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Mi salvo da sola (Rita dalla Chiesa)

Lo ho finito in poco più di mezza giornata, perché ho saltato delle parti.

Non mi interessava la sua esperienza della maternità, del matrimonio della figlia, della nascita del nipote, della morte del genero, degli amori venuti dopo Frizzi: sono eventi universali che ognuno vive a modo suo (anche se per personaggi così non so quanto siano divise le sfere pubbliche e private).

La biografia inizia con la morte del padre, il Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, e da là, come le gambe di un ragno che si diramano dal corpo, c’è tutto il resto.

C’è la sua vita da adolescente in caserma, figlia e nipote di carabinieri. Il suo trasferimento da Milano a Palermo.

C’è il suo primo matrimonio con un carabiniere di origini nobili. C’è Falcone che l’ha interrogata dopo l’attentato e che è stato ucciso pochi anni dopo. C’è la sua storia con Frizzi, che l’ha aiutata a superare il lutto. C’è la separazione e la descrizione di quanto ci sia stata male. C’è la Fininvest.

C’è Berlusconi, che lei ha difeso e difende, perché lui conosce tutti per nome negli studi, anche i portieri, e – dice – perché lui ha spesso aiutato i più umili dei suoi dipendenti, anche nella malattia (fatico a far coincidere questa immagine con l’immagine di quello che fa i festini con le prostitute prendendo in giro le istituzioni e che si fa le leggi ad hoc).

C’è Giorgia Meloni che le chiede di candidarsi a sindaco di Roma. Rita dalla Chiesa rifiuta, ma le apre il comizio, dove viene fischiata perché lei è di destra, ma molte idee non coincidono con quelle della destra ufficiale (i poveri, i diritti civili, gli immigrati, la difesa degli animali…).

Io che non ho la TV e non leggo le riviste, ho scoperto che è stata radiata dall’albo dei giornalisti perché il ruolo era incompatibile con le telepromozioni, e che ha fatto più di qualche figuraccia nei social perché scriveva i post dopo aver preso delle pillole che l’aiutassero a dormire.

Nel complesso, già dal titolo, Rita dalla Chiesa mi è sembrata una persona amareggiata. Da un lato parla di tanti amici sinceri che l’hanno fatta ridere e l’hanno sostenuta, però dall’altra dice che alla fine si è sempre salvata da sola (credo però che nessuno possa essere salvato dagli altri, ognuno di noi deve decidere se farsi salvare).

Il libro ha confermato l’idea che già mi ero fatta di lei seguendola su Forum (quando avevo la TV): una che ha le sue idee e se le tiene strette. A volte un po’ rigida, e questo è più rischioso per lei che per gli altri che le stanno attorno.

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Dinastia – Robert S. Elegant

Mary Philippa Osgood arriva nel 1900 a Hong Kong. Ha vent’anni: non è la più bella ragazza tra le inglesi della colonia, ma riesce subito a mettersi in mostra e ad accalappiarsi il rampollo della famiglia cino-inglese Sekloong.

Il fondatore della dinastia, Sir Jonathan Sekloong, è ricchissimo e spregiudicato, ma dà sempre la priorità ai bisogni della famiglia. Mary imparerà ad inserirsi nel clan e a capire gli orientali, anche se non subito.

Non mancheranno le incomprensioni col marito che, pur amandola (ricambiato), da buon cinese miliardario non si dimentica di saltare da un letto all’altro.

Anche Mary vivrà la sua storia (col cognato), ma alla fine la Famiglia avrà la precedenza su ogni tipo di capriccio.

Il clan Seklong è pieno di ramificazioni sparse per il mondo e si suddivide in diverse correnti politiche: seguiremo i vari personaggi lungo gli anni dal 1900 al 1970.

Elegant scrive benissimo, e questo è un dato di fatto.

E’ però anche un dato di fatto che ha vissuto vent’anni a Hong Kong, che si è documentato benissimo (lo si vede anche dai dettagli quotidiani che descrive), che il libro è lungo 701 pagine infarcite di storia e nomi cinesi: essendo questa una parte del mondo che non sempre studiamo, nomi ed eventi ci risultano estranei, e può essere difficile appassionarsi alle vicende dei vari personaggi.

