
Prima di tutto, lasciatemi dare un consiglio alla Longanesi: per favore, non usate foto di copertina che non c’entrano un cavolo con la storia del libro. Si creano delle aspettative sbagliate; e poi, indipendentemente da come è il libro, se il risultato si discosta dalle aspettative subentra la delusione. Ci tengo a sottolineare che questo romanzo l’ho letto tutto, non l’ho sospeso come faccio con quelli che non mi coinvolgono, ma mi metto nei panni di un lettore giovane, che prende il volume perché ci vede la foto di una ragazzina sopra e crede di incontrare almeno un personaggio con cui poter identificarsi per vicinanza di età…
Copertina a parte, passiamo al romanzo.
Inizia in Marocco, con la scoperta di una fossa comune in cui il protagonista Victor Monteoscuro trova una lettera in una bottiglia. Se la porta via di nascosto e decide di consegnarla alla destinataria, Noelia, anzi, meglio, ai suoi discendenti, visto che si tratta della lettera scritta dal suo innamorato nel 1921, durante l’assedio di un piccolo drappello di soldati spagnoli da parte dei belligeranti locali.
La ricerca non è facile, perché il paese in cui viveva la destinataria della lettera non esiste più e, con la guerra civile di mezzo, alcuni nomi sono stati cambiati, ma con l’aiuto di Giulia Navarro, una militare di cui si innamora, Viktor riuscirà alla fine a scovare i nipoti e i bisnipoti del capitano Gimeno.
Si arriva alla fine del libro perché si vuole “vedere” il figlio di Noelia, ma lasciatemi fare alcune critiche ai difetti che non ho potuto fare a meno di notare.
Intanto: Giulia Navarro ad un certo punto del romanzo, a relazione già iniziata con Viktor, gli dice che non lo vuole nella sua vita, facendogli capire che insieme stanno bene ma che non vuole relazioni fisse. Dopo un paio di capitoli, si legge:
Uscimmo dal ristorante consapevoli che la nostra relazione sarebbe andata ben oltre i limiti imposti dal mese di ferie di Claudia.
E questo cambio di idea da dove nasce, da una semplice chiacchierata al ristorante? Troppo repentino.
Poi: secondo me si doveva dire fin dall’inizio cosa ci fa Viktor in Marocco. Si è preso un congedo di un anno perché deve riprendersi dalla morte della moglie. Se manca questa informazione, lui davanti alla fossa comune sembra un semplice curioso che si porta via un souvenir.
Poi: questa Giulia Navarro ad un certo punto si mette a discettare sulla storia della Spagna e delle sue conquiste coloniali con tanto di nomi e date che farebbe concorrenza alla relazione di un professore universitario. Mi domando: è credibile?
Poi: Viktor è un medico e si dilunga spesso sui dilemmi etici della sua professione, soprattutto in merito al fine-vita. Ho trovato tutte queste parti troppo parallele alla storia principale: non si intersecavano con la vicenda di Gimeno e Noelia. Potevano essere interessanti, ma non intervenivano a mandare avanti la storia.
Infine: Viktor, il protagonista, è un medico. L’autore Gramaje è un medico. E giuro, non ho mai trovato un libro in cui si fumi così tanto! Forse solo in “La coscienza di Zeno”, dove però lo si definiva chiaramente come vizio e si cercava di combatterlo. Qui in ogni capitolo c’è qualcuno che fuma, offre o prende in prestito sigarette. Davvero: sembra un romanzo foraggiato dall’industria del fumo! Lasciatemi sfogare: questo Gramaje deve solo vergognarsene. Non si può parlare delle belle sensazioni che ti dà una sigaretta dopo un certo avvenimento; non mi interessa che un romanzo deve dirti le cose come stanno e non come dovrebbero essere. Non raccontatemi che i gialli parlano di omicidi e ciononostante non incitano all’omicidio: c’è una bella differenza. Nei film contemporanei le sigarette sono quasi sparite, eppure si continua a fare bei film. Vogliamo finirla col fumo? Che schifo.