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Sotto cieli rossi – Karoline Kan

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Karoline Kan è nata nel 1989 pochi mesi prima del massacro di Tienanmen.

Massacro? Quale massacro?

Karoline non ne sa nulla fino a che, da adulta, non si mette attivamente alla ricerca di informazioni sull’evento del 4 giugno, un evento di cui in Cina non si può parlare né scrivere.

Fino ad allora, la sua vita è incentrata sulla sua famiglia e sulla scuola, e la sua famiglia è tutta dedita al miglioramento sociale, alla ricerca di condizioni di vita migliori, possibilmente in città, lontano dalla campagna che offre poche opportunità di guadagno e di divertimento.

Quella che ogni cinese sognava di vincere era la corsa alla metropoli.

Karoline è la seconda figlia, e questo la segna fin dalla nascita.

Nel 1989 infatti in Cina vigeva ancora la politica del figlio unico (rimasta in vigore fino al 2015): non si poteva avere un secondo figlio, a meno che il primo non fosse una femmina.

Sua madre nascose la gravidanza fin quasi al parto: la nascose agli stessi suoceri, coi quali lei e suo marito vivevano.

Un secondo figlio, vietato, comportava una serie di difficoltà: innanzitutto, per i trasgressori, c’era una pesantissima sanzione da pagare (causa di indebitamenti che duravano anni) ed era perfino possibile che al bambino non venisse dato l’hankou, una specie di carta di identità. In pratica, era un cittadino fantasma.

Senza hankou non si può fare niente, né andare a scuola, né trovare un lavoro, né prendere l’autobus. Nel 2010 in Cina vivevano ancora milioni di “bambini in nero”, non riconosciuti perché nati “illegalmente”.

Quando la famiglia riesce ad abbandonare il paesino e a trasferirsi in una cittadina più grande, le difficoltà non finiscono. Chi viene dalla campagna è comunque considerato un “immigrato”, uno “straniero”, e questo comporta una serie di conseguenze che accompagneranno Karoline fino a quando inizierà a lavorare.

Ma l’estraneità cinese ci viene descritta anche in altri campi.

Ad esempio: il nonno di Karoline, che era stato un fervente sostenitore del governo, ad un certo punto perse la fiducia nel socialismo, e si diede al Falun Gong, un movimento spirituale che in Cina assunse un’amplissima portata.

Era un movimento pacifico, ma il governo cinese non poteva lasciar sopravvivere al proprio interno un’organizzazione così ampia, e da un giorno all’altro lo rese illegale. E con l’illegalità, arrivarono anche gli arresti e le torture per gli adepti che si rifiutavano di rinunciare al loro credo: siamo alla fine degli anni Novanta, non nell’Ottocento.

E che dire dell’addestramento militare a cui Karoline e i suoi coetanei devono sottostare quando si iscrivono all’università nel 2008?

La Cina è un paese pieno di contraddizioni.

Karoline Kan, però, come altri scrittori cinesi, non rinnega il suo paese.

Certo, ne mette in risalto gli aspetti negativi, ma alla base c’è sempre una speranza di redenzione e una fiducia di fondo nei cittadini cinesi, anche se a volte persino lei si lascia prendere dalla rabbia davanti a un’amica che non si interessa dei diritti delle donne e del silenzio imposto sui fatti di Tienanmen, o rabbia davanti a usanze sociali difficili da estirpare:

I ragazzi avevano il permesso di conoscersi solo dopo uno scambio reciproco di informazioni di base che comprendevano età, altezza, livello di istruzione, ma anche età dei genitori o presenza di eventuali fratelli o sorelle da mantenere.

I cinesi non sono molto diversi da noi.

Anche loro si danno da fare per vivere meglio secondo gli standard di vita imposti dalla TV e dai social media. E anche i loro giovani sono in costante lotta contro le generazioni precedenti: è un aspetto che accomuna tutte le latitudini e tutte le epoche.

Anche se ci avevano inculcato l’idea del lavoro come strumento per “servire la nazione”, a conti fatti nessuno di noi la pensava così. Quello a cui aspiravamo davvero era il successo individuale, e tanti saluti alla patria.

