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About writing (Gareth L. Powell)

Gareth L. Powell è uno scrittore inglese di fantascienza che pubblica libri da una decina d’anni.

Non è un’esperienza lunghissima, ma è sempre più lunga della mia, dunque consigli e ispirazioni sono benvenuti.

Il saggio parla della scrittura nell’accezione più ampia, dalla paura della pagina bianca alla gestione del successo (se e quando arriva).

In realtà, il succo del libro è: per diventare uno scrittore di (qualche) successo, bisogna leggere tanto e scrivere tanto. Non si discosta molto dal nocciolo del libro di Stephen King “On Writing”. Lo sappiamo tutti che per diventare bravi in un’attività bisogna esercitarsi, eppure, continuo a comprare libri che mi lo ripetono fino allo sfinimento.

Powell scende poi nel dettaglio dei generi letterari (allargandosi un po’ di più con la fantascienza, perché è il genere che conosce meglio), delle abitudini utili per la scrittura, del luogo, delle sue giornate tipo, degli agenti letterari… Ci fornisce anche un elenco di prompt, di idee a cui attaccarsi quando davvero non sappiamo come riempire la pagina.

Fortunatamente, il blocco da pagina bianca non mi riguarda da vicino. Una pagina la riempio sempre, bene o male. E sta qui il succo: basta scrivere. Se si scrive male (e di solito è così), si può sempre cambiare in un secondo (e in un terzo e in un quarto) momento quello che si è scritto, anzi, direi che la vera scrittura è una ri-scrittura.

A volte l’autore tergiversa: come altri scrittori di cui ho letto, Powell ha bisogno di rumori di sottofondo mentre scrive e allora ci racconta del canale YouTube con i suoni di un caffè affollato: non so quanto aiuti lo scrittore esordiente italiano.

Vi dico io quale è problema dell’aspirante scrittore italiano: è che il mercato è piccolo. Non solo ci sono pochi abitanti in Italia rispetto ai paesi di lingua inglese, ma ci sono anche pochi lettori. Quanti scrittori italiani conoscete che vivono solo ed esclusivamente dei diritti derivanti dai loro libri?

Ma mi sto inacidendo.

Il fatto è che non si scrive per diventare ricchi. Si scrive perché si ha bisogno di farlo. Come si può sentire il bisogno di dipingere, di cucinare, di fare fotografie, di cantare.

Io, personalmente, ogni tanto cado in depressione e cerco di smettere: a cosa serve? mi chiedo.

Ci sono persone vicino a me che chiedono anche a cosa mi serve leggere, dunque figuriamoci cosa commenterebbero se dicessi loro che scrivo di nascosto. Eppure… C’è tanta gente là fuori che scrive, anche qui in Italia. Ed è bello parlarne. E’ bello avere dei sogni, anche se si sa che non riusciremo mai ad esaudirli.

Chi ha dei sogni è sempre più ricco di chi non ne ha.

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Creatività – Come ci rende più coraggiosi, più felici e più forti (Melanie Raabe)

Melanie Raabe è una scrittrice tedesca di thriller. A differenza di molti altri artisti, che creano un mito di se stessi dicendo di aver iniziato a scrivere/cantare/dipingere ancora in culla, lei è molto sincera e confessa di aver provato con molte strade prima di trovarsi con la scrittura: ha provato la musica, il balletto, la recitazione…

Sa quello che dice dunque quando ci spinge a cercare la nostra strada, la nostra forma di arte. Che poi sia un hobby o un lavoro, poco importa; l’importante è avere qualcosa che ci permetta di creare, perché il nostro cervello ne ha bisogno.

Analizza le varie fasi dell’esperienza creativa; dall’inizio, che è quello che ci fa più paura, alla commercializzazione delle proprie creazioni.

In ogni fase, ci sono dei punti fermi. Il primo è: fare.

