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Uno dei migliori romanzi letti quest’anno

IL COMMESSO (BERNARD MALAMUD)

Di Malamud avevo iniziato a leggere “Il Migliore”, ma lo avevo abbandonato perché c’erano troppi termini e riferimenti sportivi.

Il Commesso però è tutta un’altra storia.

Morris è un negoziante ebreo in un quartiere di Brooklyn: insieme alla moglie gestisce un alimentari sull’orlo del fallimento, e le difficoltà aumentano quando all’angolo aprono un negozio più moderno che gli ruba anche i clienti storici.

La figlia di Morris ha dovuto abbandonare gli studi e fa l’impiegata, un mestiere di cui è totalmente insoddisfatta. E’ insoddisfatta anche dei ragazzi che frequenta: lei vorrebbe di più, per sé e per i genitori.

La moglie di Morris è un’anima in pena, scontenta, brontolona, sempre pronta a profetizzare malanni e a punzecchiare il marito perché venda il negozio.

Una sera, Morris viene derubato da due tipi mascherati. Lo colpiscono in testa e l’uomo è costretto a mettersi a letto, disperato, perché è abituato a stare in negozio sette giorni su sette, dodici ore al giorno.

Per fortuna, Frank Alpine, un giovane italiano che fino a quel momento ha vissuto al limite del vagabondaggio, si mette il grembiule e gli tiene aperto il negozio, riuscendo ad ottenere anche un bel risultato in termini di incassi.

Ma le cose stanno in tutt’altro modo.

Non vi voglio rovinare il romanzo, sappiate però che è scritto da Dio. I personaggi sono sfaccettati, mai banali. Sembrano delle persone in carne ed ossa che si danno da fare per guadagnarsi la giornata, ma che hanno bisogno di giustificarsi di continuo per azioni e pensieri che li tengono bloccati nella melma in cui si trovano.

Frank Alpine e Morris sono i protagonisti meglio descritti.

Entrambi sanno cosa dovrebbero fare per migliorare la propria situazione, eppure non lo fanno, e quando la situazione precipita incominciano a dare la colpa alla sfortuna.

Come fanno le persone vere.

Questa è la Letteratura che ci può insegnare su noi stessi molto più di un manuale di psicologia.

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Criminologia – Tim Newburn

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La criminologia ha poco a che fare con CSI: si occupa più di definire, misurare e proporre misure per la prevenzione del crimine.Senza entrare troppo nel dettaglio del libro, credo che le misure preventive siano la parte più interessante di questo breve saggio.Partiamo dal presupposto che, perché ci sia un crimine, serve una persona motivata a compierlo, un obiettivo desiderabile e la mancanza di un guardiano capace.La prevenzione può essere di due tipi:SOCIALEAgisce su cause di vasta portata, come povertà, istruzione, socializzazione, mancanza di alloggi, scarsità di lavoro ecc…Un esempio ne è stato l’esperimento High/Scope Perry Pre-School, che si è dedicato ai bambini di una zona molto degradata del Michigan: il rischio di essere coinvolti in attività criminali, che per questi bambini era statisticamente alto, si è ridotto notevolmente:

L’investimento nell’istruzione prescolare di questi bambini ha portato a un risparmio 7 volte superiore al costo iniziale.

