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La gabbia d’oro – Tre fratelli nell’incubo della rivoluzione iraniana (Shirin Ebadi)

Shrin Ebadi, iraniana, era un giudice: l’hanno licenziata perché una donna non poteva rivestire un ruolo del genere. Per la sua lotta per i diritti civili, le è stato conferito il Premio Nobel nel 2003. Ma la storia che racconta in questo libro non parla di lei. Parla di una famiglia di suoi amici.

Padre e madre che cercano di tenersi lontani dalla politica, la figlia Parì, amica intima di Shirin, che cerca sempre di far ridere. E poi tre fratelli, che lontani dalla politica non riescono a stare, arrivando a non rivolgersi più la parola.

Il più grande, fedele allo Scià, dovrà emigrare negli Stati Uniti e morirà dopo l’ennesima delusione. Il più giovane passerà agli ordini del potere islamico, facendosi crescere la barba e parlando a slogan come il suo mullah. Il figlio di mezzo invece si dedicherà anima e corpo a combattere a favore di ideali comunisti.

Non finisce bene, la storia di questa famiglia. Vi risparmio i dettagli, ma potete immaginarli com’era (e com’è ancora) la vita in un paese teocratico che non ammette la libertà di parola: torture, guerra, esilio, sicari, isolamento, errori giudiziari…

A proposito di errori giudiziari. Nel libro si racconta la storia di un anziano zio che era un oftalmologo: arrestato per errore (il suo nome comparire in un’agendina di un conoscente di un sospettato), esce dal carcere e sfugge alla morte per un puro caro. Riunito ai famigliari racconterà di quando doveva lavorare in carcere.

“Come mai c’erano tante persone malate agli occhi? Non è un’epidemia insolita?” (…)

“Sono le conseguenze della fustigazione. Alle frustate può seguire uno shock nervoso che causa lo scoppio delle vene nel cuore, nei reni e negli occhi. Se non si cura immediatamente l’emorragia, il paziente può restare cieco.”

La gabbia d’oro del titolo è la gabbia dell’ideologia. Quando i tre fratelli abbracciano le rispettive ideologie, smettono di parlarsi, e anche quando si parlano, non si capiscono. E’ come se ogni parola sbattesse sulle sbarre di una gabbia d’oro, che fa sentire al sicuro chi si è rifugiato all’interno ma che impedisce ogni contatto con l’esterno.

E noi, di quali ideologie soffriamo?

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Sottomissione (Michel Houellebecq) @libribompiani

Libro molto chiacchierato perché parla della presa del potere da parte di un partito islamico in Francia ed è uscito il giorno dell’attacco terroristico a Charlie Hebdo.

Ne ho sentito parlare da alcuni Youtuber, anche termini molto diversi tra loro, e questo è segno che il romanzo dà adito a molte interpretazioni.

La storia non è complicata: Francois è un professore universitario esperto di Huysmans. Insegnare non gli è mai interessato, ma la carriera accademica è ben pagata, prestigiosa, e gli permette di venire in contatto con molte studentesse che gli regalano relazioni tanto focose quanto brevi.

Vive da solo, non ha amici, ha tagliato i ponti coi genitori, mangia cibo surgelato e non si interessa di politica, finché (siamo nel 2022!) un islamico vince le elezioni presidenziali.

La Francia inizia a cambiare: viene ammessa la poligamia e pian piano si modifica l’abbigliamento delle persone che si vedono per le strade; le donne non possono più lavorare e all’università possono insegnare solo professori islamici.

Francois perde il lavoro, ma non si spaventa per niente, perché gli viene data una buona pensione e potrebbe continuare a vivere così.

Ma vivere come?

Non ha interessi, non ha amici, è un uomo senza scopo che ormai pensa al suicidio.

Non vi dico come finisce, anche se si può intuire.

E’ un romanzo sulla sottomissione delle donne all’uomo e dell’uomo alla religione; del ritorno dell’irrazionale, dell’aborrimento della laicità. Ma Houellebecq non ha forse azzeccato alcune tendenze?

Di recente negli USA è stata abolita una famosa sentenza che permetteva alle donne di abortire: non è questa sottomissione delle donne all’uomo?

Le famiglie sono sempre più nucleari, e l’individualismo prevale (di solitudine non parliamo): venute meno le grandi religioni, niente le ha sostituite, se non la grande distribuzione: non è mancanza di senso questa?

