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Cani selvaggi (Helen Humphreys)

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Non conoscevo questa autrice canadese: ve la consiglio!!

L’espediente narrativo che ha usato in questo libro è di mettere insieme sei persone, molto diverse l’una dall’altra, ma tutte con un problema comune: ognuna di loro ha perso il proprio cane (scappato o abbandonato), che si è unito a un gruppo di cani selvatici nel bosco.

Tutti noi abbiamo paura delle persone con cui viviamo, di quelle che hanno dato via i nostri cani. Se non avessimo paura di loro, loro non avrebbero avuto l’autorità di fare ciò che hanno fatto.

Ogni sera, allora, si trovano tutti e sei ai margini del bosco e ognuno chiama il proprio cane.

La storia è raccontata da diversi punti di vista.

Incomincia Alice, che si è innamorata della biologa del gruppo.

Poi c’è Jamie, un adolescente che cerca di crescere prima del tempo avvicinandosi ad amicizie poco raccomandabili per dimenticare la situazione che lo aspetta a casa.

C’è Lily, una ragazza con dei problemi intellettivi causati da un incidente

Parla anche Spencer, che non appartiene al gruppo, ma che sarà fortemente toccato dal destino di Lily (destino causato da lui, ma non faccio spoiler).

Un altro punto di vista è quello di Malcom: anche lui ogni sera va a chiamare il suo cane, e siccome Alice ha appena mollato il suo ragazzo ed è rimasta senza casa, le offre di dormire nel suo capanno. Ma anche Malcom ha dei problemi mentali..

Al di là della vicenda che li unisce, l’autrice affronta vari temi.

In un rapporto di coppia (o cane-padrone) bisogna fidarsi o bisogna mantenere un certo grado di paura?

Perché i cani se ne sono andati e cosa li trattiene nel bosco? Sono cambiati rispetto a quello che erano una volta o sono diventati quelli che erano già? E questo succede anche alle persone?

Non riuscivamo ad immaginare un mondo per loro del quale noi non fossimo il centro.

Credo che i cani siano una metafora della vita: sono addomesticati, vivono delle nostre abitudini, e poi all’improvviso cambiano. Sono diventati selvaggi o lo sono sempre stati, in realtà? E noi siamo addomesticati del tutto o possiamo ancora cambiare?

E’ un romanzo davvero pieno di riflessioni che ognuno può adattare a se stesso.

5 Stelle su 5.

L’acqua ha sempre qualcosa da fare. Dà sempre l’idea di avere un posto importante dove andare. Anch’io vorrei sentirmi così.

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Musica (Yukio Mishima) @Feltrinellied

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Ho bisogno che qualcuno mi sveli il significato di questo libro…

E’ incentrato sul trattamento psicanalitico di una bellissima ragazza, Reiko, che dice di non sentire la “musica”, quando in realtà intende di non riuscire a provare desiderio/piacere sessuale.

E’ una ragazza che ha letto un po’ di psicologia da rivista e che lo psicanalista, che racconta in prima persona, definisce isterica: tutto quello che dice è da lei interpretato in chiave sessuale facendo spesso riferimento ai suoi sogni e al suo passato.

Ma quasi niente di quello che racconta è vero: dopo poche pagine ammette di essersi inventata tutto.

La costruzione del romanzo è quasi da giallo: lo psicanalista indaga nella psiche di Reiko per scoprire quale è il nodo del suo problema. E lo trovano, questo nodo, quando trovano il fratello perduto della ragazza.

Ma… possibile che Mishima volesse parlarci solo di sessualità, frigidità, psicanalisi?

O non è forse la musica una metafora per la più degna “gioia di vivere”? Il dubbio mi è venuto quando ho letto due episodi in cui Reiko ha effettivamente sentito la “musica”, ma si trattava di beatitudine, di felicità, forse: in un caso assisteva un cugino terminale e nell’altro consolava un ragazzo che voleva suicidarsi a causa della sua impotenza.