SITUAZIONALEQui si ignorano le cause sociali e ci si concentra sul fatto che il crimine è un fenomeno in gran parte opportunistico: riducendo le opportunità di guadagno o aumentando le possibilità di venir scoperti, si ridurrebbe il crimine. In pratica si interferisce sul calcolo costi-benefici che ogni potenziale criminale fa prima di compiere l’atto.Ed è qui che i suggerimenti abbondano. Ne riporto solo alcuni.ACCRESCERE LE DIFFICOLTA’ DEL CRIMINE: es. sistemi di blocco per i cellulari rubati, controllo della vendita di vernici spray ai giovani, toilette femminili separate, accessi con badge elettronici…RIDURRE I BENEFICI DEL CRIMINE: es. monitorare i banchi dei pegni e gli annunci commerciali, obbligo di licenza per i venditori ambulantiRIDURRE LE PROVOCAZIONI: es. gestione efficiente delle code e servizio cortese; aumento dei posti a sedere; ridurre l’affollamento in bar e locali; tariffe fisse per i taxi; vietare le offese a sfondo razziale; ridurre i conformismi da ansia sociale (“Dire no è ok”, “Solo gli idioti guidano ubriachi”); censurare i dettagli del modus operandi dei criminali.RIDURRE I PRETESTI: es. facilitare il rispetto delle norme (prestito bibliotecario facilitato, bagni pubblici, contenitori per la spazzatura), controllare l’abuso di alcool e droghe (es. eventi alcol-free).Ogni approccio prevenivo ha i suoi pregi e i suoi difetti.Ad esempio: l’approccio situazionale non può comportare lo spostamento del crimine in altri luoghi o spazi?Ma il discorso si fa lungo.La scelta migliore sarebbe quella di applicare entrambe le strategie.Un’ultima cosa, importante: la criminologia sta cominciando solo ora a dare più rilevanza ai crimini contro il patrimonio: si fa ancora troppo poco per i crimini dei colletti bianchi.

Quante borse di studio sono tate erogate a studenti di criminologia per analizzare la crisi finanziaria globale, innescata dai guai dei mutui subprime statunitensi alla fine del 2007 e scoppiata con il crack della Lehman Brothers, nel settembre 2008? Poche, troppo poche.

I crimini più gravi non sono compiuti da singoli, ma da stati nazionali o da grandi compagnie. E questi crimini la maggior parte delle volte restano impuniti.

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La ragione del più forte – Andrea Carraro

Uno dei primi romanzi di Andrea Carraro, scritto nel 1999.

E’ la storia di Gregorio, 35 anni, ancora convivente con la madre, che lui chiama “il donnone” e che la quarta di copertina definisce “opprimente”, ma che a me ha ricordato semplicemente tantissime madri italiane di figli grandi e grossi che non si scollano dalle gonne.

I primi capitoli ci introducono subito nella scialba vita di questo impiegato di banca: senza veri amici, criticone e invidioso, gretto, pronto a giudicare alla prima occhiata, senza compassione per gli altri, acido come una zitella… Devo continuare?

Il libro è particolare perché questo non-eroe è il protagonista e la voce narrante, dunque noi lo vediamo agire come un vigliacco e lo sentiamo parlare come un novantenne insoddisfatto, ma il punto di vista è sempre il suo: da un lato abbiamo la sua vita insignificante e dall’altro tutte le giustificazioni dietro le quali si nasconde (ah, dimenticavo: quando va in pausa, non timbra).

E cosa fa questo scialbo tipetto? Si rivolge ad un’agenzia matrimoniale per farsi arrivare dalla Russia la ventiduenne Sonja, giovane, allegra, gnocca e, dopo un po’, innamorata (nonostante in uno come lui non ci sia niente di cui innamorarsi, e lo dico da donna).

La mette in un appartamento lontano da casa per tenerla nascosta a sua madre, perché non dar giustificazioni (o perché si vergogna con gli amici di non essere riuscito a trovarsi una donna in un modo normale?), e già dopo due giorni che se la spupazza, le fa una scenata di gelosia perché l’ha vista parlare con dei ragazzi in piazza.

Il rapporto con questa povera ragazza, che non reagisce se non con qualche muso lungo, degenera. Gregorio arriva a picchiarla e a chiuderla nell’appartamento per evitare che parli con altri uomini.

Non faccio spoiler, ma leggetelo, perché è brevissimo (solo 133 pagine): forse un po’ troppo breve, in quanto certe situazioni avrebbe potuto approfondirle di più; ma forse va bene così, perché una persona come Gregorio si sarebbe solo dilungato nelle autogiustificazioni e non avrebbe aggiunto molto alla storia.

Conformismo, bugie, e squallore di un italiano medio, di cui fa le spese una povera immigrata.

Ma attenzione: sono i personaggi più utili, questi.

Perché noi ci vediamo come persone a posto, sempre con la coscienza pulita: leggiamo questo romanzo e giudichiamo negativamente Gregorio, senza renderci conto che certi suoi atteggiamenti sono anche i nostri.

E se nel finale Gregorio – dopo una breve esperienza di quasi pentimento – ritorna ad essere se stesso, la cosa ci disturba: tanto meglio.

