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Musica (Yukio Mishima) @Feltrinellied

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Ho bisogno che qualcuno mi sveli il significato di questo libro…

E’ incentrato sul trattamento psicanalitico di una bellissima ragazza, Reiko, che dice di non sentire la “musica”, quando in realtà intende di non riuscire a provare desiderio/piacere sessuale.

E’ una ragazza che ha letto un po’ di psicologia da rivista e che lo psicanalista, che racconta in prima persona, definisce isterica: tutto quello che dice è da lei interpretato in chiave sessuale facendo spesso riferimento ai suoi sogni e al suo passato.

Ma quasi niente di quello che racconta è vero: dopo poche pagine ammette di essersi inventata tutto.

La costruzione del romanzo è quasi da giallo: lo psicanalista indaga nella psiche di Reiko per scoprire quale è il nodo del suo problema. E lo trovano, questo nodo, quando trovano il fratello perduto della ragazza.

Ma… possibile che Mishima volesse parlarci solo di sessualità, frigidità, psicanalisi?

O non è forse la musica una metafora per la più degna “gioia di vivere”? Il dubbio mi è venuto quando ho letto due episodi in cui Reiko ha effettivamente sentito la “musica”, ma si trattava di beatitudine, di felicità, forse: in un caso assisteva un cugino terminale e nell’altro consolava un ragazzo che voleva suicidarsi a causa della sua impotenza.

O, forse, non è che Mishima volesse parlarci dell’insondabilità della natura umana? Dell’impossibilità di catturare con un processo razionale (la psicanalisi) un processo inconoscibile come la mente umana?

Poi però, nel vari episodi del romanzo, si torna sempre alla sessualità, e le mie teorie e i miei tentativi di assolutizzare la trama, si spiaccicano come mosche sul parabrezza.

Davvero: “Musica” è giudicato uno dei libri migliori di Mishima. ma… perché?

Non credo di averlo capito.

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La tredicesima storia – Diane Setterfield @LibriMondadori

Bello, bello, bello.

Margaret Lea lavora nella libreria antiquaria del padre. E’ un tipo solitario, amante della lettura, della cioccolata calda e delle biografie di sconosciuti morti da lungo tempo. Ha sempre convissuto con un inspiegabile senso di mancanza, ed un giorno scopre che sua sorella gemella è morta poco dopo la nascita.

Forse è per questo che si lascia assumere dalla scrittrice Vida Winter per scriverne le memorie: perché la donna le ha promesso che le racconterà una storia di gemelle.

La signora Winter ha sempre diffuso versioni discordanti della propria vita:

Quale sostegno, quale consolazione nella Verità, a paragone di una storia?

La donna vive isolata in una grandissima casa con un giardino immenso, con l’aiuto di una governante e di un autista-giardiniere.

E’ malata, molto, e dispotica, ma in lei si intuisce l’urgenza di raccontare la propria storia.

Gli indizi sulla Verità affiorano un po’ alla volta. Scopriamo che aveva una sorella gemella, che non si capisce che fine abbia fatto (ma lo si scoprirà verso la fine), e salta fuori un fantasma che nessuno riesce ad acchiappare e che combina piccoli dispetti qua e là.

La famiglia della Winter è segnata dalla malattia mentale, dalla passione, dalla violenza e dall’incesto, ma la scrittura della Pressfield è delicata, senza barocchismi, e la sua capacità di visualizzazione e approfondimento psicologico rendono la lettura davvero piacevole.

E’ un romanzo con passioni forti e colpi di scena, lo consiglio proprio!

Niente è più rivelatore di una storia.

(E’ vero.)


Diane Setterfield (Reading 1964) è una studiosa di letteratura francese del ventesimo secolo. Vive nello Yorkshire con il marito. Questo è il suo primo romanzo.

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La vita accanto – Mariapia Veladiano

Oggi nascono movimenti per i diritti degli immigrati, dei gay, delle donne, dei malati, degli animali abbandonati, degli alcolisti, dei tossicodipendenti; delle vittime della strada, della violenza domestica, dei vaccini, delle multinazionali… e via di seguito.