La procrastinazione è un effetto della paura, ma la creatività è, per definizione, incerta, perché si mette al mondo qualcosa che non c’era. E poi è un falso mito quello secondo il quale la quantità va a discapito della qualità: in realtà non ci può essere qualità se prima non c’è stata una bella dose di quantità.

Un altro punto fermo per la Raabe è la routine: l’ispirazione è importante, la motivazione è importante, ma da sole non ti portano alla conclusione di un progetto. Le energie si consumano, le scelte che dobbiamo compiere ogni giorno consumano la nostra riserva di energia. Una routine ci libera dal peso delle scelte.

E infine: autenticità.

Che significa: autoaccettazione. Capacità di aprirci al mondo, magari rischiando la vulnerabilità.

Ma la vulnerabilità è un tratto universale: ognuno di noi è vulnerabile in qualche punto, e venire in contatto con un’opera d’arte (un romanzo, un quadro, una performance) che mette in scena una vulnerabilità simile alla nostra, crea un legame con l’autore e ci fa sentire meno soli. Solo mettendo in gioco la nostra vulnerabilità possiamo creare qualcosa di veramente autentico.

Certo: accettarsi e rendersi vulnerabili non è da tutti. E’ per questo che la creatività può renderci più forti, perché è anche un lavoro su noi stessi.

Insomma, la Raabe affronta un po’ tutti gli aspetti della creatività: dalla capacità di accettare le critiche ai modi per far affluire l’ispirazione, dalla disciplina all’imitazione di altri creativi.

Sono contenta di terminare l’anno con un libro sulla creatività. Non che mi abbia svelato novità sconvolgenti, ma mi è bastato leggerlo per ricordarmi che la creatività esiste.

Non so voi, ma nel mio ambiente i creativi non abbondano; sì, lavoro per un’azienda di design, ma vi assicuro che questi creativi milionari non vengono a pranzo con me, banale impiegata: mi è capitato solo una volta di cenare accanto a Giovannoni, anni fa, ma non ha mai voltato la testa dalla mia parte; l’ha sempre tenuta girata dalla parte opposta, quasi da farmi pensare che avesse un torcicollo.

Se altri creativi ci sono, nel mio ambiente – tra parenti e amici – fanno di tutto per non darlo a vedere, quasi in una forma di pudore (e forse ha a che fare con la paura di rendersi vulnerabili).

Il fatto è che mi sembra di essere l’unica qui attorno ad avere un sacco di sogni, e quando sento parlare di creativi e creatività, mi illumino: chi crea lo fa perché sente che nel mondo (o a lei/lui) manca qualcosa.

Dai, è l’ultimo giorno dell’anno, lasciatemi che scriva qui i miei sogni, uno più irrealizzabile dell’altro (anche se, chissà, con una buona dose di creatività si potrebbe fare qualcosa):

  • cambiare lavoro e settore (magari passando nell’editoria, tra libri di narrativa e saggistica)
  • prendermi un gatto persiano
  • vivere sei mesi in un paese, sei mesi nell’altro (Costa Rica, Perth, Ottawa, Okinawa, Nuova Zelanda, Nuova Caledonia…)
  • avere una casa al mare (non a Caorle… pensavo a qualcosa in Florida)
  • avere molti amici tra scrittori e scrittrici
  • visitare un museo diverso alla settimana
  • diventare invisibile al bisogno
  • leggere nel pensiero
  • finire certi discorsi con certe persone
  • imparare a parlare in pubblico
  • essere più spigliata e meno introversa
  • imparare bene il cinese
  • studiare il giapponese (che mi servirà per quando abiterò a Okinawa)
  • camminare in una piantagione di té in Sri Lanka
  • buttarmi col paracadute
  • dimagrire come Adele (e magari imparare a cantare come lei)
  • Salvare le tigri e altre specie dall’estinzione (anche con mezzi estremi)
  • Diventare dittatrice d’Italia (e metterla a posto)
  • Abbondarmi dall’estetista
  • Dare uno schiaffo a chi se lo sarebbe meritato in passato
  • Creare qualcosa di decente con la tecnica del mixed media
  • Vivere da sola
  • Scrivere libri
  • Ragionare con i capi di stato che trattano male i propri cittadini
  • Scoprire se esiste l’aldilà
  • Parlare con degli extraterrestri e visitare i loro mondi
  • Scoprire come è nato l’universo
  • Capire cosa voglio davvero dalla vita.