Ce lo ricorderemo, forse, la prossima volta che proveremo a servirci delle persone.

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Tatiana & Alexander, Paullina Simons

Tatiana e Alexander si conoscono in Russia il giorno che Hitler dichiara guerra al loro paese. E’ un colpo di fulmine.

In realtà, però, Alexander non è russo: è figlio dei Barrington, immigrati americani, che si sono trasferiti nella patria del comunismo per motivi idealistici. Attraverso una serie di vividi flash back veniamo a scoprire come i suoi genitori perdono ogni illusione circa le possibilità di rinnovare il mondo per mezzo dell’ideologia politica.

I Barrington sono costretti a cambiare spesso casa e a dividere le loro stanze con sconosciuti; devono svolgere lavori scelti dallo stato, lavori che non sono per niente motivanti e che non garantiscono né cibo né vestiti decenti. La politica russa si ripercuote anche nelle piccole cose, ad esempio, nei nomi degli alberghi, che cambiano ogni volta che un certo personaggio cade in disgrazia.

Se il libro della Simons merita di essere letto, è per questi dettagli storici anche se, nel descrivere l’assedio di Leningrado, sembra sfumare la narrazione, perdere chiarezza. Non credo sia una svista: credo sia dovuto al fatto che questo libro è il secondo di una trilogia, e che l’assedio sia meglio descritto nel primo volume.

Questo libro inizia la narrazione quando Alexander e Tatiana sono già divisi: lui è nelle mani della polizia politica russa, lei è a Ellis Island, libera ma sola, con un figlio appena nato. La loro storia è raccontata attraverso flash back.

Il resoconto della loro storia d’amore, però, mi fa scadere il libro. Era partito come un romanzo storico, ed è scaduto in un romanzo rosa. Peccato.

Sospeso a p. 306 (su 679).

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Denti bianchi – Zadie Smith

Tanto di cappello a Zadie Smith che ha scritto un libro del genere a 23 anni.

Non mi piacciono i romanzi con una vena comica troppo marcata, ma questo l’ho finito perché la Smith ha certe trovate linguistiche davvero intelligenti.

La storia spazia in un arco di tempo di un paio di secoli, perché si risale spesso alle radici di alcuni dei personaggi, radici che sono interrate sul suolo inglese, indiano, pakistano, giamaicano ecc…

I protagonisti sono due amici: Archie, inglese che non ha mai preso una decisione in vita sua (evviva le monetine che si lanciano in aria!!) e Samad, bengalese musulmano convinto ma pieno di rimorsi per come il mondo occidentale lo sta fuorviando dalla Via.

Sono amici dal tempo della guerra, anche se la loro, di guerra, è stata tutta sui generis

Ma è sui generis tutta la storia, la loro, quella delle loro famiglie e quella dei loro amici: testimoni di Geova, estremisti musulmani, animalisti pazzoidi, adolescenti in crisi, ristoratori con problemi di pelle, genetisti che perdono la testa per un topo, coniugi che se le danno di santa ragione… Per questo è difficile delineare una storia vera e propria.

Attraverso le vicende tragicomiche delle due famiglie allargate, tuttavia, la Smith riesce a tessere diversi fili riunificatori: il bisogno di eroi, ad esempio.

Archi non ha eroi. Eppure è inglese: ha la sua storia alle spalle.

Samad ha scelto per eroe un antenato che nessuno ricorda e che la Storia vera snobba.

Questa differenza di fondo guiderà le varie scelte o non scelte dei due (ma anche quelle dei figli di Samad), fino all’epilogo finale.

Un altro filo, è il rapporto tra gli inglesi e gli immigrati: la paura di essere razzisti e la paura di perdere le proprie radici (Radici: parola chiave, nel romanzo).

Altro punto che mi pare degno di nota è l’impossibilità di distinguere le varie etnie in base a dei comportamenti razionali. Qui sono tutti fuori di testa. Ben delineati, non c’è dubbio, ognuno ha le proprie motivazioni per fare quello che fa, ma a guardarli dall’esterno, un passante direbbe: Questi sono fuori di testa. “Estremi” è la parola giusta. E l’estremismo infatti è un altro filo unificante, non importa di che matrice: religiosa, scientifica, morale, alimentare…

Neanche i denti, bianchi, cariati o finti che siano, sono sufficienti a identificare un ceppo etnico: se ci si fa caso, a volte i denti entrano nella storia per indicare la gente di colore, altre volte sono in bocca a inglesi e bianchi… non c’è un criterio distintivo.