Ma nessuno ha mai pensato a dare il via a un movimento per i diritti dei brutti.

C’è un festival, il No-Bel, ma è più un’occasione conviviale, per ridere di se stessi e sdrammatizzare la propria situazione; situazione che, al di fuori delle luci clownesche, non fa ridere per niente ed è più diffusa di quello che si pensa.

Il brutto, nella nostra società, è sottoposto ad ostracismo, e non se ne parla. Non ne parla neanche chi ostracizza, perché costui si giustifica in mille modi: nessuno ammette di non aver assunto un tizio perché era brutto, di aver scelto una donna la posto di un’altra perché era più bella, di provare simpatie lasciandosi guidare dal solo criterio estetico.

Ma fidatevi: è così.

Ecco perché il libro della Veladiano è meritorio: perché ha per protagonista Rebecca una bambina brutta. Irrimediabilmente ed oggettivamente (sì, oggettivamente) brutta.

La bruttezza assume caratteristiche crudeli nell’età adolescenziale: quando sei al di sotto del livello accettabile, se ti va bene, ti ignorano. Se ti va male, ti usano come bersaglio di battute e aeroplanini.

La Veladiano ha una scrittura poetica, ma troppo paratattica, che a volte stanca. Si va avanti con la lettura solo perché si vuol scoprire cosa tiene nascosto la bellissima zia di Rebecca (qualcosa che non è così “tremendo” come annuncia la copertina) e se la bambina riuscirà, in qualche modo, a sfangarla nel mondo.

Ce la fa, in qualche modo. Ma è un ripiego. Un modo di vivere in sordina, dedicandosi a una passione, il piano, che su una persona bella avrebbe potuto aprire innumerevoli porte e portoni.

Ho trovato poco realista la reazione dei genitori dei compagni di classe di Rebecca: è verosimile che un gruppo di adulti si scagli in questo modo contro una bambina perché è brutta? La mia è una domanda reale, non retorica: soprattutto perché la scrittrice ammette, alla fine del libro, che “Rebecca” abita da qualche parte, in una via della provincia di Vicenza.

I brutti sono una categoria disagiata.

Festa delle donne? E perché non una festa dei brutti, allora? (tanto, come inutilità, saremmo sullo stesso piano)

VOTO: 4/5

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L’arminuta, Donatella di Pietrantonio @einaudieditore

Una tredicenne si trova davanti a una porta sconosciuta: dietro c’è una famiglia che non ha mai visto, la sua, i suoi veri genitori e i suoi veri fratelli e sorelle. Scopre così di aver vissuto tutti quegli anni con una lontana parente che non poteva aver figli, in una casa accogliente, in una bella scuola, in un’altra parte del paese dove frequentava la piscina e il corso di nuoto.

Nella sua nuova famiglia, invece, anche se i legami di sangue sono più stretti, si trova subito male: sono poveri, grezzi, sporchi. Per fortuna c’è Adriana, la sorella di pochi anni più giovani, con la quale instaurerà un rapporto profondo e diverso da ogni altro rapporto intessuto fino a quel momento.

Ma perché la sua madre adottiva l’ha ri-abbandonata nelle mani della madre vera?

Entriamo in un mondo di analfabetismo emotivo, di sottomissione e insicurezza, dove a mancare non è solo il cibo sulla tavola.

Ma al di là della crudezza dei rapporti, ci sono scene che ti scaldano come una fetta di pane appena uscita dal forno. Ad esempio, la scena in cui muore la vecchia Carmela, o le varie scene in cui Adriana dimostra il suo attaccamento alla sorella.

Vincitore del premio Campiello 2017.

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Kafka sulla spiaggia – Murakami Haruki

L’ho iniziato per due volte, e per due volte l’ho sospeso. Ma non ero convinta: se lo leggono milioni di persone in tutto il mondo, ci deve essere qualcosa da imparare in Murakami, mi dicevo.