E poi, fate attenzione: come ha intenzione di prevalere la religione musulmana nel romanzo? Prendendo il controllo della cultura, della scuola, dai gradi più bassi fino alle università. Tolgono i fondi alla scuola pubblica, ridimensionandone di molto la qualità, mentre le scuole private (islamiche), godendo di aiuti petrolarabi, sono l’unica scelta possibile per genitori che vogliono dare una cultura ai figli.

E’ così che si diffonde un pensiero.

E’ un romanzo, ci mostra il punto di vista di Francois, che non è proprio una bellissima persona: le donne gli interessano solo dal punto di vista sessuale, è cinico, ingeneroso… ma è interessante come, nella mente di Houellebecq, la mancanza di senso porti all’islam.

L’autore ha scelto l’islam, ma forse poteva mettere qualche altro tipo di religione dalle regole ferree e irrazionali (come, a mio parere, sono tutte le religioni: irrazionali). O forse no.

Fatto sta che il modo in cui l’islam, nel romanzo, sale al potere, è perfettamente legale: attraverso gli inciuci politici e – forse – il controllo dei media, che, pian piano, fanno accettare i cambiamenti all’opinione pubblica.

Se infatti ci sono dei tafferugli, all’inizio, Francois quasi non li nota, non ci pensa più di tanto: sì, va a casa di un tipo per star tranquillo, ma non mostra alcuna indignazione, alcun impeto a far qualcosa.

Francois è un intellettuale che potrebbe agire ma non agisce, perché più interessato alla cena da scongelare e alle mutandine della prossima studentessa che alla deriva del suo paese. Forse è questa la chiave di lettura del romanzo: non l’ascesa dell’islam, ma il ritiro dell’intellighenzia nelle torri d’avorio.

Mi chiedo se il romanzo non sia anche una critica velata alla troppa libertà che c’è in giro.

Libertà significa possibilità di scegliere, ma le scelte, in questo mondo, sono sempre più più, e ogni scelta è dolorosa, perché comporta almeno una rinuncia. E le rinunce creano angoscia, se la scelta non ha linee guida, se tutte le opzioni hanno lo stesso valore. Da qui, la necessità di sottomettersi a qualcuno che faccia le scelte per te.

Per chi non lo ha letto, è lo stesso processo di cui parla Fromm in “Fuga dalla libertà”.

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Il dolore innocente (Vito Mancuso)

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Se Dio è onnipotente, perché permette il dolore innocente e, in particolare, l’handicap? Forse non lo impedisce perché non è onnipotente?

Sono domande che teologi e credenti si pongono dall’alba delle religioni.

Secondo l’OMS, nel mondo nascono circa 8.000 bambini al giorno con qualche forma di handicap, dalle più lievi alle più gravi. E Dio che fa?

Mancuso, teologo laico, ha affrontato il problema dopo la morte di quello che, se fosse nato, sarebbe diventato suo figlio: cercando una risposta tra gli scritti cristiani, si è accorto che mancava un testo che approfondisse direttamente la questione.

Mancuso si dedica prima a una carrellata storica, esaminando le varie risposte che sono state date nei secoli e tra le religioni principali.

Esaminiamo le varie possibilità.

O Dio vuole la sofferenza innocente, o non la vuole.

Se la vuole, ci possono essere varie ragioni, così riassumibili:

  • punizione: per secoli la nascita di un figlio disabile viene fatta risalire a qualche malefatta dei genitori, soprattutto di natura sessuale
  • previsione: per secoli, in varie religioni, la nascita è considerata il segnale di qualcosa che doveva succedere
  • salvezza: la sofferenza diventa un ostacolo da superare per mondare dai peccati, propri o altrui.

Se Dio non vuole la sofferenza innocente, allora la stessa si verifica a dispetto (o con il permesso) divino (ma non approfondisco qui le varie ipotesi).

L’analisi storica delle varie risposte alla domanda iniziale occupa gran parte del saggio, fino a pag. 141 (su 209 pagine totali).

Quando poi Mancuso arriva alla sua conclusione, a mio modesto parere, non convince del tutto.