O, forse, non è che Mishima volesse parlarci dell’insondabilità della natura umana? Dell’impossibilità di catturare con un processo razionale (la psicanalisi) un processo inconoscibile come la mente umana?

Poi però, nel vari episodi del romanzo, si torna sempre alla sessualità, e le mie teorie e i miei tentativi di assolutizzare la trama, si spiaccicano come mosche sul parabrezza.

Davvero: “Musica” è giudicato uno dei libri migliori di Mishima. ma… perché?

Non credo di averlo capito.

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Scoprire l’assassino…? @LibriCorbaccio

Ho sempre invidiato i lettori che dicono frasi del tipo “ho scoperto l’assassino già quando ero a pagina 4”. Io, se non me lo dice l’autore, l’assassino non lo scopro mai!

In realtà non sono neanche una grande fan dei polizieschi: li leggo più per la loro ambientazione che per la voglia di mettere in gioco le mie capacità divinatorie. Questa volta, ad esempio, avevo voglia di stare per un po’ sulle coste inglesi: pioggia, rocce, pecore, fattorie isolate.

NOBODY – CHARLOTTE LINK

Nobody in realtà si chiama Brian: è un bambino rimasto completamente solo al mondo e durante i bombardamenti tedeschi su Londra, nella confusione materiale e burocratica, si attacca, letteralmente, a Fiona, una bambina spedita in campagna per sottrarla al pericolo (piccola digressione: il trasferimento dei bambini nelle campagne è stata un’operazione ad ampio raggio, organizzata dal governo, per preservare le giovani generazioni: lode agli inglesi).

Ma Brian ha enormi difficoltà intellettuali: fa fatica a parlare e non capisce quello che gli viene detto. Fiona non lo sopporta: ha altri problemi per la testa. Idem per Chad, il ragazzo di cui lei si innamora, e che sogna di andare a combattere Hitler sul continente.

Questo succede negli anni Quaranta.

2008, stessi luoghi: Fiona e Chad sono ormai anziani. Lui è misantropo, lei è inacidita. E in paese avviene un omicidio. Una giovane viene barbaramente uccisa.

Pochi mesi dopo, anche Fiona viene uccisa con modalità apparentemente simili.

Ci sono molti personaggi, nel libro, ognuno col suo bagaglio di passato malato: perché non c’è nessuno che si salvi (come al solito, dovrei dire, nei romanzi polizieschi). Tutti hanno qualcosa da nascondere: è un aspetto che trovo sempre poco realista, nei gialli. La gente non è così: ad un certo punto, se non altro per stanchezza, la verità la devi dire.

Ma vabbè… non mi dispiace leggere del divorzio di Leslie, la nipote di Fiona; soprattutto non mi dispiace leggere di Gwen, l’insignificante figlia di Chad: ai limiti della bruttezza, non ha nessun tipo di formazione, né interesse, né capacità. Eppure, riesce a fidanzarsi col misterioso (e spiantato) Dave, bello e colto. Si capisce subito che lui è interessato solo alla sua fattoria…

Ecco: Gwen è un personaggio realista (salvo le ultime tre pagine). Tante donne sono un po’ Gwen… Se leggerete il libro, capirete. Perché attorno a lei gira anche tutta la storia: attorno alla sua insignificanza, ma anche alla scarsa volontà di aiutarla di chi le sta attorno. In fondo, non ci interessiamo mai davvero a certe persone.

Comunque, torniamo al libro: si legge in un battibaleno. Nonostante la predisposizione anglosassone agli alcolici (ma cavolo, sono tutti che bevono o che pensano a bere…), i dialoghi standardizzati (anche il pecoraio, con tutto il rispetto, parla come un libro stampato) e l’inverosimiglianza di un diario virtuale inviato via mail da una settantenne a un ottantenne, io l’ho letto volentieri.

Si legge in un battibaleno perché comunque la Link conosce le tecniche narrative, bisogna dargliene atto, e le si perdonano anche le ripetizioni e le prevedibilità.

Leggetelo, quest’estate. E ricordatevi: siamo tutte un po’ Gwen.