Mi piacerebbe che questo libro venisse letto da tutti quelli che credono che i cinesi siano formichine pronte a lavorare anche di sabato e di domenica, ma un po’ tonte, disposte a farsi mettere i piedi in testa dallo Xinping di turno affinché la Cina diventi il primo paese al mondo.

Ci sono anche cinesi così, certo. Cinesi che credono alla propaganda ufficiale, che non si fanno domande, che supportano la repressione a Hong Kong, che odiano gli Stati Uniti perché nei libri di scuola è scritto che sono il loro nemico peggiore.

Ma ci sono anche italiani che credono che il Covid sia stato creato in laboratorio per distruggere i paesi nemici.

E niente, il mondo è vario.

PS: ho chiesto alla scrittrice: questo libro non è ancora stato pubblicato in Cina.

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Shock politics, Naomi Klein

Quando Katrina si abbatté sulla costa del Mississippi nell’agosto 2005, era stato abbassato da uragano livello 5 a un ancora devastante livello 3. Ma quando arrivò a New Orleans, aveva perso quasi tutta la sua forza, venendo declassato a “tempesta tropicale”.

(…) una tempesta tropicale non avrebbe mai sfondato le difese di New Orleans contro le alluvioni. Invece Katrina ci riuscì perché gli argini artificiali che proteggono la città non ressero. Perché? Oggi sappiamo che, nonostante i ripetuti allarmi sui rischi, il Genio militare aveva lasciato che i levees (argini, n.d.t.) non avessero una manutenzione sufficiente.

Attenzione: le case più esposte alla furia delle acque sarebbero state quelle nel Lower Ninth Ward, dove gli abitanti erano quasi tutti di colore. D’altronde, se fai una guerra sistematica al settore pubblico, è ovvio che i soldi non vanno alle infrastrutture di utilità pubblica (ma piuttosto alla polizia e all’esercito).

Cosa è successo dopo l’alluvione? Che tutte le strutture federali adibite ai soccorsi hanno fatto cilecca. Ci sono voluti cinque giorni prima che portassero cibo e acqua alle famiglie abbarbicate sopra i tetti.

Risultato:

I bisognosi, lasciati in città senza cibo né acqua, fecero quello che avrebbe fatto chiunque nelle medesime circostanze: si presero le provviste dai negozi del posto. Fox News e le altre testate ne approfittarono per definire i residenti neri di New Orleans “saccheggiatori” che presto avrebbero invaso le parti asciutte e bianche della città.

Dunque… bisogna difendersi, no? E allora ecco i poliziotti che sparavano a vista ai residenti neri e “bande di vigilantes bianchi armati che battevano le strade in cerca dell’occasione per dare la caccia ai neri.”

Per non parlare delle guardie private di compagnie come la Blackwater arrivate di fresco dall’Iraq.

Capito? “Guardie private“. In America si privatizza tutto (voi lo sapevate che anche molte prigioni sono private? E anche i servizi di addestramento dell’esercito e della polizia: sono i privati che addestrano i militari, incredibile).

E la Fema, l’agenzia federale adibita ai soccorsi? Si era appoggiata a un’agenzia privata per allestire i campi base per i soccorritori: allestimento che venne pagato 5,2 milioni di dollari e che non venne mai portato a termine.

Ma, direte, poi l’emergenza è finita. Sì, però, guarda caso, la tragedia è diventata la scusa per privatizzare quanto più possibile: largo alle multinazionali! Tra le prime istituzioni da privatizzare ci sono state le scuole. Milton Friedman, il teorizzatore del neoliberismo, lo ha detto chiaro e tondo, che l’uragano “è anche l’occasione buona per riforare radicalmente il sistema scolastico”.

Nel giro di un anno, New Orleans diventò il sistema scolastico più privatizzato negli Stati Uniti.

Ma non è finita qui.

Nei mesi successivi all’uragano

(…) furono abbattute migliaia di unità abitative pubbliche, molte delle quali avevano subito danni minimi perché si trovavano in un punto elevato, per essere sostituite da condomini e torri abitative dal costo irraggiungibile per chi aveva vissuto lì in precedenza.