Prima ricorre al concetto di Contraddizione, che é un elemento essenziale della natura e della religione cristiana: pensate a una cellula che deve morire per permettere la sopravvivenza dell’organismo (apoptosi), o a una stella che deve esplodere per espandere nell’universo gli elementi chimici che renderanno possibile la vita, o a Gesù che era Dio e uomo, e che muore per far vivere… (e già qua, mi si chiede di tornare ai dogmi, dunque si abbandona il ragionamento logico seguito fino a poche pagine prima).

la legge che governa lo svolgersi della vita sulla terra è basata sulla morte

Poi considera l’handicap come la notte dello spirito, un passaggio necessario per far tabula rasa di nozioni e false credenze prima di arrivare alla vera conoscenza/illuminazione.

E infine si aggrappa alla Libertà, sommo concetto che, sembra, il nostro Dio ha tenuto in massima considerazione: il Dio cristiano sarebbe un dio impersonale che al momento della creazione ha dato delle informazioni top-down ma che poi si è ritirato per lasciar lavorare l’uomo e la natura in completa libertà.

L’unica condizione è che Dio, per far nascere la libertà della natura, rinunci a manifestarsi come persona, ma si manifesti solo come deitas, come principio divino impersonale, che agisce solo immettendo informazione top-down.

Sbaglio o questa frase si sconfessa da sé? Se Dio è impersonale, se non ha individualità, allora come fa a “rinunciare” a manifestarsi come persona? La rinuncia è una decisione che presume una persona che prende atto di varie opzioni tra cui scegliere. Dunque la persona c’era prima, e poi è scomparsa perché ha deciso di fare così?

Forse non ho una formazione sufficiente per capire certi passaggi.

Riassumendo: la natura tende alla Vita in un processo di prove ed errori.

Ma allora, perché continuiamo a parlare di Dio e a tenere in piedi istituzioni enormi come le gerarchie ecclesiastiche?

Continua a sfuggirmi qualcosa.

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Ciò che credo – Hans Kueng

Hans Kueng, uno dei teologi più controversi (per la chiesa cattolica, che prende in malo modo molte delle sue critiche), con questo libro ci racconta in cosa crede davvero, al di là della dottrina ufficiale e dei litigi che si è trovato ad affrontare in decenni e decenni di lavoro.

Perché Hans Kueng, nonostante tutto, rimane cristiano-cattolico.

Credo – e anche lui lo afferma – che gran parte della sua fede sia fatta di un nocciolo duro composto dalla sua Fiducia di fondo: nella vita, nelle persone, nel mondo. E’ una fiducia che viene messa alla prova, ma che è sempre là. Tuttavia, non la può spiegare, e queste 344 pagine di libro non mi hanno convinta.

Come si può nutrire ancora fede in un mondo che non fornisce nessuna prova a favore dell’esistenza di un Dio? Ebbene: Kuengle prove se le cerca. Nelle scienze naturali, nella musica, nella matematica…

Ci convince?

No, perché, più che di prove, si tratta di indizi e deduzioni personali, e perché, come non si possono fornire prove dell’inesistenza di Dio, non si possono fornire neanche prove per la sua inesistenza. Niente di nuovo, dunque, qui.

Non ci convince neanche quando passa alla Teodicea, quella branca della teologica che si occupa della… giustificazione di Dio. Cioè: se c’è così tanto male nel mondo, come può essere Dio onnipotente? Se è onnipotente, allora non è buono, perché non ci protegge da uragani e olocausti. E se è davvero buono, allora non è onnipotente, perché comunque non ci aiuta.

Devo dire però che ho ammirato la sincerità di Kueng, quando ammette, semplicemente, che la teodicea non si può spiegare.

Il suo modello, è il Gesù storico: è un modello da seguire soprattutto per quanto riguarda la sua capacità di accettazione del male inevitabile e la sua capacità di amare anche i nemici. Secondo Kueng, la figura storica di Gesù (attenzione: storica, non “tradizionale, ortodossa”) è ciò che lo fa restare cristiano.

Non capisco.

Non è necessario essere un cristiano cattolico per prendere Gesù come modello: è un personaggio la cui grandezza è riconosciuta anche la di fuori della nostra religione. E il messaggio di amore che viene portato avanti dalla chiesa cattolica, non è esclusivo (senza parlare di tutti gli scandali in merito a pedofilia e denaro).