PS: forse ho comunque scoperto un modo per capire chi è l’assassino. Nei libri come questo, dove il punto di vista cambia da un personaggio all’altro, se fate attenzione, ci sono sempre uno o due personaggi il cui punto di vista non viene mai espresso… bum!

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Chesil Beach – Ian McEwan

Ottimo romanzo psicologico.

La prima scena si apre nel 1962 in una suite nuziale, in un albergo sulla spiaggia inglese di Chesil Beach.

Florence ed Edward, ventiduenni, entrambi vergini, si sono sposati poche ore prima e ora stanno timidamente mangiando un pasto di cui non interessa nulla a nessuno dei due.

Con sapienti cambi del punto di vista, McEwan ci mostra le paure dell’uno e dell’altra di fronte all’evento che li aspetta nella camera accanto, dove il letto matrimoniale incombe con il suo baldacchino.

Edward ha atteso questo momento con trepidazione (è stato addirittura capace di astenersi dal “piacere solitario” per una settimana!), ma ora la sua paura principale è quella di “concludere troppo in fretta”. Florence, invece, è terrorizzata: il contatto fisico non le è mai interessato, non le piace il bacio alla francese e l’atto sessuale in sé, di cui ha letto in un libro considerato, ai tempi, moderno, la ripugna.

Eppure si amano. Si amano a dispetto delle loro personalità così diverse, che impariamo a conoscere nei lunghi flash-back: Florence, di famiglia ricca, vive per il violino e la musica classica, di cui a Edward, amante del rock, non interessa un fico secco, se non per compiacere la sua compagna. Edward viene da una famiglia modesta e problematica, con una madre che, in seguito a una caduta, ha problemi comportamentali e di memoria.

Le parte del libro in cui McEwan ci mostra le case dei protagonisti è emblematica delle differenze tra i due. Ma la distanza di mentalità ed esperienze è ancora più evidente quando Edward, ospite dei futuri suoceri, deve mangiare cibi che non ha mai assaggiato né visto:

Quell’estate assaggiò per la prima volta l’insalata condita con olio e limone e, una mattina, lo yogurt (alimento fiabesco a lui noto soltanto dalla lettura di un romanzo di James Bond). La modesta cucina del padre e il regime a base di pasticcio di carne e patate dei suoi anni studenteschi non l’avevano di certo preparato per le stravaganti verdure – melanzane, peperoni sia verdi sia rossi, zucchine e taccole – che gli venivano regolarmente proposte.

Insomma, ve lo immaginate lo yogurt… fiabesco? E le melanzane… stravaganti?

Ma la notte di nozze incombe e la cena arriva alla fine. Devono decidersi a compiere… l’atto!

Ovviamente, con due tipi così, le paure di Edward diventano realtà.

E qui scoppia il dramma: entriamo nella testa prima dell’uno e poi dell’altra e vediamo come cambiano le loro emozioni, come la paura lascia il posto alla vergogna e alla rabbia, come l’incapacità di parlarsi li induce a ragionamenti che ingigantiscono e travisano i fatti realmente accaduti.

Però il romanzo è ben costruito: l’epilogo finale non poteva essere diverso.

Il tema chiave della storia è l’incomunicabilità dettata dai tempi, tuttavia, l’elemento psicologico individuale non cessa mai di svolgere il proprio ruolo: in fondo, non tutte le coppie che si sono sposate nel 1962 sono finite come Edward e Florence!

Mi piace molto McEwan: anche questo romanzo, al di là della storia e del tema, ci illumina all’improvviso con frasi quasi… confuciane, nella loro saggezza e brevità:

Ecco come il corso di tutta una vita può dipendere… dal non fare qualcosa.

E poi ci sono quelle frasi in cui, con poche parole, ti condensa tutto il libro:

Si conoscevano pochissimo, e non avrebbero fatto grandi progressi in tal senso data l’imbottitura di premuroso silenzio con cui smussavano le rispettive identità.

Romanzo introspettivo con pochi dialoghi e accadimenti, ma la sua ricchezza va cercata altrove.

