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4 3 2 1 (Paul Auster)

Ci ho messo tre anni e tre giorni a finirlo. E non perché l’ho letto in inglese (da tirchia, non l’ho preso in italiano perché mi costava quasi il doppio).

Il fatto è che 4 3 2 1 è troppo americano. Quando incomincia a descriverti le partite di baseball o basket, quando ti spiega per filo e per segno la politica delle varie associazioni politiche universitarie durante il Sessantotto, quando ti nomina tutte le organizzazioni locali di estrazioni repubblicana o democratica, io, che sono italiana e non ho mai studiato così bene la società americana, semplicemente, non gli sto dietro.

Mi è piaciuta invece la storia di Ferguson. Anzi: le quattro storie di Ferguson, quattro diverse vite vissute da questo ragazzo (anche lui) puramente americano di origini ebrei attraverso alcuni degli anni più recenti e turbolenti degli Stati Uniti.

La Storia con la “S” maiuscola infatti è sempre dietro alle spalle di Ferguson che, tra una ragazza e l’altra, tra un libro e l’altro, si lascia più o meno coinvolgere dai movimenti sui diritti civili, dagli scandali, dalla guerra in Vietnam.

Ora che l’ho finito, ho capito perché nessuna recensione di 4 3 2 1 ne ha fatto un riassunto: è semplicemente impossibile.

Ferguson ha quattro vite alternative, cambia ragazze, studi, gusti sessuali e musicali… fa un incidente e perde due dita, oppure muore adolescente; si mette insieme ad Amy, oppure insieme a una ragazza francese; suo padre è ricco oppure fatica a racimolare i soldi per arrivare alla fine del mese perché suo fratello gli ha fatto fallire l’attività; sua madre è una fotografa in carriera oppure una donna insoddisfatta… insomma, in quattro vite, gli succede di tutto.

L’unica cosa che rimane costante è la storia americana alle sue spalle.

Questo romanzo è una dichiarazione d’amore agli Stati Uniti, con tutte le loro contraddizioni; è una dichiarazione di appartenenza a una nazione, alla sua storia e alla sua comunità.

Potrebbe un libro così essere mai scritto da un autore italiano per l’Italia?

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Pastorale americana – Philip Roth @CasaLettori

Nathan Zuckerman, l’alter ego di Philip Roth che ritroviamo anche in altri romanzi, da giovane è stato un fan silenzioso dello Svedese, un giovane ebreo bello, bravo, gentile, benestante. Per Zuckerman e per molti altri, lui era un modello da imitare: per anni ed anni Zuckerman è vissuto col ricordo di un episodio in cui lo Svedese, semplicemente, gli ha rivolto la parola, tirandolo fuori dal limbo dell’inesistenza in cui vivacchiava.

Per questo, quando, ormai sessantenne e con un’operazione alla prostata alle spalle, riceve una lettera dello Svedese in cui gli chiede di incontrarlo, Zuckerman va in fibrillazione. Nella lettera il suo idolo gli ha anticipato che vuole parlargli di alcuni fatti che hanno amareggiato la vita al padre, ma quando si incontrano, al ristorante, nessuno dei due trova il coraggio per entrare in argomento.

Solo qualche mese dopo Zuckerman viene a scoprire che lo Svedese è morto di tumore. E’ il fratello dello Svedese, a raccontarglielo e ad accennargli del dramma che aveva sconvolto la sua famiglia: l’amatissima figlia, lasciatasi trascinare dall’odio contro la guerra nel Vietnam, aveva messo una bomba in un ufficio postale uccidendo una persona innocente.

Ma la trama, come in tutti i libri di Roth, è solo una scusa: i temi vanno al di là degli atti di terrorismo. Qui si parla di America, del sogno americano e della delusione che questo sogno ha causato. Si parla di concorsi di bellezza e di baseball, delle aspettative e dei problemi che ne derivano; si parla di ricerca di senso nella religione e nella morale; si parla di incomunicabilità all’interno della famiglia e della cerchia degli amici più stretti; si parla dell’impossibilità di conoscere davvero un essere umano; e si parla dell’America.

Philip Roth, come i suoi personaggi, si è sempre sentito americano: ebreo sì, ma integrato, e felice di vivere nel suo paese. Ciò non gli ha impedito (e non ha impedito ai suoi personaggi) di accorgersi delle contraddizioni: del razzismo, ad esempio, strisciante o apertamente dichiarato; ma anche dell’incapacità di trovare un senso nel benessere materiale.

