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Una follia in quattro tempi (Nicole Müller) @edizioniEO

Strano come un libro di sole 130 pagine possa dar luogo a tante riflessioni.

Innanzitutto, è un po’ autofiction e un po’ metaletteratura.

La storia è raccontata in quattro tempi.

Nel primo, a parlare in prima persona è la protagonista, Tanja Bernhard, una ragazza che ha pubblicato il suo primo libro e che adesso cerca di scrivere la biografia di Irina Blumenthal, una donna anziana, ricca, colta.

La storia viene raccontata quando le due hanno già rinunciato al progetto del libro e la loro amicizia si è incrinata: “Siamo troppo diverse”, si è giustificata la dama. E Tanja, che senza l’anticipo per quest’opera sarebbe sull’orlo della povertà, scrive una lunga lettera alla sua editrice per giustificare la mancata consegna del libro.

In realtà, poi, in questa lettera parla un po’ di tutto senza mai davvero scendere nei dettagli e senza dare una spiegazione del perché Irina non vuol più collaborare. Ma non dice quasi nulla neanche della vita della signora Blumenthal: ci sono solo vaghi accenni alla sua veneranda esperienza nel corso di un secolo e ai suoi rapporti con famosi personaggi della cultura del Novecento.

Ma Irina Blumenthal rimane un personaggio distante che ci incuriosisce ma che – allo stesso tempo – ci indispettisce per la sua reticenza (o è la reticenza di Tanja?).

Nella seconda parte del libro, ci sono dei dialoghi tra Nicole Müller e la sua editrice, e qui compare il nome dell’autrice, di cui la Bernahrd è l’alter ego, ma anche qui, di vero, di importante, sulle due persone che dialogano si viene a sapere poco.

Nella terza parte, lo stile cambia completamente: il racconto è in terza persona, e assistiamo a uno dei tentativi della scrittrice di andare a fondo della vita della Blumenthal senza riuscirci.

Nella quarta parte, ci sono fogli sparsi, appunti presi sulla carta delle sigarette, su post-it, citazioni, bozze dattiloscritte o vergate a mano, tutto molto slegato.

In ogni parte, il continuo riferimento a Thomas Bernhard.

Cosa ne sappiamo di Irina e di Tanja/Nicole quando chiudiamo l’ultima pagina? Quasi nulla. Solo qualche boccone scollegato dagli altri, qualche stralcio di emozione, qualche immagine.

Vorrei tanto raggiungere il mio prossimo e capirlo, ne ho un desiderio addirittura micidiale.

Ma è proprio questo il messaggio dell’autrice: non ci possiamo definire se non nel rapporto con gli altri. Per definirci sani dobbiamo frequentare i pazzi, per definirci potenti abbiamo bisogno dei sottoposti, per definirci scrittori abbiamo bisogno dei lettori…

Col rischio che ogni volta che ci confrontiamo con qualcuno, quel qualcuno rifletta una faccia diversa di noi stessi, e di qui la frammentazione, anche stilistica.

Vi lascio alcune citazioni che mi sono ben bene sottolineata:

Alle persone autoritarie si può piacere solo mostrandosi sottomessi (…). Nei rapporti con le persone autoritarie è assolutamente impossibile piacere per quel che si è.

Il suicidio è pur sempre un omicidio, seppure a responsabilità generalizzata.

La lite per il denaro è sempre una lite per il riconoscimento.

La nostra società ha estremo bisogno di ogni genere di deviazioni.

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Sbucciando la cipolla (Günter Grass) @EinaudiEditore

Ammetto subito che lo ho sospeso due volte prima di finirlo: Grass usa una prosa molto ipotattica, piena di metafore elaborate che si ripetono e vengono approfondite nel corso del libro. Non una prosa semplice, insomma, e tutto il mio rispetto va al traduttore Claudio Gross, morto l’anno scorso, per il lavoro che ha compiuto su questo testo (se è difficile da leggere in italiano, non oso pensare cosa sia in tedesco).

Grass ha preso il premio Nobel per la letteratura nel 1999. Questo lo sapevo. Quello che non sapevo è che Grass faceva parte delle SS.

Certo, non ci è rimasto a lungo, e, va detto, aveva 16 anni quando ci è entrato: va anche detto che il suo primo battesimo del fuoco gli ha inflitto una tale dose di paura che si è fatto la pipì addosso e ha avuto gli incubi per anni, dopo la guerra.