Credo sia un effetto voluto: gli esseri umani non possono venir distinti, così come non si possono riprodurre in laboratorio. E il topo geneticamente modificato che, alla fine, riesce a scappare in barba a un salone pieno di gente, rappresenta bene questa impossibilità di catalogazione. E’ inutile che i protagonisti tentino di mettersi delle etichette, definendosi “chalfenisti” o “bowdenisti”: non esiste uno spazio neutro sul quale incontrarsi, né fisico né culturale, perché tutti sono intrecciati gli uni agli altri.

Il romanzo tende ad essere un po’ troppo comico, per i miei gusti (ma solo per i miei) ma non si può negare che sia pieno di spunti di riflessione.

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Nel guscio, di Ian McEwan @Einaudieditore

(Attenzione: spoiler!)

Non ho studiato l’Amleto ma ho visto che in questo romanzo ci sono molti richiami al dramma shakesperiano. Dal tradimento, ai nomi della madre a quello dello zio, dal tema dell’omicidio del fratello, al dubbio se convenga essere o non essere, nascere o non nascere.

La storia ci viene narrata da un feto nel terzo trimestre di gravidanza. Questo essere, che scopre solo ad un certo punto di essere un maschio, assiste alle trame della madre e di suo zio per uccidere suo padre.

Durante tutta la lettura, dentro di me, pensavo: non possono ucciderlo. Prima o poi verranno scoperti. Forse la madre sta fingendo, di voler uccidere il suo ex. Oppure: qualcosa andrà storto, il bicchiere col veleno verrà rovesciato, oppure John, il padre, raggiungerà un ospedale in tempo.

E anche quando scopro che in effetti il padre viene davvero ucciso, ho continuato a ripetere dentro di me: non può essere. Vedrai che è tutta una messinscena, che John si era accorto di cosa stavano tramando alle sue spalle e che non è morto davvero, fa finta, per portarli allo scoperto.

E invece no, mettetevela via: John muore. E la madre del bambino è davvero una stronza che mette le corna a John col fratello, insipido e insensibile ma… priapico, come dice il feto. E alla fine giustizia trionferà. Ma tu intanto hai letto questo romanzo come se fosse un giallo, girando pagina dopo pagina per vedere come va a finire, ascoltando questo feto  che parla come un neolaureato di Harvard e che non vede l’ora che sua madre si beva un vinello di un certo tipo per godersene gli effetti.

Le cose brutte accadono. Accade che la propria madre sia ingiustificabile, che sia un’omicida, e che non consideri proprio il figlio che ha in pancia (non è neanche mai entrata in un negozio a comprargli i vestitini!).

Ma accade anche che un feto, dopo tutto quello che ha imparato sui suoi parenti e sullo stato del mondo, decida di nascere.

Non è roba da poco.

(PS: ma cos’è ‘sta fissa dello spoiler??)

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A nostro agio in città – Percorsi di formazione per la cittadinanza attiva (AA.VV)

In questi giorni in cui qui a S. Stino di Livenza non si fa altro che discutere del centro di preghiera islamico con toni da grezzi politicanti dell’ultim’ora, mi è “capitato” in mano questo libretto di racconti incentrato sulla cittadinanza e sull’immigrazione.

La raccolta conclude un percorso di studio incentrato sul cambiamento della città europea contemporanea: in particolare, Padova. Gli autori delle storie non sono scrittori professionisti, ma cittadini, nativi o immigrati. Ovviamente, non si parla di cittadinanza nel senso nazionalistico, ma come insieme delle capacità e delle possibilità di usufruire di diritti per una vita “più facile” (Cappellin, 1999).

Il confronto tra questo modo di affrontare la discussione sull’immigrazione a Padova e il modo di discutere l’apertura del centro Islamico a S. Stino mi ha intristito.