Non capisco neanche bene la sua scelta tra un Dio persona e impersonale. Una volta accettato che Dio esiste, la distinzione non è oziosa: se dio è personale, allora ha senso rivolgersi a lui con la preghiera. Se non lo è, acquista più significato un atteggiamento simile alle meditazioni/contemplazioni orientali.

Voglio dire: per Kueng Dio non è persona (non nel senso comune del termine, perché non ci si può sempre riferire all’esperienza quotidiana), tuttavia, lui prega (anche se si adatta le preghiere a modo suo).

Se poi voglio finire la lista dei punti su cui sono in disaccordo, eccone altri due:

  • Kueng dice che non esistono gli extraterrestri. Lo dice in una frase molto perentoria, dopo aver specificato che lui si è anche dedicato all’astronomia. Ma ho l’impressione che ne escluda l’esistenza per elevare il significato dell’esistenza dell’uomo, più che per reali deduzioni scientifiche (come puoi escludere che la vita esista in galassie e pianeti lontanissimi? E’ una questione statistica, di probabilità…).
  • Dice che non si potrà mai eliminare la sofferenza animale, perché, alla fine, l’uomo deve mangiare. Falso. Si può vivere benissimo senza mangiare gli animali.

Direte: ma se non sei d’accordo su quasi niente di quello che dice, per cosa lo leggi?

Beh, è una persona colta, che ha studiato per una vita intera. Magari è fuorviato dalle sue credenze (questa benedetta fiducia di fondo…), ma si è dato da fare.

E poi, è stato coraggioso: quando qualcosa non va nella chiesa cattolica, lui lo dice.

Ad esempio: ho visto un’intervista di recente, in cui ammetteva di essere malato di Alzheimer. Ha dichiarato che quando sarà il momento, lui vorrà decidere come morire.

Si è dichiarato contro l’infallibilità papale e ha spiegato l’inconsistenza dell’immacolata concezione e del peccato originale. Non condivide che la chiesa cattolica sia ancora contraria all’entrata delle donne nel clero e ribadisce che la resurrezione di Cristo non va intesa come rianimazione di cadavere, ma in senso più profondo.

(…) mi rifiuto categoricamente di sostenere, sulla base di una comprensione maschile di Dio tipicamente romana, l’impossibilità e l’inadeguatezza dell’ordinazione delle donne, che ritengo conforme alle scritture e ai tempi.

Tra due giorni è Pasqua: quanti di quelli che andranno a messa sono ancora convinti che il cadavere di Gesù sia uscito coi propri piedi dal sepolcro? La maggioranza, temo.

Parliamo di aborto?

Oggi (…) si sostiene – appunto più in base ad argomenti teologico-dogmatici che non medico-biologici – che anche la cellula-uovo fecondata è già persona, concezione che ha avuto come conseguenza un inasprimento circa la questione dell’aborto.

E poi ci sono alcuni passaggi in cui se la prende con lo sfruttamento mediatico della personalità papale e delle (presunte) reliquie (Notre-Dame: tutti preoccupati per la corona di spine di Cristo, mi raccomando): tutti sintomi di una fede ancora infantile, non adulta né responsabile.

Insomma, non andrò a messa neanche questa Pasqua, ma le persone che “cercano” mi piacciono.

Anche se alla fine giungono alla conclusione che qualcosa esiste solo perché

Io sono convinto che la mia vita è stata più felice con Dio piuttosto che senza.

Forse la mia è solo invidia.

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Chi sono i terroristi suicidi, Marco Belpoliti @GuandaEditore

Questo breve libro è una raccolta di testi scritti per lo più in occasione dei tanti attentati successi negli ultimi anni (Bataclan, Charlie Hebdo, Bruxelles…). E’ un’opera di pubblica utilità: ci aiuta a non rifugiarci nei clichés e a ragionare sugli avvenimenti.

Belpoliti cita molti altri autori, destreggiandosi tra letteratura, sociologia, filosofica, antropologia, storia, psicologia sociale.

Certi articoli ti fanno pensare in modo particolare. Ad esempio, il primo, “Eccesso”. Si ricorre all’eccesso, per uscire da un sistema incerto, che oscilla su posizioni poco chiare, come può essere la situazione di un adolescente o di un giovane (non è un caso che quasi tutti i terroristi suicidi siano giovani), ma anche, più in generale, in un ambiente in cui mancano degli ideali a cui appellarsi.