E’ comunque interessante leggere come Grass dopo quasi sessant’anni cerchi di capire le ragioni di quell’appartenenza (soprattutto alla luce della sua successiva militanza nella sinistra tedesca) ma senza cercare giustificazioni postume. Va sottolineato però, che nel tentativo di prendere le distanze dal suo “io” di allora, quando parla del se stesso di quel periodo spesso lo fa in terza persona.

Salvatosi un paio di volte per puro caso, quando la guerra finisce Grass si ritrova senza arte né parte: non ha finito la scuola, non sa che fine abbia fatto la sua famiglia, non sa dove andare.

E così, il futuro premio Nobel, comincia una vita vagabonda, rimanendo per anni ospite della Caritas.

Nonostante la sua aspirazione a diventare un artista, prima di iscriversi ad una vera e propria accademia fa un po’ di tutto, dal lavoro in miniera allo scalpellino. In questi anni, tre sono i tipi di fame che lo affliggono: la fame vera e propria, la fame di donne e la fame d’arte.

Il libro termina quando, dopo vari tentativi di darsi alla scultura, Grass inizia a guadagnare i primi soldi con l’attività letteraria.

Da questa autobiografia si capisce come la sua vita sia spesso stata travasata nei suoi romanzi: spesso i personaggi dei suoi libri, tratti dalla realtà, si sovrappongono ai ricordi, distorcendoli.

Non è una lettura semplice, dicevo, ma se arrivate alla fine ne varrà comunque la pena.

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Da qualche parte starò fermo ad aspettare te (Lorenza Stroppa) @LibriMondadori

Il romanzo è raccontato dal punto di vista dei due protagonisti: Diego, che lavora come editor e colleziona donne senza mai impegnarsi davvero, e Giulia, pittrice, reduce da un evento che le ha segnato la vita ma del quale non sappiamo nulla fino a quasi metà libro.

Tutto nasce quando Diego trova l’agendina di Giulia sotto lo scaffale di un supermercato e viene travolto dalla curiosità: si improvvisa subito detective e inizia a frequentare i posti che frequenta lei.

No, non è un romanzo rosa.

E’ la seconda volta in poco tempo che mi sento in dovere di mettere in chiaro che non leggo romanzi rosa: con tutto il rispetto dovuto a chi li scrive, ma in questo libro la storia d’amore, pur occupando un ruolo importante, non è il perno della storia.

Piuttosto, parlerei di romanzo di formazione, sebbene i protagonisti non siano più adolescenti: la ragione di questa mia scelta è che entrambi hanno un nodo da sciogliere al proprio interno, un ostacolo che non permette loro di andare avanti, di crescere, di… prosperare.

Mi è piaciuto, di Diego, il fatto che lavori come editor: quando parla del suo lavoro vediamo quanto una figura professionale del genere debba mediare con gli autori, e ci rendiamo conto di quali capacità diplomatiche abbia bisogno. E’ un punto che già alcuni editor sottolineano nei loro canali YouTube: per chi si interessa di editoria, è bello avere uno scorcio diretto sulle vite di queste figure.

Di Giulia invece ho particolarmente apprezzato il suo rapporto con i colori.

Lavoro per un’azienda di design di alta gamma, dove si tende a dare una preferenza ai colori neutri che tendono sempre ad essere considerati come i più eleganti (il bianco è stato canonizzato, praticamente). Ma il modo in cui Giulia parla dei colori ci mette davanti alla “personalità” delle varie sfumature cromatiche: i colori ci parlano, anche se non sempre li ascoltiamo.

Questa storia è ambientata a Venezia: la Stroppa la conosce molto bene, essendo figlia di veneziani. E questo mi permette una digressione: vi capita mai di accorgervi, mentre leggete un libro, che qualcosa lo lega a quello che avete letto prima? Nel mio caso, Venezia lega il libro della Stroppa a “Tod zwischen den Zeilen” (Morte tra le righe) di Donna Leon, che sto leggendo adesso, e che è, anche lui, ambientato a Venezia.

Non solo: all’inizio di “Da qualche parte”, c’è un richiamo al dottor Zivago, il che lega strettamente questo libro a “Il colibrì”, di Veronesi, che ho finito due giorni fa e nel quale lo Zivago era il libro preferito del protagonista.

Queste sincronicità mi capitano sempre, leggendo…

Fine della digressione.