Finché la storia gira attorno a Mary e ai principali componenti della famiglia con le loro vicende, anche drammatiche, mi sono appassionata. Quando la storia si allarga, mi son persa…

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Ciò che inferno non è – Alessandro D’avenia

imageChe questo romanzo narra, pur con le dovute licenze poetiche, la storia di Padre Pino Puglisi ormai lo sanno tutti.

Che io mi innervosisco a leggere libri di mafia, no, non lo sanno tutti.

E non è colpa di D’Avenia: Sciascia mi faceva lo stesso effetto. Tutti sanno e nessuno parla. Ma come è possibile? Non funzionava la regola della maggioranza? Che l’unione fa la forza? Non è vero che se tutti si mettono insieme riescono a far fuori quei pochi mafiosi che terrorizzano e ammazzano? Sicuramente sono ingenua e non vivo in Sicilia, dunque non posso capire. Ma mi è bastato andare sull’isola l’estate scorsa e vedere l’immondezzaio che c’era in spiaggia: sono stati i mafiosi a buttare sulla sabbia gommoni, bambole rotte, bicchieri di carta, palloni sgonfi, pezzi di melone, calzini bucati ecc….??

Sto divagando, vado un pochino fuori di testa quando vedo l’ambiente rovinato per mancanza di senso civico. Torniamo al libro: il protagonista è il diciassettenne Federico, un liceale innamorato delle materie letterarie che si legge Petrarca nel tempo libero, e che per aiutare Padre Puglisi nel quartiere di Brancaccio finisce col procurarsi delle contusioni ed un occhio nero.

L’elemento di fantascienza è che Federico, che si è innamorato di una ragazza buona e bella del posto, rinuncia a una vacanza studio in Inghilterra. Questo l’ho trovato proprio fuori dal mondo. Non che si innamori di una buona e bella: che rinunci a una vacanza studio nel Regno Unito!

Però glielo perdono, all’autore, perché mi è piaciuto questa sua idea di scrivere un libro per dedicarlo a una vittima della mafia (gli perdono un po’ meno l’aver lavorato di fantasia con le regole per la donazione del sangue su “Bianca come il latte, rossa come il sangue”).

Certi passi lirici, a mio modesto parere, sono un po’ pesantini da leggere, ma è questo lo stile del momento, e molto spesso piace anche a me.

Molto spesso.

Non sempre.

 

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Il veleno dell’oleandro – Simonetta Agnello Hornby

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I libri della Hornby sono sempre pieni di personaggi, faccio un po’ di fatica, all’inizio, a dare una faccia e un carattere ad ognuno. Poi la lettura prosegue, e devo dire che la caratterizzazione è molto buona, anche se romanzo dopo romanzo le ambientazioni si ripetono. Non mi riferisco solo alla Sicilia, ma anche agli strati sociali rappresentati: alta borghesia mischiata con il “popolino”.

In questo caso particolare, mi è parso che il lieto fine sia arrivato un po’ presto e in modo un po’ prevedibile.

Tutto gira attorno a delle pietre che dovrebbero essere di inestimabile valore e che fanno gola a molti parenti della zia Anna, un’anziana che si sta perdendo nella demenza, ma che non rinuncia all’amore per il tuttofare Bede, bello e bisex. By the way, negli ultimi romanzi che leggo c’è sempre qualche storia omosessuale: per raggiungere l’accettazione e la normalità, la letteratura è una delle strade. Niente contro l’omosessualità, solo che tutto questo parlarne, secondo me, è troppo. No all’omofobia, però non bisogna neanche arrivare al punto di considerare l’omosessualità al pari dell’eterosessualità: ognuno in camera sua faccia quello che vuole, ma l’eterosessualità deve restare statisticamente preponderante.

Tornando al romanzo, devo dire che il ritratto che ne esce della Sicilia non è lusinghiero. Tutti sanno, ma tacciono, non vedo, non parlo, non sento. E questo è ciò che esce da ogni opera sulla Sicilia, sia un romanzo drammatico o un giallo. Non dovevamo dire no alla mafia e agli atteggiamenti mafiosi? Ebbene, se è così, si parte dal piccolo. A proposito di senso civico: sono appena stata in vacanza a Casteldaccia, Palermo e Cefalù, e sono rimasta impressionata dalla sporcizia. A parte il fatto che mancano cestini (e qua la colpa è degli amministratori), secondo me, manca proprio la coscienza del proprio territorio: non si buttano in spiaggia (libera) bicchieri, piatti di plastica, materassini sfondati, ecc. e qua la colpa è dei cittadini, non diamo sempre contro solo ai politici! Le stesse signore che erano in albergo con me, nonostante la spiaggia privata fosse pulita, fumavano e spegnevano la cicca sulla sabbia, lasciandocela: a’ cafone!!! Ma che cazzo, a casa tua fai così??

