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Gli aspetti positivi del COVID-19

IMG_20200406_092113[1]L’isolamento ci costringe a riflettere, e la monotematicità dei social ci impedisce di dedicarci a un argomento che non sia il corona virus.

Non guardo al passato per non unirmi alle folte schiere dei giudici, e non guardo al futuro per non spacciarmi per una visionaria che crea o false speranze o scombussolanti paure.

Mi resta solo il presente.

In realtà, il presente è l’unico tempo che resta a tutti, eppure sembra che la gente lo rifugga, troppo occupata a cercare colpe politiche o a divinare scenari possibili.

Credo che la fuga dal presente sia dovuta in gran parte al pessimismo celebrale dell’essere umano: siamo fatti per risolvere problemi, è ciò che ci ha offerto il vantaggio evolutivo sulle altre specie. Solo che a volte ci concentriamo solo sui guai!

Siamo sicuri che il nostro presente sia fatto solo di problemi? Di decessi, di mascherine che non vengono consegnate, di insufficienti reagenti per tamponi, di quarantene violate (dagli altri, sempre dagli altri), di supermercati con la fila all’entrata, di piattaforme scolastiche lente?

Ebbene, la banalità del mezzo bicchiere pieno, signori e signore, è qui, tra noi.

Ho avuto il corona virus e sono guarita.

Certo, sono ancora segregata in casa dopo due settimane dall’ultima febbre, perché dall’Asl non mi hanno ancora prenotato i tamponi di “chiusura malattia”, e dunque dipendo dalla gentilezza dei vicini anche per un chilo di zucchero; e… certo, sono preoccupata per la situazione in cui ritroverò l’economia e le aziende quando torneremo a lavorare; ma, nel mare delle lamentele e delle critiche, vedo che ci sono tanti mezzi bicchieri pieni, basta cercarli.

  1. Intanto, sono guarita. Non era scontato a 45 anni. E’ guarito anche mio marito, e non era scontato neanche a 51 anni. Mio figlio non si è mai ammalato.
  2. E poi… mio marito ha smesso di fumare. Non è detto che continui, ma intanto ha superato la dipendenza fisica dalla nicotina. E’ stato costretto un po’ dalla malattia, che ha scentrato le sue ansie, un po’ dalla quarantena.
  3. Ho la casa pulita e disinfettata. Avete presente i bordi delle antine o i contenitori sotto il lavello, le gambe delle sedie e le fessure tra i tasti del PC? Tutto pulito. Con alcool a 90°. Quando non lavori e non esci, anche una come me si mette alla ricerca degli angoli da pulire.
  4. Siamo a casa tutti e tre, 24h. Ci succede di rado, forse solo durante le vacanze, ma in quelle occasioni c’è sempre qualcosa da fare, posti da visitare, sole da prendere, spettacoli a cui andare… Non mi capita più di dimenticarmi di dire qualcosa a mio marito perché non ce l’ho sottomano, e mio figlio è più che contento di giocare a Uno o Labirint con entrambi i genitori.
  5. Ho telefonato ad amici e parenti che non sentivo da un pezzo con la scusa di chiedere come stanno; e non è stata una domanda retorica, come si chiede di solito.
  6. L’erba del giardino sta crescendo perché il signore che veniva a tagliarla non può muoversi. Il sentire comune giudica l’erba alta del giardino come un segno di sciatteria: è la ragione per cui ho ceduto alla necessità dell’omino-che-taglia-l’-erba. Ma la verità è che a me il giardino incolto piace, soprattutto durante la primavera, quando gli steli dell’erba sono di un verde brillante e non c’è il fieno dei precedenti tagli tra ciuffo e ciuffo.
  7. Abbiamo internet: cioè il mondo. Potevano dire lo stesso cento anni fa in quarantena per la spagnola?
  8. C’è il sole: luce e caldo. Vi immaginate una quarantena col grigio alle finestre e sette maglioni addosso?
  9. Ho tanto tempo per leggere: questo significa NON essere in quarantena.

Il messaggio che voglio far passare è questo: lasciamo le lamentele a chi ne ha davvero il diritto. A chi sta male, a chi deve lavorare in condizioni pericolose.

E invece, guarda caso, queste sono proprio le categorie di persone che si lamentano meno.

Sembra quasi che per lamentarsi si debba star bene.

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Per chi si lamenta sempre

Chi si lamenta sempre dovrebbe leggere di più. Potrebbe imbattersi in frasi così…

(Da “Madame” di Antoni Libera)

 

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L’amicizia – Francesco Alberoni

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Esiste ancora l’amicizia? Alberoni sostiene di sì, perché non esiste un modello da applicare, ma, dice, l’amicizia è un ideale a cui tendere. Certo che l’ideale che ci propone lui è davvero alto, e io non ne vedo molti esempi in giro.