Nel romanzo della Stroppa ci sono anche dei punti che mi hanno lasciata perplessa.

Innanzitutto, l’amicizia tra Giulia e Rita: nella mia esperienza, le grandi amicizie nascono tra persone piuttosto simili. Il rapporto tra Giulia e Rita lo sento poco verosimile: Giulia è introversa, monogama e malinconica; Rita è spumeggiante, esorbitante, esagerata, bisex e un po’ ninfomane. Quante coppie di amici conoscete con questa differenza di caratteri? Amici veri, intendo, come sono Giulia e Rita. Io nessuna.

Un altro punto che mi ha fatto storcere il naso è l’episodio di Giulia che finisce a letto con Diego: era ubriaca, e non si ricorda se ci ha fatto l’amore oppure no. Ecco… l’amnesia da sbronza io non l’ho mai provata, non so fino a che punto ci si possa dimenticare certe cose, tuttavia, è un espediente a cui spesso si ricorre nei film di serie B: nel romanzo ci sta, si lascia leggere, eppure…

Ultimo appunto: c’è una scena in cui Giulia è a letto con Diego, che dorme. Lei si sporge per messaggiare con Rita. Ma Diego ha un braccio attorno alla sua vita, com’è che Giulia fa in tempo a fare un discorso per SMS prima che lui si svegli?

Ok, comunque queste sono pignolerie, nell’economia generale del libro..

Vi consiglio la lettura di questo romanzo?

Sì, perché la Stroppa scrive molto bene e perché… questo non è un romanzo rosa! Alla fine la protagonista fa uno scatto che mi ha portata a commentare: Ah, però! Brava Giulia! Sembravi destinata semplicemente a rifarti una vita come tutte le altre donne e invece…

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Vita di Alberto Moravia (Moravia – Alain Elkann)

Libro intervista

Moravia è stato spesso accusato di essere un figlio di papà, un rampollo viziato e fortunato.

Bisogna dire che veniva da una buona famiglia: aveva una governante francese, i genitori si potevano permettere di andare all’opera, e il padre, architetto, lo mantenne ben oltre i trent’anni (fino al matrimonio), pagandogli anche i viaggi di piacere.

Fu il padre che gli prestò i soldi per pubblicare il suo primo libro, Gli Indifferenti, scritto tra l’altro ad un’età precocissima.

Tuttavia Moravia si è sempre difeso dicendo che ha avuto anche lui il suo periodo di sofferenza finanziaria (anzi, dice chiaramente “eravamo poveri), e in questa intervista ne parla senza amarezza, come di un’esperienza come un’altra.

Il primo evento che lo ha segnato stato la malattia: per tutta l’infanzia è stato malato, è stato anche in sanatorio, e anche una volta ufficialmente guarito si è sempre sentito l’ombra della malattia sul collo.

E poi ci sono state le donne.

Ha avuto tre mogli, Elsa Morante, Dacia Maraini e Carmen Llera, ma la schiera di avventure e innamoramenti è molto, molto lunga. Probabilmente se seguite il mio blog avete già intuito che sono un po’ talebana, e infatti questa facilità nell’andare a letto con donne appena conosciute mi lascia perplessa, ma non sono un uomo, forse i maschi ragionano in modo diverso.

Moravia non è il mio scrittore preferito. Ho come l’impressione che i suoi libri abbiano ottenuto quel successo enorme solo per casualità fortunate (pubblicazione nel momento giusto, appartenenze politiche, enorme rete di conoscenze).

La sua vita però è stata all’insegna del cosmopolitismo, e questo mi piace, nei scrittori e in tutti quanti.

Viaggi, viaggi, viaggi, ma non solo toccata e fuga: sono le persone dei paesi stranieri che ti permettono di toccare con mano la cultura diversa e Moravia doveva essere un tipo, alla fine, socievole, nonostante il cipiglio che gli si è attaccato alla faccia in vecchiaia (diciamo anche che la sua rete di conoscenze si nutriva da sé, visto che si faceva scrivere lettere di introduzione dai personaggi che conosceva e che gli permettevano di venir ammesso a molti salotti letterari a livello europeo).

Mi permetto di riportare una frase dell’autore, che parla della sua impressione appena sceso negli Stati Uniti negli anni Cinquanta:

La sensazione in America fu di un grande paese, in cui gli italiani non contavano nulla.