E allora, l’uomo della strada occidentale, così laicizzato, odia sì i terroristi, ma siamo sicuri che non ci sia, sotto sotto, anche un po’ di invidia per gli chi ideali, comunque, ce li ha? Siamo sicuri che i terroristi siano, come forma mentis, poi molto lontani da noi?

E ancora: perché lo fanno?

Belpoliti sottolinea un concetto: il suicidio purifica l’omicidio. Un terrorista suicida che pur uccida un bel po’ di infedeli ma che non riesca ad uccidere se stesso, ha comunque fallito.

Chi sono?

Molti sono giovani, o giovanissimi. Di solito sono gregari (i leader non fanno attentati suicidi, si limitano a organizzarli). Spesso hanno studiato (molti sono ingegneri, e Belpoliti spiega bene perché). Tutti stanno attenti a creare il proprio storytelling: con testamenti video, facendo appello al sentimento di vendetta, passando per vittime dei nemici.

Dunque non sono “sradicati” nel senso comune del termine. Sradicati, però, lo sono nel senso che con loro è inutile appellarsi alla realtà, perché è ciò che loro vogliono combattere.

Infine, un altro importantissimo elemento in comune che uniforma i terroristi suicidi islamici con altri in altre parti del mondo è la rinuncia a controllare il proprio io: abdicano il potere di scelta ai propri leader. Torna anche qui l’attualità di un testo che non smetterò mai di suggerire per capire tantissime dinamiche dei comportamenti umani: “Fuga dalla libertà” di Erich Fromm.

Belpoliti non fornisce soluzioni, ma attira la nostra attenzione su due punti fondamentali: non ci sarebbero martiri senza storytelling e senza appoggio di una comunità.

Se questa non è una soluzione, è comunque una direzione a cui guardare.

Ps: bellissimo l’ultimo capitolo, intitolato “Cosa leggere”. Una specie di bibliografia ma con piccole note che ti indirizzano verso nuovi libri e articoli. LOL!

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Dio, una storia umana – Reza Aslan @rizzolilibri

Un libro che è al tempo stesso un ampio resoconto di storia delle religioni e un personale percorso spirituale.

Aslan parte dagli inizi, da come l’uomo ha creato la religione, parla del bisogno di spiegare e ingraziarsi i fenomeni naturali, dell’innata credenza nell’anima separata dal corpo, e dell’incremento del pantheon degli Dei in varie parti del mondo, per arrivare alla fine (ma non dappertutto) al concetto di unico Dio.

Aslan ci dice che Dio è a nostra immagine, ed è ovvio: Come ci si può immaginare Dio se non lo si associa a qualcosa che già si conosce? Cosa si conosce meglio di se stessi? Ma dare agli dei i nostri stessi vizi e virtù, può risultare controproducente, a volte ottiene effetti ridicoli, ed ecco, nei secoli, sollevarsi l’esigenza di un Dio unico, che ricomprenda in sé tutti gli aspetti dell’umano.

Il monoteismo (che è diverso dalla monolatria) ha fatto una fatica bestia a farsi accettare: la gente semplice non lo comprendeva, non riusciva a concepirlo proprio. Il primo tentativo di monoteismo è sorto in Egitto, nel 1300 a.C, ed è finito male, col popolo che ha distrutto le statue del faraone che ha provato a imporlo. Il secondo tentativo di monoteismo è arrivato dalla Persia (l’attuale Iran) con Zoroastro, e anche lui, col suo Ahura Mazsa, ha ottenuto pochissimo successo: pensiamo che nei primi dieci anni della sua predicazione è riuscito a convertire solo un suo cugino…

Un monoteismo più duraturo lo mettono in piedi gli ebrei, anche se la storia non è così granitica: gli ebrei all’inizio erano politeisti. Se alla fine optano per un Dio unico, lo fanno dopo il primo esilio, scegliendo Jahvè (che tuttavia per un pezzo farà fatica a distinguersi da El/Elhoim), più per bisogno di unità che per motivi spirituali.