Una volta gli ebrei cercavano di sfuggire all’oppressione; adesso scappano da dove l’oppressione non esiste. Una volta scappavano perché erano poveri; adesso scappano perché sono ricchi.

Prendiamo lo Svedese: visto dall’esterno aveva tutto ciò che un americano può desiderare per sentirsi soddisfatto, a partire dall’azienda bene avviata, fino alla moglie ex reginetta di bellezza. Si è sempre dato da fare, si è sempre sentito responsabile per la famiglia e l’azienda e il suo paese, è sempre stato attento a non offendere chicchessia; eppure, gli capita questa mazzata tra capo e collo.

E chi è il colpevole? Lo Svedese analizza tutta la sua vita, quasi giorno per giorno, in cerca del suo peccato originale, ma non c’è niente che possa essere considerato come la causa scatenante delle sue disgrazie. E di questa mancanza di una ragione lui non riesce a capacitarsi.

Eppure, nell’occhio del ciclone, ancora si sforza per tenere insieme i cocci:

Sua figlia era una folle assassina che si nascondeva sul pavimento di una stanza di Newark, sua moglie aveva un amante che fingeva di scoparla sopra il lavandino della cucina, la sua ex amante aveva portato coscientemente la sua famiglia al disastro e lui stava cercando d’ingraziarsi suo padre spaccando il capello in quattro.

La visione generale è cupa, è vero, ma Roth non cerca soluzioni. Il romanzo stesso termina senza aver chiuso tutti i fili narrativi (ad esempio manca tutta la storia dello Svedese con la seconda moglie, e non si sa nulla di come finisce davvero la figlia).

Perché mi è dunque piaciuto questo romanzo?

Innanzitutto per la prosa così ricca, mai banale. E poi perché ad ogni riga c’è una piccola verità: tanti, tanti dettagli, sia psicologici che ambientali. Pastorale Americana è un quadro che puoi restare a osservare per ore, scoprendo sempre qualcosa che non avevi notato prima.

I dettagli sono così tanti che è impossibile non trovarne alcuni che si adattano alla tua vita.

Alla fine dici: bè, sì, anche io sono un po’ Svedese. O sono un po’ sua moglie, o sua figlia, o suo padre. O mio padre è come suo padre, o la mia vicina di casa è come sua figlia, o, o…

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Fin che verrà il mattino – Han Suyin

Han suyin

Adoro i libri ambientati in estremo oriente. Stavolta: Cina, dalla Seconda guerra mondiale fino ai primi anni Settanta.
Stephanie è un’americana che si innamora e sposa un medico cinese. Sullo sfondo, la storia del nazionalismo, di Mao Zedong, dell’invasione cinese… e poi, più tardi, la rivoluzione culturale, il maccartismo, il revisionismo… ogni volta che la Storia si muove, dà un colpo di coda ai personaggi. Che già si sono complicati la vita per conto loro, a scegliere un paese come la Cina. Pensiamo ai due protagonisti principali: l’americana Stephanie non capisce perché il marito Jen Yong sia così “passivo”, perché non si metta d’impegno a propagandare le proprie idee, perché non dica sempre tutto quello che pensa. Già è difficile capirsi tra connazionali!

Bella anche l’atmosfera della Cina dopo la seconda guerra mondiale: piena di fermento, di speranza, di gente che si dà da fare perché crede nella comunità e in un futuro collettivo. Al di là delle fisime comuniste o anti-comuniste, questo senso della collettività è bellissimo. Peccato che non ci sia più nella Cina di oggi. Non ci sono mai stata ma l’idea che mi nasce in testa al vedere i miei clienti e l’ambiente degli affari, è che siano tutti votati al profitto e alle borse di Gucci.

Belle le descrizioni dei personaggi, soprattutto quando li si mette a confronto con la modernità. Ad esempio, quando uno di loro si rammarica di dover utilizzare il water, per via di tutto quello spreco di letame!

Se devo fare una critica, a parte l’eccessivo romanticismo della prima parte (due si vedono e si innamorano per la vita…. ma va là!), è che nella seconda parte tutto va più veloce. Forse proprio per star dietro alla Storia e a tutti i suoi eventi (guerra in Corea, in Vietnam, persecuzioni dei comunisti in America, rivolgimenti sociali in Cina…), i personaggi vengono trattati un po’ meno in profondità: ad esempio, quando Stephanie torna negli USA e si prende un amante. Voglio dire: è una decisione importante, visto che sei sposata, no? Però il fatto viene liquidato prima con un telegramma e poi con due paginette.

Fine tragica.
Ma con un filo di speranza.

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