E’ una frase che gli italiani tenderanno a giustificare: erano gli anni Cinquanta, ora è diverso.

No, gente. Gli italiani non contano nulla nel mondo, adesso come allora. Siamo noi che ci gloriamo del nostro fastoso passato e crediamo che tutti ci studino e ci pensino: parlate con l’uomo medio americano, o cinese, o africano, o australiano, e chiedetegli la nostra forma di governo, il nome del nostro presidente della repubblica, o di un autore o cantante contemporaneo. Resteranno muti.

La biografia è interessante anche per tutte le opinioni che Moravia esprime sui più importanti personaggi letterari del Novecento: vi assicuro che li ha conosciuti quasi tutti (Prezzolini, Malaparte, Visconti, Pasolini…); per non tacere delle opinioni che lo scrittore ci semina qua e là in merito alla sua arte e che possono essere considerate come perline di saggezza per chi mira alla carriera letteraria.

Nonostante l’interesse di questo libro-intervista, Moravia non mi è diventato più simpatico di prima. Frasi come quella sotto mi hanno impedito di prenderlo a benvolere:

A quei tempi Borghese e Pancrazi, altro critico del Corriere della Sera, potevano creare uno scrittore, per quel centinaio di lettori che si interessavano di letteratura. Oggi questo non è più possibile, ci sono più lettori, è vero, ma la letteratura non è più qualche cosa di culturale, è un prodotto industriale come un altro.

Come a dire, che la cultura letteraria è solo quella creata dai critici, (che – si sa – possono essere ben di parte coi propri amici) e non dai lettori che formano il popolo “normale”.

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Leggere Lolita a Teheran – Azar Nafisi @AdelphiEdizioni

Lo sapevate che tra i rimedi consigliati per placare il desiderio maschile c’è il sesso con gli animali? E qui sorge un problema non da poco: il sesso con i polli. Ad esempio ci si può chiedere se un uomo che ha fatto sesso con un pollo lo possa poi mangiare. Ma niente paura, il nostro leader ha pronta pe noi la risposta: no, né lui né i parenti più stretti possono mangiare la carne di quel pollo. Semmai, possono farlo i vicini, sempre che vivano ad almeno due porte di distanza.

Sono indicazioni fornite da un’opera dell’ayatollah Khomeini. Un’opera caldamente raccomandata per la lettura delle giovani generazioni, mentre autori “perversi” come Nabokov, James, Joyce e Austen erano visti come altamente immorali.

E’ questo il clima in cui Azar Nafisi si è trovata ad insegnare letteratura all’università.

Lei, che veniva da una famiglia colta, che di generazione in generazione si è distinta in Persia/Iran per le opere letterarie, si è trovata ad essere testimone (e a volte vittima) di ogni forma di sopruso che la mente umana possa immaginare.

Immaginare?

Verbo importante. Perché sembra che un regime – per tenerti controllato – cerchi di privarti anche della tua immaginazione.

Questo libro-memoir nasce dall’esperienza della Nafisi con un gruppo scelto di sue studentesse: per diciotto anni si sono incontrate a casa della loro insegnante per parlare di letteratura.

Erano ragazze che uscivano dalla realtà iraniana del tempo, dai ricordi di punizioni corporali e psicologiche, da limitazioni e umiliazioni, per entrare nel mondo della letteratura. E per poi scoprire che i romanzi, alla fine, parlavano proprio del mondo in cui vivevano.

Guardiamo James, ad esempio:

In quasi tutti i suoi romanzi la lotta per il potere – che è poi il motore dell’intreccio – nasce dalla resistenza dei personaggi alle convenzioni sociali, e dal loro desiderio di conservare, insieme alla stima altrui, la propria integrità.

Ma anche un romanzo come Lolita, che è solitamente considerato un’opera erotica, viene letto alla luce della loro esperienza quotidiana: e Humbert Humbert diventa un simbolo dell’uomo malvagio perché è totalmente insensibile, perché è incapace di mettersi nei panni altrui, di provare empatia, di vedere le persone per come sono, con le loro luci e le loro ombre. Insomma: un romanzo che denuncia il totalitarismo, che distingue le persone in amici e in nemici, in buoni e cattivi.

Vi dice niente che ci riguardi da vicino?