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L’altalena del respiro (Herta Mueller)

Schade, questo è un libro che col mio livello di tedesco non posso ancora godermi, perciò lo sospendo a pag. 178 (su 300).

Però posso dirvi di cosa tratta fino a pag. 178😁

E’ basato sulla versa storia di Oskar Pastior, un internato rumeno in un campo di prigionia russo verso la fine della seconda guerra mondiale.

Il protagonista ha iniziato a lavorare su questo libro insieme alla scrittrice ma è morto prima che fosse finito, così la Mueller ha deciso di arrivare fino alla fine da sola, sulla base delle lunghe conversazioni che i due avevano intrattenuto.

Oskar Pastior era un tedesco che viveva in Romania e quando i russi hanno dichiarato guerra alla Germania, si è automaticamente trasformato in un nemico. Ma quando sono andati a prenderlo alle tre di notte, lui si sentiva quasi leggero: non gli dispiaceva lasciare l’ambiente familiare, al quale doveva tener nascoste le sue avventure omosessuali clandestine.

Si pentirà della leggerezza con cui se ne è andato da casa.

E’ un romanzo/storia basato sugli oggetti: in un ambiente totalmente disumanizzato, gli oggetti assurgono a esseri viventi.

Pettini di lamiera per spidocchiarsi, cemento che vola ovunque, scarpe di legno e stracci al posto delle calze, un fazzoletto da naso di batista, le pale per il carbone, il carbone come merce di scambio, un cucù sfasato…

Ogni oggetto diventa la scusa per raccontare l’esperienza del campo.

Ci ho messo un po’ a capire cosa era una Pufoaika: non riuscivo a trovare il termine nel dizionario. La ragione è che, semplicemente, è un termine inventato (uno dei tanti). Si tratta di un giubbotto imbottito di ovatta, che ripara bene dal vento gelido ma che, in caso di pioggia, ti lascia fradicio per settimane.

Sopra tutti e tutto vola l’angelo della Fame, che tutto vede e tutto sa.

Solo Kati la pazza sembra sfuggirgli: mangia tutto quello che le capita a tiro, anche lo sterco, e per quanto sembri esser scesa nella scala dell’umanità, lei riesce a sopravvivere, a differenza di molti altri.

Decisamente da leggere in italiano.

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Venivamo tutte per mare (Julie Otsuka) #TeaEditore

Romanzo breve, appena 140 pagine, ma densissimo: all’interno troviamo la storia di tante, tantissime donne giapponesi arrivate negli Stati Uniti nella prima metà del Novecento, per sposare uomini di cui, nella stragrande maggioranza dei casi, non sapevano nulla.

Partivano con una lettera in mano o una foto, ma le parole e le immagini spesso si rivelavano, al loro arrivo, delle mere bugie: l’uomo che diceva di essere il proprietario di un ristorante, in realtà era uno sguattero; quello che diceva di dirigere una catena di lavanderie, in realtà era addetto alla stiratura; quello alto e con gli occhi intensi, in realtà era il cugino dell’uomo che la donna avrebbe dovuto sposare.

Poi gli anni passano, e le ragazze si adeguano al lavoro, ai soprusi, ai figli e alle loro morti. Sono poche quelle che hanno una vita facile.

E poi c’è Pearl Harbour: arrivano i sospetti, le sparizioni, i trasferimenti di massa.

E’ interessante lo stile: nei primi capitoli, sono le donne giapponesi a palare col “noi”.

