto certi aspetti, misterioso, con un senso della vita tutto suo, improntato alla filosofia e alla storia.

Eppure… eppure Adrian, che nel frattempo si era fidanzato insieme a Veronica, l’ex fidanzata di Tony, si suicida.

Fioccano le teorie sulle ragioni del gesto. Secondo alcuni, era troppo intelligente per vivere; secondo altri, ha portato all’estremo limite la sua teoria filosofica sulla vita.

La seconda parte del libro inizia con una lettera che comunica a Tony di esser stato nominato erede di 500 Sterline e di un documento. E da chi arriva questa eredità?

Il finale è spiazzante (anche se devo dire che qualche sospetto sulla madre di Veronica mi era venuto).

Al di là dell’antipatia che mi ha ispirato Veronica, la giovane fidanzata del protagonista (va bene fare la misteriosa, ma ad un certo punto bisogna anche spiegarsi!), i personaggi sono intriganti e hanno così tante sfaccettature che non puoi non immedesimarsi in una di queste.

E ora… alla ricerca di altri libri di Julian Barnes!

Più impari, meno temi. “Imparare” non in termini di studio accademico, ma di comprensione effettiva della vita.

Dobbiamo conoscere la storia di chi scrive la storia, se vogliamo comprendere la versione degli eventi che ci viene proposta.

 

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Sulla collina nera – Bruce Chatwin

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Ho iniziato a leggerlo perché nella biografia di Rushdie, Joseph Anton, l’autore diceva che questo è il romanzo migliore di Chatwin. Ed infatti è stupendo.

E’ la storia, ambientata in Galles, di due gemelli del secolo scorso, dalla nascita alla morte di uno dei due, ed è piena di personaggi delineati benissimo: ti sembra di averceli come vicini di casa, ti arrabbi quando ti ammazzano una pecora e ti dispiace quando gli crolla la baracca sulla testa.

Non ho molto da dire, perché ogni parola sarebbe un di più: leggetelo. Bello, bello, bello. Posso permettermi di consigliarvene l’acquisto sul link affiliato Amazon qui.

Sto anche leggendo “In Patagonia”, che però non mi prende come il romanzo sopra. Lo trovo spezzettato nello stile, non ci trovo un filo che leghi i vari momenti del viaggio. Non so, aspetto di finirlo e vi dirò.

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Due libri di scrittrici italiane… Gamberale e Parrella

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Scrivo dei due libri insieme perché il livello di gradimento è molto simile: diciamo che se fra un paio di anni li trovo sulla bancarella di un mercatino dell’usato, mi chiederò “ma questi li ho letti?”

Tra i due, la Gamberale è quella più leggibile ed ironica: la solita trentenne in crisi perché perde ragazzo e lavoro e che va in terapia. Come cura, la psicanalista la invita a fare dieci minuti di una cosa nuova al giorno. Scordatevi grandi cose: si rimane nell’ambito del verosimile, dunque si va dal rubare una cavolata al supermercato, al camminare all’indietro in città, al cucinare un pancake. Quello che trovo meno verosimile è l’ammasso di personaggi: sembra che la protagonista li conosca tutti lei i tipi strambi. Oppure sono persone come quelle che conosciamo tutti, ma descritti in maniera esagerata, come per colpire il lettore.

Ah, dimenticavo: quando la tipa guarisce, si accorge che riesce a scrivere un romanzo e che non è più artisticamente bloccata. Anche qui, mi pare un dejà vu di molti altre storie.

Con la Parrella, l’argomento è molto meno ironico: Maria, un’insegnante di Napoli che insegna agli adulti di un corso serale, ha partorito una bambina che però resta in incubatrice perché non si sa se ce la farà. Non c’è né marito né compagno, superfluo e fatto fuori. Ma di cosa parla? Dello spazio bianco. Del periodo di vuoto che Maria vive nell’attesa. Certo, non è facile parlare dell’attesa, della mancanza di qualcosa che non si sa ancora se manca perché in realtà non ce l’abbiamo mai avuta. E certo l’autrice scrive bene. Ma non chiedetemi cosa ha scritto, perché non è riassumibile. In realtà non succede niente…

Ma sapete che c’è sempre qualcosa che vale sempre la pena leggere nei libri, anche in quelli che un giorno dimenticherò. Nel caso della Parrella, vi lascio questo stralcio:

Durante la settimana il solo aprire il giornale, riuscire a connettere un titolo con qualcosa di reale, che pure stava accadendo, trovare in cartellone il nome di un film francese: solo questo mi accendeva una bolla di tranquillità, per un attimo, nel petto.

Non so voi, ma a me a volte capita di attraversare momenti di scazzamento da cui non so uscire: di solito si tratta di rogne sul lavoro che mi seguono a casa come l’ombra. Soluzioni non ne vedo, inutile stressare parenti e amici raccontando i dettagli dei problemi, perché tanto finchè non li vivono non li capiscono, nervoso che si autoalimenta perché non riesco a pensare ad altro e poi… leggo una frase o vedo una finestra aperta nella casa di sconosciuti, e mi ricordo che i momenti di scazzamento sono solo questo: momenti. Ben identificabili nel tempo e nello spazio. E non sono così per tutti. E non saranno così per sempre.

Fantastico.

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