Infine, un ultimo estratto, per mostrare, se ancora ce ne fosse bisogno, la necessità che ha un regime illiberale di manipolare le informazioni:

Ogni giorno il governo faceva arrivare dalla provincia e dai villaggi autobus carichi di dimostranti che l’America non sapevano nemmeno dove fosse, e a volte pensavano che li stessero portando proprio là. Si vedevano regalare cibo e qualche soldo, e passavano la giornata a divertirsi e a far merenda con le famiglie davanti al covo di spie. In cambio dovevano semplicemente gridare “Morte all’America” e bruciare una bandiera ogni tanto.

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Autofiction #Pordenonelegge 2018

Ieri sono stata al Pordenonelegge ad ascoltare un dibattito sull’autofiction tra Carlo Carabba ed Emanuele Trevi. L’incontro era presentato da Alberto Garlini.

Cos’è l’autofiction?

Bè, non è proprio un genere. Per spiegarvi cos’è, vi faccio subito due autori che la usano o l’hanno usata nelle loro opere: Carrére e Chatwin.

Carabba ci ha proposto una suddivisione:

Primo filone: autori che mettono direttamente a nudo la propria anima con lo scopo di cercare la Verità (es. Proust, S. Agostino)

Secondo filone: autori che presentano un racconto molto simile alla propria realtà individuale (es. Jack London col suo “Martin Eden” o Breston Ellis col suo “Luna Park”).

Terzo filone: autori che uniscono il racconto della propria vita a fatti di cronaca (uno su tutti: Emmanuel Carrère).

Dai pochi esempi elencati, si evince che l’autofiction non è un genere a sé, perché si può infiltrare in altri generi (letteratura di viaggi, autobiografia, horror, cronaca…). Trevi ha usato un verbo: parassitare.

Quale è la necessità di fondo dell’autofiction?

Fondamentalmente, è un modo di reagire all’inerzia dell’esistenza, alla mancanza di eventi significativi nella vita di tutti i giorni. La sua ragione d’essere, è la stessa ragione per cui amiamo le storie inventate: perché abbiamo bisogno di vedere un filo conduttore in tutto ciò che succede, abbiamo voglia di segni, di significato.

Abbiamo bisogno che la persona, che vive una vita banale, si trasformi in personaggio, cioè in una persona privata degli innumerevoli momenti in cui non succede nulla. Ecco perché agli autori piace mischiare la persona (autobiografia) al personaggio (fiction).

Emanuele Trevi ha espresso un suo parere su Carrère: dice che i suoi libri si leggono tutto d’un fiato, sì, ma a volte, annoiano. Perché? Perché Carrère si mette sempre in mezzo, come se avesse difficoltà ad accettare che la vita è costituita più da assenza di eventi significativi che da eventi significativi. Secondo Trevi, non si può rendere interessante tutta una vita in tutti i suoi momenti: se lo si fa, si gonfiano i contenuti, e, così facendo, ci si allontana dalla Verità (o dalla sua ricerca).

Carabba ha appena pubblicato un esempio di autofiction: “Come un giovane uomo”. Parla di una sua esperienza del lutto. Nel libro racconta della morte di una sua cara amica, e di come, il giorno del funerale, lui si trovi davanti ad un bivio: andare a darle l’ultimo saluto o a firmare un contratto di lavoro che significherà la fine di una vita di precariato.

Ecco: il bivio.

Il bivio spesso non è altro che un rito di passaggio, un evento significativo nella vita di una persona. Dunque vale la pena scriverne. E spesso il bivio riguarda la scelta tra sentimento/intuito/affetti (nel suo caso, il funerale dell’amica) e razionalità (la vita lavorativa).

Sia come sia, dice Trevi, l’arte, e dunque la letteratura, deve creare un cambiamento. Se non lo fa, allora è un romanzo da nevrotici (v. Freud e il chiacchiericcio mentale dei suoi malati), un meccanismo di difesa che non crea cambiamento; un tentativo, vano, di compensare il quotidiano.

Il cambiamento deve essere qualcosa che non ti aspetti, qualcosa di diverso dalla vita vera, in cui la direzionalità (forse) non c’è.

Sono così d’accordo con Trevi e la sua concezione della letteratura, che ho subito comprato il suo “Qualcosa di scritto”. Ma devo stare attenta a leggerlo: non devo guardarlo come un libro autobiografico, anche se l’autore parla a volte in prima persona. Come per stessa ammissione di Trevi, la sua autofiction ha sempre un taglio di critica letteraria. Nel caso di “Qualcosa di scritto”, si dedica a Pasolini.