A quel tempo non si fronteggiavano solo gli eserciti, ma anche gli dei: nello scontro Jahvé-Marduk, aveva vinto quest’ultimo. E gli israeliti non sapevano spiegarselo… perciò si son detti: ma certo, abbiamo perso perché non ci siamo dedicati al vero Dio, Jahvè, ma abbiamo adorato anche gli altri…

Ecco perché Jahvè si definisce Dio geloso: per giustificare la sconfitta contro i babilonesi! Così, una volta fatti schiavi e mescolati a decine e decine di altre etnie, si sono stretti attorno al Dio prescelto: facendo questo, hanno potuto continuare a riconoscersi come popolo.

Ciò non significa che tutti gli israeliti venerassero davvero solo un dio, e il racconto del vello d’oro è significativo in questo senso: era un tentativo di tornare agli dei originali mentre Mosè (di cui non abbiamo tracce archeologiche, e che viene nominato solo nella Bibbia) andava a prendere le tavole della legge.

Con l’avvento del cristianesimo i casini sull’unità/trinità di Dio aumentano e non di poco: se si arriva a una conclusione univoca, è perché si dice: “E’ così, è per fede”, e si chiude la questione.

Aslan fa degli interessanti parallelismi tra nascita del monoteismo e nascita di un sistema morale (prima la religione non si interessava di moralità vera e propria, non c’erano sistemi di punizione/premiazione post-mortem).

Trovo interessante anche i tentativi messi in piedi dalle varie religioni per giustificare ognuna la propria visione di Dio: di chiacchiere ne hanno fatto non sono i nostri (marcioniti, agnostici ecc…) ma anche i mistici/religiosi altrui (sufi ecc…).

E’ un libro che affronta molti tempi ma in maniera semplice, adatta anche ai non-specialisti. C’è un punto in particolare che mi ha fatto sorridere.

Quando Mosè parla con Dio al roveto ardente, Dio gli si presenta come Jahvè, il dio di Abramo, Isacco e Giacobbe. Ma, dice Aslan, Abramo, Isacco e Giacobbe non sapevano neanche chi fosse, ‘sto Jahvè, perché loro adoravano, tra gli altri, El, non Jahvè!

La storia delle religioni è affascinante perché le religioni si impongono a dispetto di tutto, specie a dispetto della loro mancanza di vantaggio evolutivo: Aslan menziona Durkheim, Freud e altri, per elencare i motivi possibili di questo successo planetario, ma non si giunge mai a una conclusione univoca.

Un sola cosa sembra chiara: l’idea che siamo anime incarnate è universale ed è sempre esistita. Non si sa da dove arrivi questa idea, si sa solo che c’è sempre stata.

Affascinante.

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Le cose che non ho detto, @azarnafisi @adelphiedizioni

Che meraviglia, che sincerità! L’autobiografia di Azar Nafisi, l’autrice di Leggere Lolita a Teheran, si legge come un romanzo e fa riflettere come un saggio.

La narrazione è incentrata sulla sua famiglia ma in un paese come l’Iran era impossibile ignorare la situazione culturale e politica.

Azar Nafisi ha sempre avuto un rapporto conflittuale con la propria madre, donna bellissima ed intelligente ma scontenta della propria situazione e tendente a rifugiarsi in un passato idealizzato, anche a costo di tacere a se stessa certe realtà. Adoro leggere di ragazzine che si ribellano e che, al tempo stesso amano i propri genitori, perché è nella natura umana fare così, sebbene la Nafisi e sua madre abbiano avuto degli scontri davvero intensi.

Noi, quando raccontavamo una bugia, sapevamo di mentire, mentre lei non se ne rendeva neppure conto.

Farei torto al libro se cercassi di riassumere in poche righe questo rapporto controverso; però, leggendo della Nafisi che cerca di calarsi dal secondo piano del collegio svizzero e che cade facendosi parecchio male, mi è venuta la curiosità di andare a vedere su youtube come è, di persona, questa scrittrice. E mi trovo davanti a una signora compostissima, emotiva e dolce. Nonostante tutto quello che ha passato!!

Era legatissima al padre, che è stato sindaco di Teheran e che poi è stato incarcerato sotto false accuse. E’ stato lui a introdurla al mondo della letteratura tradizionale persiana.