Così, dopo aver letto il suo “Il mestiere dello scrittore” e essermi convinta che Murakami è uno serio, sono tornata con tutta la mia buona volontà a Kafka sulla spiaggia. E devo ammettere che stavolta sono riuscita ad arrivare alla fine.

Ma ci ho messo un po’ a capire il senso del romanzo.

Sì, lo so che bisogna smettere di cercare il senso. Un romanzo può essere come la vita, e, come scrive Murakami a p. 449,

quando mai il significato di una vita appariva chiaro e facile da decifrare?

Ciò non significa che io dovessi smettere di cercarlo, il significato del romanzo. E sono giunta a delle conclusioni.

A disturbarmi, era l’assurdità della trama, l’atmosfera onirica che tanti apprezzano. Poi ho capito che era proprio questo che Murakami voleva: il romanzo è assurdo perché la vita è assurda. E allora, come si può vivere una vita assurda? Con la fantasia. E dove sta la fantasia? Dentro noi stessi. L’unico modo per affrontare il labirinto che è fuori di noi, è entrare nel nostro labirinto interno, i nostri visceri.

Ma ci sono altre due cosette che mi son piaciute: sembra che la storia di Tamura Kafka inizi a causa dell’abbandono della madre. Dunque, dalla mancanza di amore.

E l’uomo col cilindro? Beh, quello credo rappresenti il Caos. È dal Caos che nasciamo, così come Tamura Kafka ha il DNA di suo padre nel sangue. Ma è il caos che bisogna combattere per dare un senso all’assurdità, per capire come si vive.

Ok. Alla fine, questo Murakami non è proprio così vuoto come pensavo.

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La bestia nel cuore – Cristina Comencini

imageUn romanzo che riflette sui drammi dimenticati e sul valore della cultura e dell’arte, soprattutto in Italia.

Sabina, doppiatrice che ha rinunciato al sogno di fare l’attrice, scopre di essere incinta ma non lo dice al compagno e se ne va negli Stati Uniti a trovare il fratello che è diventato professore in una università americana. Lo fa perché un sogno le ha risvegliato dei ricordi confusi e ha bisogno di chiarire il suo passato prima di dare un futuro a qualcuno che non è ancora nato.

Lungo tutto il libro si alternano riflessioni sui rapporti tra uomini e donne di età molto diverse e sullo stato deprimente della cultura italiana, ancora rinomata all’estero ma ormai svuotata di significato dalla televisione commerciale. A dire la verità questi punti di vista mi stavano buttando giù di morale: sono dovuta arrivare alla fine per leggere questa frase e tirarmi su. A pronunciarla è un regista che ha una base culturale buona ma che per vivere si è ridotto a dirigere schifezze. Alla fine del libro, anche grazie alla nascita del bambino di Sabina, si sveglia e decidere di tornare alle origini, di fare quello che davvero gli piace, anche se non piacerà a nessuno, anche se nessuno lo capirà:

C’è solo una cosa da fare, oggi come sempre, gli artisti sono gli unici ad averla capita: Non tacere mai, a costo della vita, della reputazione, dello scandalo, del dolore.

Se posso permettermi una critica, la scena del parto e della conversione di un paio di personaggi (il padre, il regista, l’amica lesbica…) è quella che mi lascia un po’ basita: non è vero che la nascita dei figli cambia le persone così. Soprattutto fa un po’ pietà quello che pensa il padre… non ci crede nessuno, dai. E poi tutti contenti, come una fiaba. Mah.

Però merita di essere letto, assolutamente. Tra le tante riflessioni indotte, una, che nasce dalla domanda della protagonista: a cosa è servita a suo padre tutta la sua cultura se poi non è stato capace di resistere agli istinti che gli hanno fatto seviziare i figli?

Insomma, la domanda più generale che nasce è: a cosa serve la cultura?

 

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