Voto: 4/5.

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La trama della vita – Jerome Kagan

Genetica o ambiente?

Ecco di cosa tratta questo saggio di Kagan. Genetica e ambiente sono due fili che si intrecciano fino a dar vita a un tessuto il cui colore è una cosa diversa da quello dei fili che lo compongono: i fili possono essere bianchi e neri, ma il tessuto finale sarà grigio. Ecco perché è così difficile capire da cosa derivano alcuni tratti del nostro carattere: perché predisposizione e cultura sono così ben intrecciati tra loro da perdere la loro identità originaria.

L’influenza dell’ambiente comincia a farsi sentire già dentro alla pancia della mamma:

(…) alcune madri canadesi che nel 1998 erano state esposte a una violenta tempesta di ghiaccio quando si trovavano nel secondo trimestre di gravidanza ebbero maggior probabilità di dare alla luce bambini che presentavano impronte digitali diverse sulle dita corrispondenti delle due mani: un segno di sviluppo disturbato che si riscontra con frequenza in adulti affetti da schizofrenia.

Ma non tutti quei bambini sono diventati schizofrenici da adulti!! (Per la cronaca, la differenza nelle impronte digitali delle due mani ce l’ho pure io…)

La predisposizione però, sebbene non ci possa aiutare nel prevedere come si svilupperà un certo bambino, ci può dire con un buon grado di certezza cosa quel bambino NON diventerà: è raro, se non impossibile, che una personalità sensibile e ipereccitabile (carattere dovuto a una certa conformazione del cervello presente fin dalla nascita) da adulto diventi estroversa ed espansiva.

Kagan scende molto nel dettaglio dell’analisi sia dei fattori genetici (tipi temperamentali, segni biologici, reattività), sia dei fattori ambientali (pedigree familiare, ordine di nascita tra fratelli, classe sociale, etnia, dimensioni della comunità, periodo storico, sesso…).

Vi dirò: per i miei scopi, è sceso anche troppo nel dettaglio. Nonostante alcuni paragrafi fossero interessanti, e anche se ho apprezzato molto i suoi commenti sull’impossibilità di sfruttare la scienza per indirizzare moralmente certe scelte, alla fine il succo di tutto è che genetica e ambiente si mescolano, si mescolano, si mescolano.

Un colpo al cuore me l’ha l’epigenetica: certi eventi significativi nella vita di una persona possono modificare l’espressione genica. E i geni così modificati possono essere trasmessi alla prole.

Dunque, mai dare niente per scontato.

Niente è immodificabile (buddhismo a manetta).

Questo ci dà sempre speranza, ma anche più responsabilità.

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Eppure cadiamo felici, @Enricogaliano @garzantilibri

E poi dicono che la macchina del tempo non esiste…

Sì, che esiste, basta leggere un libro ben scritto che ti fa rimettere nei panni che indossavi a 15, 16, 17 anni. E’ quello che ha fatto Galiano, e se è stato inserito nella lista dei migliori insegnanti nel 2015, un motivo c’è: sa capire il casino che regna nella testa degli adolescenti. Ve lo ricordate? Io pensavo di essermelo dimenticato, e invece è ancora tutto là nella mia testa, mi è bastato leggere questo romanzo per rievocarlo.

C’erano passaggi in cui mi sembrava che stesse raccontando la mia storia. Non tanto negli eventi vissuti dalla protagonista, ma nelle sensazioni descritte.

La confusione.

L’incapacità di dare un nome a certi stati d’animo.

La paura dell’esclusione.

Il bisogno di mettere tutto in dubbio.

Se c’è una cosa in cui ho trovato poco verosimile il libro, è che Gioia, la protagonista, fino ai diciassette anni non si è ancora interessata ai maschi, non ci ha ancora pensato. Prendersi una cotta a 17 anni è un po’ tardino, per gli adolescenti contemporanei, anche se Gioia è un po’… alternativa.