Il rapporto della Nafisi coi libri è stato sempre molto intenso, direi quasi un bisogno fisico: questo è un aspetto che me l’ha resa molto vicina. Considerando la situazione politica iraniana, la guerra di otto anni con l’Iraq, Khomeini, gli assassini, le torture e la situazione delle donne nel suo paese, le difficoltà di tenere aperte le università laiche, è semplicemente meraviglioso che la Nafisi abbia dato così tanta importanza alla letteratura.

Anzi, la letteratura per lei va considerata come un vero e proprio antidoto all’assolutismo, ne ha fatto una bandiera del suo pensiero. Alla letteratura lei è sempre rimasta fedele, anche se sono cambiate le sue letture e anche se, lo ammette lei stessa, ha fatto i suoi errori politici (come, ad esempio, quando è andata a manifestare contro lo Scià senza rendersi conto che l’alternativa era lo stato Islamico di Khomeini).

 

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Joseph Anton – Salman Rushdie

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I can understand the need of Rushdie to write such a memoir after what he had experienced.

Frankly speaking, I am not a great fan of his books: I started to read “The Moor’s last sight” but I did not manage to get the end. Too difficult for me, I lack English-based culture and a lot of foreign references. And although I do not particularly like authors and comedians who tease religions but… you cannot kill people for this!

In this memoir Rushdie is astonished by the journalistic attack and fact that his book Satanic Verses is considered as an insult, and not as a literature piece, as if he had writter hundred of pages just with the aim to tease the prophet.

But I think that such a memoir is rather repeating: you cannot write all those trials to collect political support, because at the end all those names, all those back and forth become boring. I know that you have to let the reader understand what you have been through, but once you said that “reading is about joy”, and I assure you that 649 pages on this matter are too many.

On the other hand, I loved the parts where he described his meeting with other writers: Christopher Hitchens, A. Roy, Susan Sontag, Paul Auster, H. Pinter, Nadine Gordimer, and many, many others. I mean: I do not find people who read books, and there you see a group of people who write books!

In general, this memoir balances itself between resentment against people and institutions and newspapers that did not support him during the fatwa period, and love for people who helped him. Sometimes, between the lines, I thought to read too much resentment, as if the memoir was a broad road to take his revenge, a place where he could express his point of view against the haters. I can understand it, although I did not like it.

So: an interesting memoir. But let me utter my tip to the author: please be quiet with young and nice-looking girls. I am talking about his last wife, Padma, the model. How can such an intellectual loose all his mind on a woman who has nothing in commong with him on a literature level? (Although I think that we should also listen to her version of the story, I do not think that such a beauty goes very deep with her readings..)

No matter how many books you read: if you have not born wonderful, you have no chance to become a friend of any of your literature heros. Maybe you can meet them at a book event, but they forget you, if you are not like Padma or Elizabeth. This is the lesson that I go on receiving.

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Un cappello pieno di ciliegie – Oriana Fallaci

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Se invece di un maschio mi fosse nata una femmina, l’avrei chiamata Oriana. Questo proposito si era affievolito un po’ dopo aver letto la serie di libri contro l’Islam (posizione troppo estremista, secondo me), ma ora che mi sono bevuta questa saga, il proposito potrebbe rinnovarsi (potrebbe: ma non se ne parla di ricominciare con pannolini e pappette).

Il progetto del libro ha tenuto impegnata la Fallaci per anni: non mi meraviglio, viste le ricerche che sono state necessarie per raccogliere dati sui suoi antenati. I dati che non è riuscita a trovare, li ha integrati con la fantasia, e glielo perdoniamo, visto che uno dei suoi comandamenti era Mai Annoiare Il Lettore.

Ho trovato molto dolce la tecnica del fingere i ricordi in prima persona: la Fallaci spesso scrive infatti che si ricorda quando era questo o quell’avo e che ricorda come erano le strade e gli ambienti di quando viveva quella vita, quasi si trattasse di vari passaggi di reincarnazione, anche qua la religione non c’entra nulla. Parla di geni e cromosomi che si tramandano di generazione in generazione, di aspetti del carattere che ora lei ritrova in se stessa, dello stesso male che metterà fine alla sua esistenza.

Nel suo passato ci sono avi combattivi e remissivi, ma lei riesce a farceli sembrare tutti degni di nota, tutti interessanti, tutti con qualcosa da raccontare al mondo. E questo lo trovo consolante: anche la vita più insipida può diventare importante se vista con la lente della prospettiva, se considerata come l’anello di una catena che non sappiamo mai dove arriverà.