E ora una nota personale, di autofiction, direi: mi sono ricordata di chiedere a Trevi una foto, ma non mi sono ricordata di fargli autografare il suo libro che tenevo sotto il braccio e che avevo appena comprato. Sì, sono reale, ma imbranata come un personaggio dei cartoni animati.

E adesso, da raccoglitrice compulsiva di autografi di scrittori, mi mangio le mani.

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Sindbad torna a casa, Sandor Marai @Adelphiedizioni

Sindbad era lo pseudonimo dello scrittore ungherese Gyula Krudy, che Sandro Marai amava moltissimo. In questo romanzo Marai lo ritrae una giornata facendogli ripercorre le strade della vecchia parte di Budapest in cerca del mondo perduto.

Va in bagni termali, caffè, alberghi e ristoranti in cerca delle sensazioni della vecchia Ungheria, degli uomini che scrivevano per scrivere, delle donne vere, del cibo e del vino che gli ricordino cos’era una volta la sua patria.

Non succede nulla, è tutta una narrazione basata sui ricordi e sulle sensazioni: ma quanta nostalgia!

Dove sono gli scrittori e i poeti ungheresi, quelli veri? si chiede Sindbad.

(…) gli unici che si potessero vedere, in città, erano solo i giornalisti di mezza tacca e gli pseudoscrittori. Quelli veri, giovani e vecchi, quei pochi che custodivano ancora nella loro grotta segreta la lingua, lo spirito, le regole del gioco, il fervore, ovvero in generale tutto ciò che dava il diritto alla nazione, tra popoli invidiosi, di vivere sulla terra degli antenati, gli scrittori non andavano più da nessuna parte.

Sindbad (ma anche Marai) scrive per ritrovare la sua vecchia Ungheria, per riprodurre odori e pietanze, e ogni piatto o luogo che nomina si allarga per inglobare tutta una cultura perduta.

Scriveva perché sentiva quella voce nella sua vita, che era fragile e infelice come quella di ogni vero scrittore e di ogni autentico ungherese (…). Quella voce l’avevano sentita tutti i suoi antenati, ma non erano stati capaci di esprimerla in parole, per cui avevano soffocato nel vino, nelle avventure e nella musica le domande sollevate da quella voce.

Libro breve, densissimo di nomi di autore ungheresi, tanto che uno si chiede: ma quanti scrittori e poeti ha l’Ungheria?

Su tutto, aleggia la tristezza e il desiderio di morte.

E Marai, per quanti anni se l’è portato dietro questo desiderio di morte?

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Questa libertà – Pierluigi Cappello @BUR_Rizzoli

Pierluigi Cappello, uno dei poeti contemporanei più bravi, è morto l’anno scorso. Nato nel 1967, viveva, fin da quando aveva 16 anni, in carrozzina a causa di un incidente in moto (nel quale un suo amico è rimasto ucciso).

Mettere un poeta al banco di prova di una scrittura narrativa, in prima battuta mi era parsa una sfida un poco folle

dice nei ringraziamenti. Ma vi avviso, che qui di narrativo c’è poco: Cappello scrive poesia anche quando narra la propria vita. La scelta delle parole e delle figure retoriche è curatissima.

Il libro è breve, si snoda sul filo dei ricordi di scuola e del terremoto, ed è una continua dichiarazione d’amore nei confronti della letteratura, della poesia e delle parole.

Trovo però difficile fare la recensione di una poesia, anche se vien fatta passare per “narrativa”. La poesia va letta così com’è, non attraverso i commenti altrui.

Posso solo dire che ho inghiottito parecchi nodi in gola per leggere l’ultimo capitolo, quello che riguarda l’incidente, il risveglio in ospedale e la riabilitazione.

Sono abituata a guardare film dell’orrore, squartamenti, stupri, genocidi: ma leggere di una storia così tragica, capitata a un ragazzo così giovane, mi ha reso le cose difficili.

Cappello ha ritrovato la sua libertà, nonostante fosse bloccato su un letto o su una carrozzina, grazie alla letteratura; e ce l’ha restituita, questa libertà, attraverso le sue poesie. La sua vita è stata un continuo scambio di dai e prendi in un mare di sensibilità acuta e laboriosa.

I miei omaggi.