E’ comunque un libro molto bello: ad un certo punto sfiora il genere thriller, ti fa venire mille dubbi su quello che credi di aver intuito, perché non capisci più se tra Gioia e Lo è stato vero amore o se Lo ha dei problemi grossi…

E poi… Alzi la mano chi non si è sentito così:

Il brutto della faccenda è che è praticamente scritto che oggi, quando sarà a casa, quando ormai sarà troppo tardi, le verrà fuori preciso e perfetto il discorso che avrebbe dovuto fare alla Batta e alle sue amiche per spegnerle definitivamente.

Oppure, ditemi se non concordate in pieno con questa frase:

Il migliore dei mondi possibili è quello dove nessuno ha bisogno di tradurre sé stesso, per farsi capire dagli altri.

Ecco cos’è questo libro: una DeLorean.

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Le lacrime di Nietzsche, Irvin D. Yalom @NeriPozza

Bel libro: mi sento di suggerirlo a tutti gli amanti dei romanzi, non solo a chi si interessa di psicanalisi e filosofia.

Yalom, psichiatra e scrittore, parte dai dati anagrafici, reali, di personaggi storici (Nietzsche, Lou Salomè, Breuer, Sigmund Freud…) per farne un romanzo di fantasia, ma senza mai allontanarsi dalla verosimiglianza dei caratteri per quanto se ne può trarre da testi e testimonianze scritte; tranne forse nel caso di Lou Salomè, che difficilmente si sarebbe sentita in colpa per aver rifiutato di sposare Nietzsche, almeno al punto da ricorrere a un medico per aiutarlo. Ma non c’è rischio di confondere fantasia e realtà, perché l’autore alla fine ci spiega cosa ha inventato e cosa no.

Le malattie (o la malattia) di Nietzsche sono un mistero clinico difficile da svelare. Breuer, nel romanzo, dandone un’interpretazione, quasi giunge a una forma di guarigione: e se non ci giunge del tutto, questo dipende da Nietzsche. Ma non posso dirvi di più, altrimenti svelo troppo.

Quello che posso dire, è che nel romanzo è ben delineata l’amicizia che nasce tra il filosofo e il medico, nonostante i blocchi emotivi di entrambi; e sebbene il rapporto medico-paziente venga rivisto in modo originale – ribaltato, direi –  alla fine entrambi riescono a imparare qualcosa su se stesso e sull’altro. Merito della logoterapia, la terapia della parola, che riesce non sono a creare un’amicizia, ma anche a farci conoscere personaggi storici nel loro carattere, nei loro pregi e difetti (perché, diciamolo, Nietzsche aveva dei problemi con le donne…).

L’insegnamento generale che ne ho ottenuto, però, non è tanto nozionistico: non gira attorno alla storia del pensiero o della filosofia. L’insegnamento che si ottiene da questo libro è che nella solitudine non si guarisce.

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Io sono vivo, voi siete morti – Emmanuel Carrère @HobbyWork

Un viaggio nella mente di Philip K. Dick

Philip K. Dick è l’autore di fantascienza che ha scritto “Ma gli androidi sognano pecore elettriche?” da cui è stato tratto il film Blade Runner di Ridley Scott (mentre da Valis, un altro suo libro, è stato tratto Total Recall, con Schwarzenegger).

Ve lo dico subito: se siete alla ricerca di dettagli biografici su Dick, meglio rivolgersi ad altre biografie, come quella di Lawrence Sutin o quella di Anne R. Dick, perché questa di cui parlo ora si concentra, davvero, sulla mente di Philip K. Dick. Che era un paranoico. Ma non è un modo di dire. Era un paranoico, malato, con tanto di ricoveri in strutture specializzate.

Fin dai quattordici anni è stato un assiduo frequentatore degli studi degli psicologi/psichiatri/psicanalisti, e poi ci ha dato dentro con medicinali di tutti i tipi. Era ossessionato dall’idea di venir spiato (dall’FBI, dalla CIA, dai russi, dai romani!) o, peggio, che la sua vita fosse una vita fasulla, di copertura, alla Matrix, per intenderci. Vedeva possibili nemici in tutti, ma alternava periodi di paura folle ad altri in cui si attorniava di amici (ehm… devo ammettere che di gente normale ne ho trovata poca: quando andava bene, erano drogati).