E, ovviamente:

Per compensare le decine di miliardi che andavano ai privati come contratti ed esenzioni fiscali, nel novembre 2005 il Congresso a maggioranza repubblicana annunciò che doveva tagliare 40 miliardi dal bilancio federale. Tra i programmi falcidiati: prestiti studenteschi, Medicaid e buoni alimentari.

Scandalo isolato? Colpa dell’amministrazione Bush?

Purtroppo no.

Questo è solo uno dei tanti casi della deriva neoliberista che sta prendendo piede nel mondo.

In copertina vediamo la sagoma di Bush, ma Bush è solo l’esempio più visibile. La strategia è quella di creare o di approfittare di crisi esistenti per varare tutta una serie di politiche illiberali favorevoli a una minoranza di ricchi. E il guaio è che si tratta di un serpente che si morde la coda: la crisi del 2008, di cui stiamo ancora scontando gli effetti, è stata causata dalla deregulation voluta da Clinton. E tranquilli: sarà causa di altre crisi finanziarie simili.

Capito? Si riducono i controlli sulle banche, per favorire i loro profitti, e si mettono a repentaglio i risparmi delle famiglie. Goldman Sachs e Lehmann Brothers sono tra le aziende più rappresentate nell’attuale governo Trump!

Ma se vogliamo parlare del governo americano, possiamo tacere che nel suo esecutivo ci sono solo miliardari? E pieno di rappresentanti di multinazionali con palesi conflitti di interessi (come può la Exxon, i cui miliardi dipendono dal settore petrolifero, favorire le energie verdi?).

E Trump?

Oh, Trump (che si è pubblicamente vantato di aver evaso il fisco e il cui patrimonio non è noto) ha lasciato le sue aziende in mano ai figli, vero (anche se non ha rinunciato ai profitti che queste aziende producono).

Però attenzione: Trump è un logo. Un marchio. Lui guadagna sulle royalities che i costruttori gli pagano per usare il suo nome su un campo da golf o su un grattacielo. Trump non è più un immobiliarista: guadagna sui diritti di sfruttamento del suo logo.

Vi rendete conto che incassa miliardi ogni minuto che passa alla Casa Bianca? Che chi è in grado di pagare il suo marchio su un albergo, può dire “sul mio albergo c’è il nome del presidente degli Stati Uniti”?

Le multinazionali (e Trump è una multinazionale) non producono quasi più niente: fanno outsourcing (in Cina, India…) e appiccicano etichette. Poi, è tutta questione di pubblicità.

Trump… D’altronde, bastava leggere i suoi libri: vinci e schiaccia chi rimane indietro. Non lo dice in modo velato, signori miei. E’ la tattica che ha usato per fare i soldi. Se dobbiamo riconoscergli un pregio, è che è sincero: lo ammette. Ammette che ha frodato il fisco perché è più furbo di altri.

Allarghiamo la visione: e il settore ambientale? Il neoliberismo ne è infastidito. Diffonde finta scienza, nega il riscaldamento globale (negli Stati Uniti, sono stati chiusi tutti i siti governativi che ne parlavano!)… come se non ci accorgessimo che inondazioni e trombe d’aria ci minacciano sempre più spesso negli ultimi anni. C’è ancora qualcuno che non collega il riscaldamento globale al cambiamento climatico in atto???

Ma Trump (e quelli come lui sparsi in altri governi mondiali) dice che c’è bisogno di petrolio. Che bisogna continuare con le perforazioni e con la posa di condutture e con le trivellazioni polari.

Per ora va tutto a rilento. Ma tranquilli: è solo perché il prezzo del petrolio non è abbastanza alto, e le trivellazioni in zone ghiacciate costano un botto. I neoliberisti aspettano solo la prossima crisi (una guerra sarebbe perfetta!) per sfruttare l’aumento del prezzo del petrolio.

Crisi, shock: ecco cosa serve a questa gente. Scuse per privatizzare servizi pubblici. Per far guadagnare aziende private.

Che poi, diciamo Trump, ma noi in Italia abbiamo avuto Berlusconi: siamo caduti anche noi nell’illusione che un miliardario, per il solo fatto di aver costruito un impero, potesse voler guidare un paese per soli scopi umanitari.

