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Longevità (David A. Sinclair)

Un saggio che parla di tutte le implicazioni dell’aumentata (e aumentabile) longevità umana.

Non aspettatevi un manuale su cosa fare per vivere di più: Sinclair è un professore di genetica che studia la longevità a livello molto, molto piccolo, e anche se ci spiega cosa fa lui per sentirsi giovane a 50 anni (e cosa fa fare ai suoi familiari), ci tiene a ribadire che queste informazioni non vanno prese come consigli scientifici di comportamento, perché la scienza lavora su altri piani.

Tuttavia, quando ci dice che le nostre cellule vivono di più con supplementi di NMN, di resveratrolo, vitamina K2, con il digiuno e l’attività fisica, senza fumo, consumando molta frutta e verdura ecc... lo fa sulla base di ricerche scientifiche (supportate da molte pubblicazioni).

Metà libro è dunque dedicato alla scienza vera e propria, mentre l’altra metà si occupa delle implicazioni sociali e psicologiche della longevità.

Ad esempio: se si muore meno, si rischia di peggiorare il sovraffollamento sulla Terra? Da calcoli matematici, sembra di no, perché la morte incide poco su questi numeri. Il problema del sovraffollamento umano è un falso problema: in realtà il guaio è dato dai consumi, non dall’aumento delle persone sulla superficie terrestre (problema che secondo lui è gestibile grazia alla tecnologia).

E poi:

“Negli ultimi decenni il tasso di crescita della popolazione umana è diminuito costantemente, principalmente perché le donne, che hanno migliori opportunità economiche e sociali, per non parlare dei diritti umani fondamentali, scelgono di avere meno bambini. Fino alla fine degli anni ’60, ogni donna sulla faccia del pianeta aveva mediamente più di cinque figli. Da allora quella media è diminuita rapidamente e con essa anche il tasso di crescita demografica.”

E come regolarci con il problema delle pensioni? Sinclair molto ottimista su questo: la longevità va vista come un aumento di anni di vita SANI, questo comporta che la vita lavorativa può essere prolungata e non sarà più necessario andare in pensione a 65 anni.

Questo aspetto l’autore lo tratta con un po’ troppo ottimismo, a mio parere. Lui pone l’accento sull’aumentata vitalità e sulla possibilità di dedicarsi, da anziani, ad attività che non abbiamo avuto la possibilità di curare da giovani, ma non ha preso in considerazione il fatto che la stragrande maggioranza della popolazione svolge lavori che non ha scelto in totale libertà e che abbandonerebbe volentieri.

Sbaglio?

Voglio dire: io faccio l’impiegata, non devo sollevare pesi, lavoro in un ufficio pulito con vista sul giardino, ma se mi dicessero che mi mancassero ancora 50 anni al pensionamento, credo che mi suiciderei impiccandomi al lavandino… Quanti di voi sono così fortunati da amare il lavoro che fanno?

Io cerco di far bene il lavoro che faccio, ma non posso proprio dire di amarlo o di essere appassionata del mondo del design: a me piacciono i libri, l’arte, le persone creative. Inserire ordini di decine di migliaia di euro e gestire reclami di clienti incazzati non mi fa battere il cuore; cercare codici di pezzi di ricambio e controllare gli estratti conto non mi fa sentire davvero me stessa. Mi adatto al sistema, come tutti, ma se ci fosse una scappatoia, beh, col cavolo che mi tirerei indietro (in realtà la scappatoia ci sarebbe, ma sto andando fuori tema).

Lui insiste sull’aspetto positivo di preservare le esperienze lavorative degli anziani come se ognuno di noi non vedesse l’ora di accumularle per elargirle alle nuove generazioni.

“L’opzione di lavorare a qualunque età – se e quando il lavoro fosse desiderato e necessario – offrirà una sorta di libertà che sarebbe stata incomprensibile solo alcuni anni fa.”

Anche no! Quel “SE” è una variabile enormemente importante!

Non fanno tutti lavori creativi e soddisfacenti come lui!

Ma questa è la mia opinione.

Un’altra riflessione riguarda i posti di lavoro. Molti credono che se la gente vivesse molto più a lungo e rimanesse al suo posto di lavoro per 10, 20, trent’anni in più, i giovani avrebbero difficoltà a trovare lavoro.