Ha avuto una sfilza di mogli con relativi figli, ma quasi ogni donna dopo un po’ non ce la faceva più e lo lasciava. Era un consumatore compulsivo di anfetamine, che gli servivano per produrre romanzi a più non posso (era capace di finirne uno in due settimane). Ogni tanto aveva le visioni: un occhio gigante che ti osserva dal cielo, una farmacista che si presenta alla porta e che, secondo lui, è l’inviata di una setta di cristiani sopravvissuti al massacro dei romani…). Era ossessionato dall’idea della sorella Jane, sua gemella, morta dopo quaranta giorni dalla nascita, perché sua madre non aveva abbastanza latte e non sapeva che si poteva nutrirla col latte artificiale (!!).

Ma è stato un fuori di testa nel periodo giusto, gli anni Sessanta. Ora è riconosciuto come autore mainstream (cioè non più scrittore di seconda qualità, ma avente diritto ad entrare nel novero degli artisti “seri”), e ci sono molti fanclub e gruppi che si uniscono in suo nome.

Non ho letto niente di Dick. Paul M. Sammon dice che era un bravo autore; Carrère non si sbilancia molto. Di sicuro era un visionario, che, tra le tante visioni, ne ha imbroccate alcune. Ma di lui capisco la ricerca di senso: e se un senso non c’è, allora, si inventa, ricorrendo alla paranoia o alla religione.

Umano, a suo modo.

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Il giro del miele, Sandro Campani @Einaudieditore

Quando un libro scritto bene non mi piace, mi chiedo e mi richiedo il perché.

Nel caso specifico, la ragione può essere che, essendo scritto bene, i protagonisti risultano quasi veri, coi loro pregi e difetti. E io non sopporto i difetti di Davide. Ma non sopporto neanche tanto la sua ex moglie Silvia.

La storia: Davide, dopo anni dal divorzio da Silvia, va a trovare Giampiero, un vecchio amico di famiglia, perché, tramite lui, vuole far arrivare una lettera all’ex moglie, che non vuole più saperne di lui. Nel tempo di una notte, i due si raccontano i dettagli delle loro vite (perché anche Giampiero ha il suo segreto). Davide era il classico bravo ragazzo: dopo uno screzio col padre, che non ha voluto lasciargli la falegnameria, inizia a lavorare come buttafuori in una discoteca, cosa che non va a genio all’allora moglie. Pian pianino il rapporto si sfalda, tra i non detti e i goffi tentativi di comunicarsi affetto.

Davide e Silvia sono due individualisti che si sono sposati senza aver bene in testa cosa significhi vivere insieme. Trovo assurdo che uno prenda un lavoro senza parlarne con la moglie, ma trovo anche assurdo che una moglie cerchi di trovare un lavoro al marito senza prima chiedergli cosa ne pensa. E poi sono geneticamente incapaci di parlarsi: gli scoppi di rabbia di Davide sono tipici di gente che non sa controllarsi. E non diamo la colpa alla crisi economica, per favore, ma neanche alla fantomatica lince: si tratta di gente che non riflette sulle proprie reazioni estreme. E, nel caso soprattutto di Davide, non si può tacere che se non riesce a trovarsi un posto decente è anche per colpa sua, che non ha né arte né parte perché non si è dato da fare prima (la possibilità di studiare ce l’ha avuta).

Altro motivo di poca soddisfazione (per me) è stato il frequente uso del linguaggio parlato: è vero che dà immediatezza, ma a me, personalmente, non piace. Gusto soggettivo.

Ancora: tutto il libro si svolge in una notte. Trovo poco realistico che due uomini parlino così tanto. Soprattutto in questa letteratura italiana contemporanea, fatta di mutismi cronici con derive patologiche.