Viviamo in un film della DC Comics? Crediamo ancora che possa esistere un miliardario filantropo alla Bruce Wayne che si sacrifica per i cittadini?

Naomi Klein fa appello a noi, poveracci. Perché, tutti insieme, possiamo fare qualcosa, fornire alternative. E il boicottaggio è solo una strada.

Nelle ultime pagine, Naomi Klein afferma che per attuare un cambiamento totale, abbiamo bisogno di più utopia, di più sogni, di più visioni grandiose; non di aggiustamenti minimi in direzione di una maggiore giustizia sociale (solo un pochetto di più). Mi sembrava un’affermazione un po’ ingenua, ma devo fissarmi da qualche parte questo pensiero di Eduardo Galeano:

L’utopia è come l’orizzonte. Mi avvicino di due passi, e lei si allontana di due passi. Faccio altri dieci passi e l’orizzonte si allontana di altri dieci. Per quanto io possa avanzare, non lo raggiungerò mai. Allora che senso ha l’utopia?

Il senso è: continuare ad avanzare.

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Nel guscio, di Ian McEwan @Einaudieditore

(Attenzione: spoiler!)

Non ho studiato l’Amleto ma ho visto che in questo romanzo ci sono molti richiami al dramma shakesperiano. Dal tradimento, ai nomi della madre a quello dello zio, dal tema dell’omicidio del fratello, al dubbio se convenga essere o non essere, nascere o non nascere.

La storia ci viene narrata da un feto nel terzo trimestre di gravidanza. Questo essere, che scopre solo ad un certo punto di essere un maschio, assiste alle trame della madre e di suo zio per uccidere suo padre.

Durante tutta la lettura, dentro di me, pensavo: non possono ucciderlo. Prima o poi verranno scoperti. Forse la madre sta fingendo, di voler uccidere il suo ex. Oppure: qualcosa andrà storto, il bicchiere col veleno verrà rovesciato, oppure John, il padre, raggiungerà un ospedale in tempo.

E anche quando scopro che in effetti il padre viene davvero ucciso, ho continuato a ripetere dentro di me: non può essere. Vedrai che è tutta una messinscena, che John si era accorto di cosa stavano tramando alle sue spalle e che non è morto davvero, fa finta, per portarli allo scoperto.

E invece no, mettetevela via: John muore. E la madre del bambino è davvero una stronza che mette le corna a John col fratello, insipido e insensibile ma… priapico, come dice il feto. E alla fine giustizia trionferà. Ma tu intanto hai letto questo romanzo come se fosse un giallo, girando pagina dopo pagina per vedere come va a finire, ascoltando questo feto  che parla come un neolaureato di Harvard e che non vede l’ora che sua madre si beva un vinello di un certo tipo per godersene gli effetti.

Le cose brutte accadono. Accade che la propria madre sia ingiustificabile, che sia un’omicida, e che non consideri proprio il figlio che ha in pancia (non è neanche mai entrata in un negozio a comprargli i vestitini!).

Ma accade anche che un feto, dopo tutto quello che ha imparato sui suoi parenti e sullo stato del mondo, decida di nascere.

Non è roba da poco.

(PS: ma cos’è ‘sta fissa dello spoiler??)

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Questa non è l’America – Alan Friedman

Ma perché leggo libri che poi mi innervosiscono? L’informazione non ha nessun senso se poi non puoi influire sulla realtà… comunque, facciamoci del male.

Friedman analizza gli Stati Uniti dell’era Trump.