Ma anche questa è una considerazione fallace:

“Nel 1950, la quota di partecipazione delle donne alla forza lavoro era di circa il 33%, per la fine del secolo era quasi raddoppiata. Decine di milioni di donne hanno iniziato a lavorare durante quei decenni, ma questo non ha comportato che decine di milioni di uomini perdessero il loro lavoro.”

Gli aspetti affrontati da Sinclair spaziano dalla politica alla scuola, dalla sanità al lavoro, dal tempo libero al consumismo, dalla famiglia all’accumulo delle ricchezze.

Ma il punto su cui insiste, è che la vecchiaia dovrebbe essere considerata come una vera e propria malattia su cui investire per la ricerca.

Questo non succede principalmente perché una malattia – per essere tale – non può riguardare tutta la popolazione mondiale, ed al momento attuale è proprio questa la realtà. Sinclair sostiene invece che a livello cellulare e genetico non esiste nessuna legge che ci obblighi ad invecchiare.

L’invecchiamento deriva da un circuito di sopravvivenza che è sempre esistito: le sirtuine sono delle molecole che si occupano o della riproduzione o della riparazione. Non possono fare entrambe le cose. Se devono fare avanti e indietro tra un gene danneggiato e il sistema riproduttivo, alla fine la cellula non riesce più a riprodursi bene.

Ecco, se Sinclair leggesse questo riassunto, gli verrebbero i brividi, visto che lui ha impiegato centinaia di pagine per spiegare la sua teoria, ma io avevo bisogno di renderla in poche righe, dunque chiedo venia per le imprecisioni, e spero abbiate colto il messaggio.

Lui insiste che non è logico dedicare la ricerca scientifica a curare una malattia alla volta: curare una malattia alla volta ha scarsissimo impatto sulla durata generale della vita, perché in vecchiaia quando ti passa una malattia te ne viene un’altra.

Bisogna curare la vecchiaia!

Il limite dei 120 anni potrebbe, appunto, essere un limite di vita realistico, e non un’eccezione, come adesso.

Tutti sarebbero d’accordo nel vivere di più: se qualcuno adesso dicesse di non voler arrivare a 120 anni, è solo perché avrebbe in mente l’immagine degli anziani rinchiusi nelle case di cura, ridotti a muoversi su sedie a rotelle, con la bava alla bocca, incapaci di andare in bagno da soli.

Ma non è necessario che sia così.

La speranza di Sinclair dunque è che i governi imparino a considerare la vecchiaia come una malattia e a investire nella ricerca.

E’ anche la mia speranza (ma non per posticipare la pensione!!).

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La dieta smart food – Eliana Liotta

Avete presente quei regimi alimentari bilanciati, basati sulle evidenze scientifiche, che ammettono uno strappo alla regola ogni tanto e che si guardano ben bene dagli estremismi?

Ecco, questa è la dieta smart food.

Il consiglio principale è di basare almeno 3/4 dell’alimentazione su alimenti di origine vegetale e integrale. Poi ci sono i corollari: ad esempio, nel quarto di alimenti di origine animale, evitate le carni insaccate e lavorate, perché è scientificamente dimostrato che fanno male; e riducete al minimo (al minimo!!!) le carni rosse, per lo stesso motivo.

Sulle scelte stilistiche della Liotta, poi, si può discutere. Ad esempio, a me personalmente (ma è un’opinione personale) in un saggio alimentare non piace lo storytelling. Non mi piacciono le domande retoriche, non mi piace sentire le frasi troppo abusate come “che il cibo sia la tua medicina”, “è la dose che fa il veleno”, non mi piacciono ovvietà del tipo

L’idealtipo del magro si è imposto nella moda, nel cinema, nella pubblicità. E’ il canone della bellezza di quest’epoca.

Sapori e odori ammansiscono gli istinti primordiali, incantano il gusto, rimandano all’infanzia in una travolgente sinestesia, (…)

Nel mio particolarissimo gusto personale, nei saggi si dovrebbero evitare troppi fiorellini e abbellimenti, ma ammetto che, per chi non è abituato a libri su questo argomento, paragrafi così aiutano ad alleggerire la lettura.