Quello che mi è piaciuto, invece, oltre alla storia in sé (e al colpo di scena di Giampiero), è stato imparare tante piccole cosette sulla falegnameria e sulle api: chicche che possono sempre tornar utili, un giorno (ad esempio relativamente all’anticatura del legno).

In conclusione: a me non è piaciuto, però leggetelo (vi ho mai consigliato di non leggere un libro?) perché è scritto bene, e poi ditemi cosa ne pensate!

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Le passioni della mente – Irving Stone

Romanzo biografico su Sigmund Freud

Irving Stone è conosciuto principalmente come autore di biografie romanzate. Lui stesso, in un video su youtube, si definisce un Bookworm, uno che va pazzo per i libri. Il suo primo incontro con Freud è stato a diciannove anni, quando, appena entrato all’università, ha fatto una capatina nella biblioteca, e si è portato via, tra l’altro, “Psicopatologia della vita quotidiana”: che coincidenza! Questo è proprio il titolo che ha fatto innamorare me, di Freud, quando avevo sedici anni! Ed è anche il libro che Freud ha scritto per il vasto pubblico, mentre prima i titoli si indirizzavano principalmente al mondo medico, visto che la psicanalisi doveva ancora farsi accettare come scienza.

Ma torniamo alla biografia.

Il romanzo inizia quando Freud ha poco meno di trent’anni e sta facendo la corte a Martha, sua futura moglie. Si è appena laureato e il suo sogno sarebbe quello di lavorare nell’università, come ricercatore, ma non ce la fa. Intanto però mette da parte un bel po’ di esperienza con le malattie organiche… Ci vuole molto prima che lui si accorga di aver dato inizio ad una nuova scienza della psiche (ricordo che allora la psicologia non era considerata come una scienza), e non gli mancano i detrattori.

Pian pianino, l’impalcatura della psicanalisi cresce e si espande a tutto il mondo. Prima di arrivare a questo, però, il dottor Freud dovrà superare molte difficoltà: dall’antisemitismo (lui era ebreo, sebbene non praticante), al baronaggio, alle invidie, alle guerre… Ci sono diversi periodi in cui Freud ha difficoltà a comprarsi un abito nuovo o un nuovo paio di scarpe, soprattutto all’inizio della sua carriera.

Ci sono due punti importanti che caratterizzano Freud (così come molti altri personaggi famosi):

1: non si demoralizzava quando riceve critiche, anche se pesanti, e anche se queste provenivano da persone di cui lui aveva un’altissima stima. Era convinto, appassionato, innamorato di quello che stava studiando e continuava per la sua strada.

2: pian pianino si costruì una rete di amicizie. E che amicizie! Breuer, Adler, Rank, Steiner, Jung, Ferenczi, Lou Salomé… Tutta gente con la quale poteva discutere e lo aiutava a diffondere le sue idee. Arrivò ad avere dei contatti anche con Thomas Mann ed Einstein.

A me la psicanalisi piaceva molto una volta, prima di scoprire che non spiegava tutto; dunque la biografia interessava. Devo però ammettere che questo romanzo è troppo lungo (873 pagine): in particolare, l’autore avrebbe potuto risparmiarci alcuni casi psicanalitici; ne vengono riportati davvero tanti, molti dei quali già letti nei testi originali di Freud; forse qui era il caso di essere un po’ più sintetico (anche perché poi, alla fine, le cause delle malattie per la psicanalisi sono sempre le stesse, più o meno).

Inoltre, Stone avrebbe fatto bene ad essere più sintetico anche sulle parti che riguardavano le vacanze: ogni anno in estate la clientela di Freud andava in villeggiatura, e siccome il dottore restava quasi senza nulla da fare, si godeva anche lui le vacanze. Ecco: descrivere le varie case o alberghi con i dintorni, nonché le attività con cui trascorrevano le giornate (passeggiate e passeggiate!), alla fine allunga molto il libro senza dire nulla di concreto sulla vita del protagonista.

A parte questi due punti, libro consigliato a chiunque interessi la vita di questo pioniere della mente umana.

 

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