Ovvio che un po’ di curiosità nasca quando si legge dell’avo famoso, ricco, ma tanto famoso e tanto ricco, la cui identità lei non può rivelare perché l’ha promesso a sua nonna sul letto di morte. Non può essere Cavour perché era già morto quando sua nonna è stata generata; non può essere neanche il re, perché in un passaggio la Fallaci spiega che muore e nello stesso periodo muore anche il suo bisnonno (dunque sono due persone distinte, se non ha voluto farci uno scherzetto per sviare i sospetti). E’ qualcun altro. Ma non importa chi fosse, importa solo che non ha dato il nome e la famiglia alla nonna di Oriana, e che bisnonna, Anastasia, sia scappata nel Far West a fare quello che ha fatto.

Questo romanzo è incompiuto, non è riuscita ad andare al di là della morte di Anastasia ed è stato pubblicato solo perché l’autrice ha consegnato tutti i dattiloscritti (con tanto di note e post-it) al nipote che se ne è preso cura.

Non è un libro per tutti, so di gente che lo ha abbandonato perché ci sono molte parti dedicate alla storia, ma chi arriva alla fine ne esce arricchito. Non di  date e nozioni: bensì di un generale senso di calore, quel calore che la Fallaci ha regalato a tutti i suoi bisavoli e trisavoli salvandoli dall’oblio.

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Je ne suis pas Charlie

Fonti bibliografiche del post

Fonti bibliografiche del post

… O meglio, sono Charlie perché sono contraria agli assassinii in nome di Dio, alle donne, sfigurate, rinchiuse, picchiate, allo stato e all’estremismo religioso ecc… ma non sono Charlie per quanto riguarda lo strumento di questa opposizione: la satira.

Nella raccolta di articoli “Noi e l’Islam” tutti si dichiarano a favore della libertà di espressione, anche se supera i limiti, anche se offende.

(…) sarebbe un errore grave dividersi oggi sulla libertà d’espressione, che va difesa sempre, anche quando diventa libertà di dissacrazione.

Questo lo dice Aldo Cazzullo, e altri (non a caso quasi tutti giornalisti) lo seguono sullo stesso tono. Ma chi ha deciso che in nome della libertà di espressione si può scrivere qualunque cosa?

Poi, un giornalista francese, Bernard Henry Lévy, chiama le vittime di Charlie “martiri dell’umorismo”. Beh, martiri sì, e chi li ha resi tali deve essere punito in modo esemplare; ma non dell’umorismo. Ripeto: qui siamo nel campo della satira. Guareschi era un umorista, Charlie Hebdo no.

Non si tratta neanche di ironia. L’ironia getta dei ponti di comprensione con il “bersaglio”: crea una specie di unione tra chi la fa e chi la riceve perché presume l’intelligenza del destinatario, dunque una specie di parità. Chi fa satira, al contrario, non unisce nulla. Anzi: pianta paletti di confine, separa.

L’ironia interroga, critica, autocritica; ed è spesso portata avanti da chi è esso stesso parte di ciò su cui ironizza. La satira, invece, giudica, difende una morale comune, o la morale dell’autore. Socrate era ironico non perché voleva che la gente amasse Socrate, ma perché voleva che la gente amasse la Verità, o almeno la ricercasse.

Il riso ha sempre uno scopo correttivo, stiamo attenti a ciò di cui ridiamo: una risata è un castigo sociale, e un castigo lo impartisce sempre qualcuno che si ponte su un gradino più alto: sia il bullo che ride del bambino che inciampa su un sasso, sia il giornalista che prende in giro un’altra religione.

C’è una guerra culturale ed ideologica in atto: non si calmeranno gli animi prendendosi il gioco dell’altra parte. La satira nel caso dell’estremismo religioso non è libertà di espressione: rende impossibile il dialogo e l’integrazione, e per di più offende anche i musulmani moderati, che potrebbero essere i portavoce più autorevoli per parlare con gli estremisti.

Edgar Morin dice che per facilitare la vera integrazione, servono più matrimoni misti. Può essere una delle strade: sono le emozioni che fanno muovere le persone, e la famiglia è una fucina di emozioni. Anche la satira, certo, smuove emozioni; ma verso cosa? Verso l’integrazione o verso una maggiore divisione?

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