Le assicurazioni ci cancellarono la polizza. Le banche ci congelarono il conto. I lattai smisero di consegnarci il latte a domicilio.

Nell’ultimo, quando le comunità giapponesi iniziano a ridursi ai minimi termini, quando i negozi e le strade che prima erano abitate da giapponesi diventano elementi di una città fantasma, il “noi” cambia. Sono gli americani che si chiedono cosa sia successo, se era giusto che succedesse, e cosa succederà.

Nuovi inquilini cominciano a trasferirsi nelle loro case.

“Noi” e “loro” non solo due pronomi: sono due culture e due destini.

Eppure sono anche pronomi, che ogni gruppo può usare: perché il contenuto di quel “noi” cambia nel tempo. Se oggi noi siamo i vincitori, domani potremmo diventare “loro”. E viceversa.

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115 idee per vivere meglio – Vera Birkenbihl (audiolibro)

Sono incappata in Vera Birkenbihl l’anno scorso, cercando dei suggerimenti per lo studio delle lingue. Nei paesi tedescofoni è molto conosciuta per aver suddiviso il processo in quattro fasi (decodificazione – ascolto attivo – ascolto passivo – attività), permettendo agli studenti di imparare con molta meno fatica e in modo naturale.

Solo ieri ho scoperto questo audiolibro che esula dall’insegnamento delle lingue in senso stretto.

Non sono riuscita a trovarlo in Italiano: nel nostro paese la Birkenbihl è poco conosciuta; ho visto solo un suo libro edito dalla Franco Angeli, che però verte sul linguaggio del corpo. Tuttavia, per chi conosce il tedesco, l’audio è comprensibile, non troppo veloce e si capisce (io non sono assolutamente bilingue!!).

L’audiolibro è composto da 115 domande e risposte. Tutto è molto pratico.

Ad esempio:

Come affronto una persona collerica?

Risposta: non lo fai. La collera ha spesso radici nel passato della persona, radici di cui la persona stessa non è consapevole. Se la affronti di petto, non farà altro che prenderti come bersaglio per lo sfogo.

Oppure:

Come ti rivolgi ai tuoi colleghi?

La scelta delle parole che designano i tuoi colleghi/sottoposti/superiori è spesso una profezia che si autoavvera. La Birkenbihl porta un esempio di una ditta di trasporti americana (l’esempio è tratto in realtà da un’opera di Tony Robbins), dove gli errori costituivano un’elevata percentuale dei costi a fine anno.

La soluzione è stata quella di chiamare gli autisti “esperti logistici”.

Nel primo periodo, gli stessi autisti si sono presi un po’ in giro per l’appellativo un po’ altisonante; tuttavia, dopo un mesetto, hanno cominciato a comportarsi davvero come “esperti logistici” e la percentuale di errori è crollata, riducendo di molto i costi.

Ancora:

Come si gestiscono i reclami dei clienti?

La risposta è lunga per riportarla qui, ma i primi due passi sono: ascolta bene e ascolta tutto. Chiedi cosa puoi fare per aiutarlo, e se non riesci a soddisfarlo come vorrebbe lui, allora cerca un compromesso. L’importante è fargli sentire che ti sei preso carico del problema, perché non c’è niente di peggio per un cliente arrabbiato di essere anche… ignorato, o ascoltato solo per finta.

Quello che la Birkenbihl sottolinea è che il cliente insoddisfatto della qualità del prodotto o del servizio non riterrà colpevole l’azienda o il reparto: ma se la prenderà con te. Per il cervello è più facile individualizzare le colpe: il cervello preferisce ragionare su individui, non su collettività.

Questo, da impiegata che si occupa della qualità in un’azienda, ve lo posso garantire: al cliente non frega niente delle politiche aziendali, delle vacanze italiane o delle tue malattie. Se non gli rispondi in modo soddisfacente, qualunque sia la motivazione, darà la colpa a te.