Perché molti si dicevano che Trump si sarebbe dato una calmata, che dopo eletto si sarebbe piegato ai principi della Realpolitik e della diplomazia, che non poteva fare davvero quello che minacciava. E invece…

La società americana diventerà sempre più la società Walmart, composta da lavoratori nel terziario, quasi tutti nel settore dei grandi centri commerciali. Quasi tutti con lo stipendio minimo di 7,25 $ all’ora, dunque praticamente obbligati a ricorrere ai food stamp e all’Obamacare. Finchè ci saranno. Walmart, di proprietà della famiglia più ricca d’America, non accetta i certificati medici per maternità, e il licenziamento in gravidanza è più la regola che l’eccezione. E le clausole dell’assicurazione che la Walmart stipula per i suoi dipendenti prevendono che, in caso di risarcimento assicurativo esterno (cioè con assicurazione non-Walmart), la Walmart possa fare causa al dipendente per rifarsi delle spese sostenute (è il caso di un dipendente che ottiene un rimborso assicurativo per incidente fuori dell’orario di lavoro). E questi sono solo un paio di esempi…

Ma i punti che più mi hanno preoccupato non sono stati quelli relativi al razzismo contro i neri o i messicani, né le difficoltà dei poveri statunitensi (che in certe zone sono presi peggio dello Zambia o dello Zimbawe). Sono stati quelli che possono influire su noi italiani, o perché imiteremo gli americani fra cinque o sei anni, o perché ne verremo coinvolti nostro malgrado.

Ad esempio: le lobby farmaceutiche. In America sono già potentissime. I medicinali costano il doppio e una visita specialistica può arrivare fino a tre volte di quello che spenderemmo noi in privato. America: Shame on You. Se accettano questo in America, tra un po’ sarà naturale anche in Italia.

(…) gli Stati Uniti hanno una spesa medica pro capite superiore a quella di ogni altra democrazia industriale avanzata del mondo, in cambio di trattamenti nettamente inferiori.

(…) Negli Stati Uniti si eseguono circa il triplo delle mammografie rispetto alla media dei Paesi occidentali e si effettuano risonanze magnetiche in un numero superiore di due volte e mezzo, e quasi un terzo di parti cesarei in più.

Ad esempio: le lobby delle armi. Trump ha ottenuto un ingente aiuto dalla NRA (National Rifle Association), una delle maggiori produttrici di armi. Se negli States muoiono all’anno circa 300.000 persone per colpi di arma da fuoco, la cifra è destinata ad aumentare, perché questi signori, insieme a Trump, vogliono smantellare i già pochi controlli che ci sono sulle vendite di armi. Certo, qui andrebbe dato un giro di vite a tutto il popolo americano, se una delle mode imperanti è sfoggiare un fucile d’assalto nel salotto di casa; sta di fatto che molte stragi nelle scuole sono state fatte con fucili miliari che quasi chiunque può comprarsi. Ma non si possono apporre limitazioni: la maggioranza del parlamento è terrorizzata dai big delle armi, perché questi signori minacciano di non appoggiare più la tua campagna elettorale (lo stesso Obama si è sbottonato solo verso la fine del suo secondo mandato, quando non correva rischi). America: Shame on you!

Altra cosa che mi spaventa: Trump ha messo ai vertici di controllo del mercato finanziario cinque ex Goldman Sachs.

Non appena il governo Trump ha cominciato a prendere forma (…) Goldman Sachs ha visto il prezzo delle proprie azioni schizzare alle stelle.

Gente che ha causato la bolla finanziaria che ha portato alla crisi mondiale da cui non riusciamo più ad uscire.

Tra i loro obiettivi c’è lo smantellamento della legge Dodd-Frank del 2010, introdotta dall’amministrazione Obama sull’onda della crisi finanziaria. La Dodd-Frank vieta alle banche di utilizzare i depositi dei clienti per fare trading sui mercati finanziari con operazioni rischiose – ovvero, le pratiche speculative che sono state le prime responsabili della crisi stessa.

Perché, dicono Trump e i suoi amici, il mercato sa quello che fa, e bisogna deregolamentare. Togliamo i controlli, e gli operatori si regoleranno da soli. Certo, come no.

Ognuno di loro è fermamente convinto della necessità di tagliare le tasse sulle imprese e di rompere il più possibile i lacci che frenano Wall Street; ognuno di loro crede fermamente che si debbano scatenare gli “istinti animali” del mercato.