Prendiamo subito una caratteristica che è anche riportata nel sottotitolo: poco lagnosa.

Auguri!

La stragrande maggioranza delle c.d. amicizie che vedo in giro non fanno altro che lamentarsi (soprattutto quelle femminili). Dei mariti, dei figli, del lavoro, del tempo, della casa, dei parenti, del cibo, degli animali…. Spesso, spessissimo vedo donne che passano gran parte del tempo insieme a creare alleanze, come se l’inimicizia verso qualcuna rafforzasse l’amicizia nella coppia. Tanto poi le parti si mischiano, e la nemica di prima diventa la confidente di adesso contro l’amica di prima. Se togliamo tutte queste chiacchiere lamentose, quanto dialogo resta? Puro dialogo, di quello che fa crescere entrambe, come dice Alberoni?

Su certi punti però sono pienamente d’accordo col sociologo. Innanzitutto, l’amicizia può aversi solo tra pari (anche se la parità va definita di volta in volta). Difficilissimo che ci sia amicizia vera tra maestro e allievo, o tra chi assume il ruolo di maestro di chi il ruolo di allievo: le traiettorie devono essere parallele e allo stesso livello, nessuno deve stare sopra o sotto. Non ci deve essere uno che ha bisogno, che chiede troppo spesso, perché questo crea dislivello (i sindacati non chiedono, ma esigono, proprio per mettersi allo stesso livello della controparte).

(…) solo chi vive nello stesso ambiente, parla la stessa lingua, appartiene allo stesso mondo, ha una concreta possibilità di incontrarsi.

Amicizia significa progredire insieme, non far cambiare l’altro. Ma neanche star fermi insieme! Entrambi devono essere in movimento.

Se c’è noia, non c’è amicizia.

La società ha paura dell’amicizia, perché l’amicizia si apparta e va oltre le convenzioni e la buona educazione. E’ per questo che i gruppi cercano di non permettere l’incontro agli amici (e l’incontro è il punto focale attorno cui ruota l’amicizia). Leggetevi questi estratti, che ne vale la pena anche se sono un po’ più lunghi del solito (i grassetti sono miei):

Siamo ancora una volta di fronte al processo di rimozione che le strutture sociali, le istituzioni consolidate, compiono nei riguardi di ciò che è vivo, irrequieto, di ciò che cerca il nuovo ed il diverso. L’amicizia come ricerca inquieta è disturbante.

C’è gente che si incontra, la sera, anno dopo anno, per fare quattro chiacchiere. Talvolta sono coetanei, compagni di scuola. hanno ben poco da dirsi. Gli argomenti sono quasi sempre gli stessi. Ripetono le stesse battute, fanno le stesse osservazioni. anche quando i partecipanti, presi singolarmente, sono intelligenti e vivaci, non appena entrano nella “compagnia” si appiattiscono completamente. la compagnia assorbe ogni interesse, banalizza ogni rapporto. Impone a tutti un minimo comun denominatore linguistico che impedisce di dire cose nuove. La conversazione, costruita su infinite ripetizioni, non può più uscire da se stessa. (…) La “compagnia” illustra, in modo emblematico, l’istupidimento e la degradazione dell’individuo ad opera del gruppo, quando il gruppo non ha un ideale, un fine, una ideologia, nulla. La compagnia amicale è un gruppo tradizionalista senza altro scopo che la propria sopravvivenza. (…) Moltissima gente, quando pensa agli amici, ha in mente questo tipo di formazione sociale. Si comprende, perciò, perché consideri l’amicizia poco stimolante (…)

Un’altra parte che secondo me molti dovrebbero fotocopiarsi in formato ingrandito e appiccicarsi sul lunotto dell’auto in modo da vederla ogni giorno, è questa in cui definisce l’organizzazione:

E’ una struttura sociale costruita in modo tale da realizzare i suoi obiettivi prescindendo dai fini e dai desideri di coloro che vi lavorano. La gente non va a lavorare in una fabbrica di scarpe perché ha una particolare passione per le scarpe, ma perché prende uno stipendio. Se, infatti, le offrono una retribuzione più alta, cambia volentieri lavoro.

Nell’organizzazione i partecipanti sono dei mezzi per il raggiungimento degli scopi. Non sono dei fini. Ecco perché il lavoro stanca: non tanto dal punto di vista fisico. La stanchezza, la frustrazione, vengono dall’essere sempre mezzo, mai fine. Nella vera amicizia, bisogna essere fine, non mezzo. Ecco perché è così difficile, direi impossibile, che ci possano essere forme di amicizia tra manager e sottoposti.

Insomma, se qualcuno legge questo saggio e poi riesce a individuare nella sua vita qualcuno che corrisponde o almeno tende all’idealizzazione di Alberoni, me lo faccia sapere, per favore. Pura curiosità.

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