Certo, la Birkenbihl dà anche un altro consiglio: se ti accorgi che la pressione per le lamentele dei clienti è troppo elevata, chiediti se sei nell’azienda giusta. Domanda scomoda…

Gli argomenti affrontati in questo audiolibro spaziano molto (sono solo alla domanda 30, ne ho ancora 85 da ascoltare). Per esempio: cosa fai quando ti accorgi che una persona si… fissa? Sarà capitato anche a te: sei in mezzo a una riunione o a un pranzo di famiglia, e ti fissi su un punto nel vuoto, senza pensare a nulla.

Cosa fare? Niente. Questi momenti di “fissazione” sono messaggi del corpo: ci sta dicendo che abbiamo bisogno di staccare un attimo; sono momenti in cui davvero non si pensa a nulla e il cervello entra in una modalità simile a quella della meditazione. Forse siamo sottoposti a troppo stress, forse il pranzo è orribile ma non possiamo dirlo, forse percepisci che è inutile parlare durante la riunione perché le tue parole sarebbero travisate o rifiutate. Allora, prendiamo atto di questo bisogno, nostro o altrui.

Un altro suggerimento (non me li sono scritti, li riporto così come me li ricordo) è di sorridere quando si è arrabbiati o nervosi: il fatto stesso di sorridere, di portare in su gli angoli della bocca, causa una pressione su dei nervi che interagiscono col cervello per immettere nel corpo alcuni ormoni della positività e questo abbassa i livelli del cortisolo, l’ormone dello stress.

E ancora:

Come fare per impedire che i pensieri negativi ci tolgano il sonno di notte?

Risposta: il cervello non ubbidisce se gli dici di non pensare a qualcosa. Se gli dici di non pensare al colore rosso, inizia a pensare al colore rosso. L’unico modo è sostituire i pensieri negativi con altri positivi, con ricordi di bei momenti.

Infine, vi riporto un aneddoto che mi ha fatto riflettere.

In India, gli elefanti adulti non vengono lasciati in gabbie o legati con catene. Se l’uomo deve allontanarsi un attimo, li lega con una sottile fune a una canna di bambù, e loro stanno fermi. Perché non scappano?

Perché da piccoli venivano legati con delle catene a dei grossi alberi. Col tempo, imparano a restare fermi anche con una lieve sensazione di… legamento. Solo il fuoco li può far scappare strappando corda e canna di bambù.

Spesso le persone si comportano come gli elefanti: le catene sono diventate fili di lana e i baobab sono solo fili d’erba, però continuiamo a star fermi, bloccati.

Non è una bellissima similitudine?

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Bisogno di libertà, Bjorn Larsson @iperborealibri @casalettori

Tutti vogliono la libertà.

Ma…

a) pochi sono disposti a sopportare la responsabilità che ne deriva e…

b) pochi sono disposti a sopportare le persone davvero libere.

Ho fatto questa premessa perché il punto b) cade a pennello con Larsson. E’ un libro che di per sé è un atto di libertà, perché non si lascia catalogare: nelle biblioteche si potrebbe trovare sotto la voce “autobiografia”, ma la definizione è imprecisa.

Perché qui Larsson ci parla del suo rapporto personale, personalissimo con la libertà; e, tanto per darci un pugno in faccia, nella prima pagina ci mette subito davanti alla morte del padre, avvenuta per un naufragio quando l’autore aveva sette anni. E’ un atto di libertà ammettere (confessare, quasi) che questo evento non gli ha provocato la tristezza e la disperazione che ci si aspettava da lui.

Volete altri esempi dell’ecletticità del personaggio?

E’ finito tre volte in prigione (per un totale di circa cinque mesi) per renitenza alla leva.

Alle elementari è andato a scuola per un periodo con la cravatta. =ra che è adulto, non la indossa mai, per principio, perché odia ogni forma di divisa; e se gli capita di essere invitato a kermesse o cene in cui la cravatta è d’obbligo, bè, semplicemente, non ci va.