Da un lato, un libretto che, per quanto scritto da profani, è il risultato di un impegno durato quasi un anno, di studio di testi e situazioni, di confronto e riflessione ragionata. Dall’altro, nel paese in cui vivo, post pieni di offese ed errori di ortografia lanciati nei social come se fossero versetti della Bibbia.

Mi direte: ebbè, il libretto è frutto di una collaborazione con il dipartimento di filosofia, sociologia, pedagogia e psicologia applicata dell’Università di Padova, non è mica il frutto di Facebook e sit-in improvvisati… Bah, sarà… ma credo che il supporto, cartaceo o virtuale, sia solo lo strumento con cui si sono espressi due tipi diversi di persone: quelle che si fanno le domande e cercano di rispondere (accettando la fatica necessaria per la ricerca), e quelle che hanno la verità in tasca. Non mi riferisco specificatamente ai contenuti (moschea sì, moschea no), mi riferisco ai modi di esprimere il dissenso: chi non ha argomenti, alza la voce (e a volte le mani).

Ma torniamo ai racconti. Mi è piaciuta l’idea di non indicarli col nome dell’autore, ma con pseudonimi: la ragione sta nel fatto che le storie non descrivono situazioni individuali, private, ma sono storie che possono riguardare tutti quelli che si trovano ad agire come cittadino, non importa che sia nativo o immigrato.

I racconti coprono un po’ tutte le vicende: dallo studente, all’immigrata scappata dal suo paese, a chi è stata costretta a sposarsi, a chi ha a che fare con la burocrazia, a chi ha paura di scendere alla stazione del treno e si interroga su questa paura e sulle strade di Padova.

Una storia difficilmente incarna una tesi. Una storia sceglie aneddoti, personaggi e luoghi e li fa interagire tra loro: ma l’interazione potrebbe svolgersi in mille direzioni diverse, e la scelta di una direzione al posto di un altra è proprio ciò che rende il racconto fonte di confronto. Non ci sono verità rivelate, qui, solo punti di vista. Civili.

Non serve poi molto per sentirsi a proprio agio nel luogo in cui si vive.

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Vergine giurata – Elvira Dones

In Albania, quella del nord, la più arretrata, tra le c.d. Montagne Maledette, c’è un’usanza alquanto strana: se manca un maschio in famiglia (cosa probabile, visto che si ammazzano come formiche), una delle donne può giurare di fare il maschio per il resto della sua vita.

E’ un giuramento, appunto, a vita: ci sono ancora delle vergini giurate anche oggi, nella zona. Una volta che hai giurato, non puoi tornare indietro.

Una volta che sei diventato uomo… smetti di lavorare. E fai l’uomo. Cioè bevi fino a stordirti, bestemmi, vai in giro col fucile, porti avanti la faida ammazzando altri uomini che hanno ammazzato altri della tua famiglia… cose così, insomma. Come si può capire dal tono sarcastico della mia esposizione, io mi innervosisco a leggere certe cose. Ma torniamo al romanzo.

L’eroina della Dones, a differenza delle vergini giurate reali, ha lasciato l’Albania perché vuol riappropriarsi della sua femminilità. Va negli Stati Uniti da una cara cugina, ma ci mette un pezzo prima di tornare donna, dice che, dopo quattordici anni trascorsi a fare il maschio, ha bisogno dei suoi tempi…

L’autrice ha ben caratterizzato questa difficoltà a tornare donna. Ha un po’ meno bene caratterizzato la quotidianità di Hana Doda quando era Mark Doda. A parte due episodi che la ritraggono da maschio, la figura di Mark rimane come una sagoma vuota nello sfondo delle Montagne Maledette.

Cioè: se gli uomini non potevano farsi da mangiare né pulire la casa, lei/lui come si è arrangiata, visto che viveva da sola/o? Ho l’impressione che questo sia un po’ un limite del libro: la Dones è riuscita benissimo a incarnarsi nella Hana prima e dopo di esser diventata uomo, ma non in Mark.