Alessandro Gassmann ha lanciato #Romasonoio ma in sicilia bisogna lanciare un hashtag per ogni città…

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Camilleri: due letture

Inizio a prepararmi a una prossima visita alla Sicilia leggendomi Camilleri, un autore che, timorosa di avventurarmi in idiomi poco conosciuti, non avevo mai incontrato prima.

Il corso delle cose, scritto nel 1968, ma pubblicato solo nel 1978 da Antonio Lalli Editore (modestamente, io ho proprio il volume della prima edizione eh eh!) mi è risultato ancora leggibile.
Il racconto I fantasmi, nell’edizione speciale per E, il mensile di Emergency, mi è già venuto più ostico.

Io la Sicilia letteraria la conoscevo tramite un Pirandello e uno Sciascia, dunque ne avevo un’idea un po’ traslata e un po’ (!!) mafiosa. Ora integro la visione parziale con un’idea, come dire, passionale? “Qua, da noi, si muore solo di corna” dice l’ultima riga del romanzo.
Quello che più mi è rimasto impresso è che l’immagine uscente dalle due letture non è lusinghiera, e sì che a scrivere dei siciliani è un siciliano. Intanto, i siciliani veri, quelli che si incontrano al bar, la mafia la negano: se c’è un omicidio, lo hanno commesso quelli di fuori, e se lo commettono i locali, allora non è mafia, ma è un delitto d’onore (i richiami ad Arpino sono d’obbligo, sebbene il suo romanzo sia ambientato nell’avellinese).

Poi: i siciliani non parlano con le autorità. E qua, nella mia testa da polentona, nasce la confusione: voglio dire, Vito, il protagonista, viene usato come bersaglio del tiro a segno. Lui è uno che non ha mai preso posizione e non riesce a capire chi lo vuole morto. Ma dopo che gli hanno sparato due colpi di lupara, pensate che vada a fare la denuncia dai carabinieri? Macchè. Zitto sta. Questo è un comportamento da siciliano? Boh, io non lo capisco proprio. Se mi sparano (ma anche se mi strisciano la macchina, ma anche se mi fanno la pipì davanti al cancello), io, la prima cosa che faccio, è andare dai carabinieri. Sì, quelli che mi conoscono lo sanno: io vado pazza, ma proprio pazza per la divisa dei carabinieri, non ne esiste una più bella, i carabinieri sono la fine del mondo (finché portano la divisa… in borghese, bè, sono uomini come gli altri). Però, insomma, qualcuno ti spara e tu stai zitto e muto? Non lo capisco, no, decisamente no.

Ancora: la descrizione della processione di Don Calogero è eccezionale. Ma, di nuovo, la visione che ne esce, del siciliano degli anni Quaranta-Sessanta, non è lusinghiera: a parte i soldi appesi alle corde della statua del santo, il vino che gli danno da bere, e i chili di pane che lanciano dalla finestra al suo passaggio, ad un certo punto, la folla decide che il santo è sudato e che bisogna detergergli il sudore dalla fronte. E uno che fa, prende un fazzoletto e gli asciuga la fronte? Eh no, troppo normale. Molto meglio prendere il primo gatto vivo che gli passa tra le mani, e sfidando artigli e morsi, usarlo per asciugare la statua… Ma, Camilleri, che ti hanno fatto i tuoi paesani per descriverli così?
Scherzo, la licenza letteraria è salva, da queste parti…

Infine: c’è un eroe? NO: né nel romanzo né nel racconto c’è un vero e proprio eroe, del tipo: la persona tutta d’un pezzo, quei fantoccini perfetti che si trovano nei libri di Dan Brown, per intenderci (ah, sto leggendo Inferno… ma neanche topo Gigio…). Lasciando da parte gli stupidotti, i cornuti e i cornificatori e le buttane , i commissari irascibili seppure intelligenti, gli ubriaconi, i poveracci e i presunti intellettuali, i preti (che non parlano, magari per ragioni diverse dalla sicilianità…), i comunisti, cosa resta?
La curiosità di saperne di più. Passiamo al prossimo di Camilleri.

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