Ha rifiutato una borsa di studio negli Stati Uniti per diventare oceanografo, sebbene gli piacesse molto la materia: non gli piace il modello di vita americano. Ha trascorso un anno negli States, e gli è rimasto impresso come, a scuola, si studino solo la storia e la geografia americane, mettendo le basi per un nazionalismo della peggior specie.

Per Larsson, è essenziale non fare “come gli altri”, spostarsi spesso, cambiare prospettiva… per lui, tutto ciò è necessario al fine di non addormentarsi, di evitare l’abitudinarietà, di vivere, insomma.

Però, attenzione: se un personaggio così è da ammirare per le scelte che compie, non credo sia facile viverci assieme (e lui lo ammette). Se ne sono accorte soprattutto le sue compagne. Un esempio? Se uno ti dà un appuntamento e poi non si presenta, e non ti avvisa (il cellulare ce l’ha, ma spento), solo perché gli è passata la voglia di vederti… bè, ecco, io Larsson preferisco incontrarlo sui libri, e non frequentarlo di persona!!

E ora vi lascio un po’ di citazioni, perché ce ne sono davvero tante che meritano di essere incorniciate:

Ho imparato che spostarsi non è pericoloso, che si può vivere bene ovunque, che le amicizie perse sono rimpiazzate da amicizie guadagnate.

Per essere liberi dobbiamo sapere dove siamo.

Gran parte di coloro che sbandierano la loro differenza in maniera ostentata e provocatoria , rientreranno nei ranghi.

Senza sogni, la libertà è solo un miraggio.

La frenesia del consumo è un nemico pericoloso per chi vuole soddisfare il suo bisogno di libertà.

Dove la libertà è più difficile da realizzare e da vivere è nella quotidianità, nella famiglia e nel lavoro.

E’ la fantasia che rende gli uomini umani.

pocha)a)

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Jack London e Philip Roth @Einaudieditore @MinimumFax

Scrittori di narrativa non ne conosco, di persona. Ne incontro qualcuno alle presentazioni dei libri, ma ci sono sempre due principali ostacoli a una chiacchierata approfondita, anzi, tre:

  • Intervistatori non sempre all’altezza. Una volta un giornalista ha chiesto a Falcones perché sulle sue copertine c’era sempre una sfumatura di un certo colore in basso…
  • Certi spettatori si dilungano così tanto con le loro domande da farmi pensare che abbiano anche loro, da qualche parte, un libro da presentare.
  • Di solito la conversazione deve restare limitata all’ultimo titolo uscito, bisogna farlo per la libreria che ti ospita, e che ha preparato una pila di volumi in entrata, appena davanti alla porta a vetri.

Ma nella contemporaneità, dubito che anche se mi trovassi davanti a uno scrittore in carne ed ossa potrei spremergli grandi perle di saggezza. Un po’ perché io sarei così intimidita da non riuscire a spiaccicar domanda, un po’ perché gli scrittori ne hanno le palle piene di fan che gli fanno domande.

Gli scrittori devono scrivere. Tutto il resto è pubblicità.

Ecco perché ho adorato queste due brevi letture.

Pronto soccorso per scrittori esordienti, di Jack London

London non le mandava a dire. Bersagliato da manoscritti di sconosciuti, rispondeva chiaro e tondo cosa andava e, soprattutto, cosa non andava. Da queste lettere, comunque, si vede che la massa di gente pronta a vivere dei proventi derivanti dalla scrittura è sempre stata abbondante, ieri come oggi. Riporto solo una frase:

Non è possibile che lei, a vent’anni, sia riuscito a mettere tanto lavoro nella scrittura da meritare il successo in questo campo. Lei non ha ancora cominciato il suo apprendistato.