Guardiamo poi alla salvaguardia dell’ambiente, che oramai non riguarda più la sola politica interna. Trump ha nominato Segretario dell’Energia un certo Ryan Zinke, innamorato delle armi, negazionista del cambiamento climatico, contrario alle energie pulite (e sostenitore di petrolio e gas); un tipo che

Non ha lesinato sforzi per cancellare le misure federali a protezione di lupi, linci e galli della salvia, ha votato per esentare i grandi imprenditori dell’agricoltura e delle risorse idriche dalle limitazioni dell’Endagered Species Act, e ha combattuto ogni tentativo di porre fine al commercio dell’avorio sul mercato nero internazionale.

Mi fermo qui, perché c’è poco spazio e poco tempo per riportare tutti i dettagli della ricerca di Friedman su questo nuovo governo.

Dico solo due cose:

  1. solo gli stra-ricchi possono candidarsi alla presidenza americana. Per forza poi vengono fuori tipi del genere.
  2. Trump ha manifestate disprezzo per l’Euro e l’Europa. Un motivo in più per tenerci stretto l’Euro e l’Europa. Trump è un esponente del “ognuno per sé”, dunque se lui dice che l’Euro e l’Europa fanno schifo, vuol dire che possono (se gestiti bene) offrire la base per una concorrenza futura.

 

 

 

 

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L’albero della vita – Francesco Alberoni

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Il fatto che lo abbia scritto Alberoni non ci costringe mica a leggerlo, questo saggio. In verità, se mi chiedete di cosa parla, ho qualche difficoltà a riassumerlo. Scordatevi che il sottotitolo – Le forze, i desideri, le passioni che ci fanno vivere – sia in qualche modo esplicativo, anzi.

Diciamo che tratta diversi argomenti: dalla paura della guerra, allo spauracchio ecologico, dalla religione, alla morte, dalla capacità del cervello, ai movimenti, alle forze umane distruttive… ecc…

Il filo che lega ogni capitolo è lo Stato Nascente, quello stato di rinnovamento e morte, di euforia e solidarietà che caratterizza la nascita dei movimenti sociali. Ma questo stato è stato esaurientemente descritto nell’altro libro, Movimento e istituzione: l’autore de L’albero della vita, ora, prende quel nocciolo e lo spalma su altri argomenti dandogli un taglio più individualistico, meno sociologico. Tanto per far vedere che la sua teoria spiega tante cosucce. Ma tra un capitolo e l’altro, ogni volta perdevo il filo.

Va bene, è un saggio, non è tenuto a seguire una fabula, un ordine cronologico o di qualche tipo, può farsi guidare solo dai topics, ma non ho capito la linea, la direzione. Non ho capito che razza di albero è questo albero della vita. Forse era proprio questo l’intento di Alberoni: farci capire che le forze in campo quando si parla di uomini sono tante e contrastanti tra loro. Può essere. Va bene, me lo segno.

Per il resto,  qualche parte l’ho sottolineata: o perché mi ci trovavo d’accordo, o perché non condividevo. Per esempio, siamo sulla stessa linea d’onda quando scrive questo:

se l’artificiale diventa monotono, oppressivo, invivibile, ciò non dipende dal fatto che è artificiale, ma dalla specifica forma che ha assunto.

Poi però ci sono diverse parti in cui l’autore si abbandona all’ottimismo, quasi direi: utopia. A parole non nega le difficoltà e le strade sbagliate del progresso e dell’evoluzione umana: accenna alla bomba atomica, alle guerre, al buco nell’ozono. Ma poi la sua visione ottimistica prevale (perché continua a dire che i movimenti e lo stato nascente danno speranza). Non sono d’accordo quando dice

è la vita stessa che produce in noi i desideri giusti, quelli con cui essa vuole continuare a crescere. L’importante è seguire questa traccia, non abbandonarla mai.

Mi ricorda La strategia del gene, di Sabino Acquaviva. Ma i desideri di crescita si possono far valere in tanti modi. Anche combattere il vicino è un desiderio di crescita. Lo definiamo giusto se non muore nessuno, a posteriori. O se muore quello che voleva ucciderci.

Insomma, i tentativi e gli errori del genere umano si moltiplicano, è vero, con l’aumentare delle interazioni. Aumentano le probabilità degli errori e delle azioni a favore della vita. Poi però la decisione ultima spetta sempre al singolo.

 

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