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Elogio della letteratura, Bauman/Mazzeo @Einaudieditore

 


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Zygmunt Bauman ci ha lasciato quest’anno: era un autore prolifico, esponente di una sociologia fuori dagli schemi, lontana dalla disciplina accademica tutta dedita ai numeri e alle statistiche.

Credo che non ci sarebbe potuto essere un ricordo più gentile, di questo libro, scritto a quattro mani col suo amico Riccardo Mazzeo.

E’ un dialogo sul rapporto tra sociologia e letteratura, che pur condividendo gli la struttura discorsiva e molti degli scopi (l’analisi dell’uomo), spesso sono viste come due discipline lontane, quando non antitetiche, visto che la prima mira a farsi definire come scienza, mentre la seconda rientra senza dubbio nel campo delle arti.

Il colloquio tra Mazzeo e Bauman verte sì sulla relazione tra le due discipline, ma finisce per toccare argomenti apparentemente molto lontani: dalla figura del padre, alla twitteratura, dalla perdita degli intercessori all’homo consumens.

Essendo un saggio breve (appena 136 pagine) non si può riassumerlo in modo valido, perché ogni frase è pregna di significati e rimandi; ma un messaggio si può cercare di trasmetterlo: è che la letteratura, per quanto dotata di un potere salvifico, da sola non può risolvere i problemi di una società, esattamente come un insegnante singolo (che sia un Affinati o un Bergoglio) non possono risolvere i problemi della povertà e dell’ignoranza.

Risulta qui essenziale la distinzione tra troubles (i problemi che ognuno di noi vive nella propria quotidianità) e gli  issues (i problemi comuni a tutti gli esseri umani che possono essere affrontati solo tramite azioni collettive).

Notevole è poi l’elenco degli autori che, nel corso del dialogo, vengono menzionati: si passa da Nietzsche a Kafka a Kraus ad Alberto Garlini a Jonathan Franzen a Luigi Zoja alla Nussbaum ecc….

Insomma, anche se a volte un po’ troppo colto, è sicuramente una lettura stimolante.

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Bob Dylan un letterato?

Mi chiedo se sono una conservatrice, ma la fondazione Nobel, secondo me, ha toppato un’altra volta.

Il Nobel per la letteratura a un cantautore rock?

Allora guardiamo cosa dice il testamento di Nobel: dice che in materia letteraria il premio va a chi si è distinto per il lavoro di tendenza idealista più notevole. Ma qui le definizioni da dare sono troppe: soprattutto, è il concetto di letteratura che rimane oscuro!

Vado a guardare la definizione di letteratura nel dizionario e mi parla dell’insieme della creazione prosastica e poetica. Non comprende la musica…

Mi si risponde che i testi di Bob Dylan sono poesia.

OK, ma per me musica e letteratura restano due forme d’arte separate. Oppure mi state dicendo che i testi di Dylan girano separatamente dalle sue musiche? Se Dylan si fosse limitato a pubblicare i suoi testi in libri, senza cantarli, avrebbe preso il premio Nobel?

E poi mi sorge il dubbio: quando il Nobel per la letteratura è stato conferito a un poeta, numericamente, quante centinaia di poesie deve aver scritto quell’autore per aggiudicarsi il premio? E Dylan, quanti testi ha scritto? Parafrasando una delle sue canzoni: quante poesie devi scrivere per essere chiamato poeta?

Mi si ribatte che le definizioni alla fine dovrebbero darle i Mondi Dell’Arte, di beckeriana memoria: va bene, ma il pubblico che usufruisce di quella forma d’arte, che è un soggetto del MDA e che dunque è titolato a dare definizioni, considera la musica come una forma letteraria? Viste le polemiche nate da questa assegnazione del Nobel, non credo.

Sì, sono una fan dello status quo, una conformista letteraria. Non dico che la musica di Dylan non sia arte: dico che non è letteratura. E’ la mia opinione.

E poi, il punto che mi fa girare di più le scatole: vogliamo sì o no incrementare la lettura?  I libri con la fascetta del premio si vendono sempre di più: a ragione o a torto, ma si vendono, e magari, dopo, anche si leggono. I dischi di Bob Dylan avevano bisogno di una spintarella?? Il mondo del rock aveva bisogno di una spintarella?

Insomma, cari i miei accademici svedesi: se proprio volevate dargli un Nobel, potevate darglielo per la pace…

 

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