Libretto caustico ma trascinante, che martella sul bisogno di farsi una solida base “lavorativa” prima di pensare di poter vivere di parole. Ho avuto solo delle difficoltà a capire il senso dell’introduzione di Giordano Meacci…

Chiacchiere di bottega, di Philip Roth

Che visione, Philip Roth che passeggia per la fabbrica di prodotti chimici insieme a Primo Levi, o di lui che va a trovare Edna O’Brien mentre lei sta firmando qualche migliaio di copie del suo ultimo libro.

Sentite, ad esempio, cosa gli dice Kundera:

Il romanziere insegna alla gente a cogliere il mondo come una domanda. (…) In un mondo fondato su sacrosante certezze il romanzo muore. Il mondo totalitario, sia esso fondato su Marx, sull’islam o su qualunque altra cosa, è un mondo di risposte e non di romande, in esso non c’è posto peri il romanzo.

Che sia questa una delle ragioni per cui la gente legge così poco in Italia?

 

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Mangia, prega, ama – Elizabeth Gilbert

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E’ la storia vera di una donna che, dopo un matrimonio finito con un divorzio disastroso e dopo la fine della storia d’amore che ne è seguita, si prende un anno sabbatico per ritrovare l’equilibrio, dopo un periodo di profonda depressione con tanto di pensieri suicidi.

Quattro mesi in Italia sono all’insegna del cibo. Non so perché si fosse messa in testa che dovessero anche essere all’insegna del sesso, tanto da partire con la ferma intenzione di resistere a tutti gli approcci, come se in Italia i maschi non fossero altro che in attesa della straniera sola di turno.

Quattro mesi in India li ha trascorsi in un Ashram per meditare: è stata la parte che ho trovato meno interessante, perché mi è sembrata la ripetizione di tanti altri libri sullo yoga. Però la ripetizione di certi concetti alla fin fine, fa bene lo stesso, e mi è piaciuto leggere tra le righe che l’autrice ha comunque una buona base teorica, anche se non sempre la spiattella sulla pagina.

Gli ultimi quattro mesi li ha trascorsi in Indonesia, dove finalmente, dopo tanto tergiversare, si è trovata un uomo…

Il libro è reso simpatico dalle tantissime metafore fantasiose e dalle originali descrizioni dei personaggi che la Gilbert incontra.

Certo, la parte sull’Italia è dolorosa da leggere, per un’italiana… quando dice che a trent’anni tutti i giovani vivono ancora con la mamma e fa capire che neanche si rendono conto che non è normale, per una specie animale, vivere coi genitori fino a quell’età. O quando parla dell’impiegata delle poste che prima di rispondere all’utente allo sportello deve finire la telefonata col fidanzato (ma questo personale delle poste vogliamo farlo correre sì o no??).  Quando dice che gli italiani sono i maestri del dolce far niente… hai provato a venire a lavorare in un’azienda del Nordest, cocca?? E quando dice che nessun datore di lavoro in giro per il mondo chiede al candidato se conosce l’italiano…

Ma il massimo è stato quando ho letto che lei non si fida degli italiani magri. UN’AMERICANA??? Tra l’altro, un’americana che non riesce a rinunciare a una bistecca se non facendosi venire le lacrime agli occhi (diciamolo: tutta questa voglia di risvegli spirituali come si concilia con le sue bave davanti a una braciola?).

Penserete che il giudizio su questo libro sia negativo. E invece no. Leggetelo: è comunque piacevole ascoltare la storia di una che ha preso il coraggio di mollare tutto per un anno e viaggiare per il mondo. Ho anche scoperto che in Indonesia la cerimonia della pubertà prevede che il giovane si limi i canini, perché rappresentano la parte animale che abbiamo in noi. Ma sì, dai, leggetelo.

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Letture in corso: Vitaliano Trevisan, Works

(…) il lavoro, anche se non è la vita, trasformando nel tempo l’individuo, sia fisicamente che spiritualmente, la influenza comunque in modo determinante.

E questa è una grandissima e tristissima verità, perché il lavoro al giorno d’oggi quasi nessuno se lo sceglie: ci capiti.