Trovo poi abbastanza soggettiva la scelta dei 20 Longevity smart Food: non nego la loro efficacia, semplicemente credo che la lista sia molto “personale”:

arance rosse, asparagi, cachi, capperi, cavoli rossi, ciliegie, cioccolato fondente, cipolle, curcuma, fragole, frutti di bosco, lattuga, melanzane, mele, peperoncino e paprika, patate viola, prugne nere, radicchio, tè, uva.

Perché, ad esempio, non includerci anche l’astragalo e il ginkgo biloba che agiscono sulla lunghezza dei telomeri?

Nella seconda parte del libro, l’autrice si concentra sui consigli per i pasti, ma resta abbastanza generica e a volte manca di precisione.

Un esempio: per cereali e derivati si suddivide tra cereali in chicco, pasta, pane, cereali per la prima colazione e patate. L’autrice dà le dosi indicative per ogni regime (da 1700, 2100 e 2600 calorie) però non specifica se queste famiglie possono essere mangiate insieme nel corso della giornata; cioè posso fare 80 g di riso, 80 g di pasta, 50 gr di pane tutti nello stesso giorno? Credo di no, ma lo deduco io, perché all’inizio del libro ci aveva detto di riempire almeno metà piatto con verdura e frutta.

Ben vengano i test di autovalutazione e i consigli sulla cottura al fine di preservare al massimo i nutrienti di ogni cibo, e non si ripeteranno mai abbastanza avvertimenti come quello che segue:

lo zucchero bianco non è necessario alle nostre esigenze nutrizionali, è un piacere, punto e basta.

Resto però perplessa quando dice:

Anche il glutammato, finito sul banco degli imputati a più riprese, non c’è prova che sia tossico, cancerogeno o che induca allergie o emicranie.

Io preferirei puntare su un principio di cautela… insomma, non mi risulta che siano stati fatti molti esperimenti in merito. Nell’attesa, io preferisco evitarlo.

Discorso latte e latticini: lei non è contraria, con le dovute limitazioni per i formaggi stagionati. Cita The Cina Study di Colin Campbell e non lo appoggia in toto, perché si baserebbe solo su correlazioni.

Cita anche Valter Longo e la sua Dieta della longevità, ma ormai le dimostrazioni scientifiche sui benefici della restrizione calorica sono arcinoti.

In soldoni: con tutti i libri che ci sono sul mercato in tema di alimentazione, lo sappiamo o non lo sappiamo cosa, come, dove e quando mangiare?

Sì.

Equilibrio, varietà e contenimento dovrebbero essere i principi cardine.

Ma sapere una cosa e metterla in pratica sono due attività diverse. Bisogna considerare che le donne ormai lavorano quasi tutte fuori casa, che in Italia non si esce in compagnia se non si mangia, che l’apporto psicologico del cibo ha ormai surclassato quello nutrizionale, che la pubblicità ci martella gli organi genitali dalla mattina alla sera, e che i produttori di cibo devono vendere quello che esce dalle loro fabbriche.

Alla fine, vince la scelta personale, nel bene e nel male.

Però vi prego: non venite a dirmi che è inutile stare attenti a quello che si mangia perché l’aria è inquinata…

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La dieta che allunga la vita, Josep Lluis Berdonces

Di saggi in materia nutrizionistica ce ne sono tanti, ormai, per metterne in circolo ancora. Dunque non so che senso abbia pubblicare libri come questo che non dicono nulla di nuovo e che, per di più, non riportano nessuna fonte ufficiale.

Ma… per chi si approccia all’argomento per la prima volta, anche questo semplice libretto va bene!

L’autore è laureato in medicina (interessante che non scrivano “medico”) ed è specializzato in fitoterapia, dunque dà molto peso agli enzimi e ai cibi naturali e/o crudi, germogli inclusi, e fa precedere il tutto da un’introduzione generale sul funzionamento del corpo umano.

Segue una lista di malattie con relative spiegazioni e una lista di nutrienti con relative funzioni.

Ci sono però anche affermazioni un po’ controverse, come quando dice che il pane (glutine incluso) è un ottimo alimento e che i latticini e i succhi di frutta vanno bene, senza specificare meglio. O ad esempio quando dice che il pane di segale non offre vantaggi rispetto al pane bianco… a me risultava che avesse un carico glicemico più basso, ma nel libro questo aspetto non viene approfondito.

Insomma, non mi ha entusiasmato.

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