A parte ciò, il libro mi è piaciuto, e lo consiglio: la scrittrice ha una bellissima scrittura, anche se piena di paratattiche. E lode alla Dones che, albanese, ha scritto il romanzo direttamente in italiano. Un’autrice che sceglie l’italiano come lingua per scrivere un libro è una mosca bianca, nel panorama mondiale (visto che lei conosce benissimo anche l’inglese). Grazie per esserti ricordata di questo culturalmente sperduto paese…

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L’esperienza di una immigrata

 

imageNOMAD – AYAAN HIRSI ALI

Ritengo che sarebbe prudente insegnare ai rifugiati alcune competenze di base prima di prestar loro denaro e fornir loro carte di credito e cataloghi di mobili, prima che vengano risucchiati in una subcultura di prestiti e frodi. (…)

In Europa c’è una crescente insofferenza verso l’immigrazione, la sensazione che molti immigrati non meritino l’aiuto che ricevono da generosi sistemi sociali. Si dice che gli immigrati abusano del sistema, che si comportano come parassiti.

Questa attivista per i diritti sociali (già scampata a qualche attentato), a sua volta scappata dal suo paese per evitare il matrimonio impostole dalla famiglia, analizza con occhio critico la situazione degli immigrati nel mondo occidentale.

Lei si è data da fare. Ha imparato la lingua, i regolamenti del paese in cui è andata a vivere, gli usi. Fa un po’ sorridere il resoconto dei suoi primi tempi in Olanda, dove è stata accolta come rifugiata.

Premetto che il trattamento riservatole dal governo olandese è sicuramente diverso da quello che le avrebbero riservato qui in Italia dove certi impiegati pubblici mancano delle più basilari competenze educative anche nei confronti dei propri concittadini: in Olanda riesco a immaginarlo un impiegato che sorride e spiega con calma la procedura per ottenere un prestito sociale; in Italia ho meglio presente l’atteggiamento degli impiegati agli sportelli pubblici che reprimono sbuffi e danno del tu.

Ma quando è arrivata nei Paesi Bassi, lei non aveva alcuna competenza, né conoscenza. Uno dei problemi principali che ha dovuto affrontare è stata la gestione del denaro. Come molti immigrati, era scappata da, non era andata verso. Non si poneva il problema dei doveri di un cittadino, non sapeva cos’era la cittadinanza, perché obbediva solo a regole di clan.

Dunque, quando si è vista offrire un prestito per comprarsi l’arredamento della casa, non aveva idea di cosa avesse per le mani. Lei e una sua amica hanno speso tutto il prestito per comprare una costosissima moquette e la carta da parati, e sono rimaste senza soldi, senza mobili, senza letti, senza pentole, ecc… Senza parlare del conto del telefono, che era diventato rosso a forza di chiamare in Africa.

Quando le hanno fatto vedere come funzionava una carta di credito, e ha capito che le bastava mettere una firma per comprare oggetti, lo ha fatto. Firma qua, firma là, si è ritrovata con un debito enorme.

Le mancava un minimo di formazione finanziaria. Le mancava la capacità di dire no a una commessa, visto che era stata cresciuta per dire sempre di sì. La furbizia di pensare che in inverno bisogna riscaldare gli appartamenti e che dunque le spese vanno su. La modestia di capire che fare acquisti in un supermercato a buon prezzo non è un disonore.

Senza contare il fatto che molti dei soldi ottenuti attraverso i prestiti sociali per immigrati andavano ai parenti nei paesi di origine, perché così richiede il Corano: aiutare gli appartenenti della famiglia è tassativo. Il che è un atto buono, in sé, ma ostacola l’ascesa sociale di molte famiglie nel paese di adozione.

Questo era (è) il problema di molti immigrati: tutti vivono oltre i propri mezzi, non sanno programmare le spese. E questo è particolarmente vero tra le donne musulmane, dice la Ayaan Hirsi Ali.

Io mi ritengo una razzista non dichiarata. Cioè a parole sono contraria al razzismo ma ogni tanto mi ritrovo a pensare o ad agire secondo i dettami del razzismo strisciante. Magari non lo faccio consciamente, ma è così. Per questo sto leggendo questo libro.

E mi resta una domanda: perché Ayaan Hirsi Ali, dopo tanti tentativi ed errori, ha capito cosa sbagliava e ha corretto la direzione? Credo sia stato per un mix di fortuna e volontà. Ma la cosa va approfondita.

 

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