Tristissima verità quando capiti in posti come questo (e tutti i posti in cui ho lavorato sono più o meno così, non importa la grandezza dell’azienda, il settore, il fatturato, la forma giuridica):

 
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Le bestemmie nei posti di lavoro del Nordest sono come l’aria: le respiri.

Difficile non ripeterle, anche magari solo mentalmente, anche magari solo quando un collega o un cliente insistono, insistono, e insistono con modi ironici prima e sarcastici poi; e se non gli dai retta vanno dal titolare, tanto per ricordarti che alla fine, tu puoi dire e fare quello che vuoi, ma la tua decisione verrà ribaltata, perché sei solo un’impiegatina o un operaietto, e magari c’hai pure una laurea con lode, ma il titolo non lo puoi usare, neanche di fronte ai buzzurri che nel loro ruolo hanno più forza di te, perché lavorano là da più anni di te, o perché fanno guadagnare all’azienda più soldi di te, o perché si vestono meglio di te…

Ecco, leggendo Vitaliano Trevisan ne ho assorbito lo stile e i contenuti… o forse ha solo tirato fuori quello che cerco di sotterrare?

Poi, leggendo Trevisan, fioccano le associazioni mentali e mi vengono in mente tutte le vicende che mi hanno fatto innervosire e che continuano ad innervosirmi al solo pensarci. Come quando una volta il titolare mi aveva detto di andare a ritirare il risultato degli esami del sangue di una sua collaboratrice… e io mi sono rifiutata, e, oltre alle bestemmie di rito, mi sono presa frasi del genere: “quando ti do un ordine tu devi eseguire!” oppure “tu non devi pensare, tu devi fare quello che ti dico io e stare zitta!”.

Perché nel mondo occidentale lo status di essere umano pensante, davanti a uno che ha fatto i miliardi col suo lavoro, cade in ombra.

Ma alla fine, la colpa è mia, perché sono io che non trovo “giusto” che i capi chiedano ai dipendenti di svolgere compiti che non rientrano nelle loro mansioni, che chiedano ai subordinati di andare a ritiragli i vestiti in lavanderia o cose del genere. Devo mettermi in testa che questo comportamento è normale, rientra nella norma. Punto.  Basta sperare in una realtà ideale! In fondo, dobbiamo essere grati di avere un lavoro…

Ma bando alle lamentele: niente è più permanente del cambiamento.

Ps: i risultati degli esami del sangue poi, alla fine, se li sono andati a ritirare da soli.

 

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Qualche falso (e dannoso) mito…

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(…) in molte donne di tutte le età è spesso profondamente radicata l’idea che, per dare senso all’esistenza e trovare quell’appagamento che incautamente viene qualificato come “felicità”, si debba necessariamente investire nei rapporti con il prossimo; in modo particolare con il partner, con i famigliare e gli amici. Ogni altro investimento in progetti e interessi che non siano imperniati sulle relazioni affettive viene considerato meno importante e comunque secondario. Come se privilegiare il rapporto con se stessi – il rapporto affettivo per eccellenza, dire – cercando di realizzare nel modo più gratificante possibile le proprie aspirazioni, alimentando creatività e libertà d’espressione in diversi campi, rivelasse un approccio “egoistico” alla vita (…)

Ho scelto questo brano tra i tanti interessanti del saggio perché va un po’ in controtendenza rispetto ai vari manuali sulla c.d. felicità, che sottolineano sempre come gli ultracentenari – oltre che di una buona alimentazione, di buoni geni e di movimento fisico – godono di buoni e stabili rapporti sociali.

Il fatto è che non si possono aver buoni rapporti sociali se per tenerli si mettono a tacere le aspirazioni personali e ci si imbottisce di rimpianti. E questo vale in tutti i campi: affettivo, familiare, lavorativo, hobbistico.

Meditate donne, meditate…

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