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I quarantuno colpi – Mo Yan

Cina, giorni nostri.

Luo Xiaotong, prima di prendere i voti, racconta ad un monaco buddista la sua storia.

Luo Xiaotong è sempre stato un carnivoro: per lui la carne è sempre stata il valore supremo, era convinto addirittura di capirla, di sentirla parlare.

Figlio di un buono a nulla, resta ben presto senza padre, perché l’uomo abbandona la famiglia per andarsene con un’altra donna.

La madre tira avanti con la raccolta e la compravendita di stracci, fino a comprarsi una grande casa e a saziare in parte il suo desiderio di rivincita contro il marito. Poi, ad un certo punto, il marito torna a casa con una figlia piccola e la coda fra le gambe: l’amante è morta.

Questa svolta si rivela positiva per la famiglia, perché, grazie all’alleanza con il capo villaggio, diventeranno i ricchi e importanti responsabili di un enorme stabilimento per la macellazione.

Macellazione sana, dicono.

Perché dovete sapere che il villaggio in cui Luo Xiaotong viveva era famoso per l’adulterazione della carne: insufflazione di acqua, formaldeide e altre belle cosette. Tutto all’insegna del guadagno e in spregio alle più elementari regole sanitarie.

Senza raccontarvi la fine, andiamo a vedere l’ambiente in cui Luo Xiaotong, dieci anni dopo, racconta la sua storia da grande: si tratta di un tempio buddhista fatiscente che ormai sta cadendo a pezzi. E’ dedicato ai WuTong, i cinque Dei della sessualità.

Mentre lui racconta la storia, fuori imperversano i preparativi per la sagra della carne. E qui viene il bello: perché è tutto assurdo. Statue che prendono il volo, donne sconosciute che lo fanno bere al proprio seno, faide che vengono portate a compimento, gente che si sente male, struzzi impazziti, statue dedicate al Dio della Carne…

Perché questa differenza di toni tra il passato e il presente?

Mi sono data questa risposta: siamo in un tempio buddhista, dove il Karma regola la vita di ognuno. Ebbene, ad ogni azione, corrisponde una conseguenza. E il passato di Luo Xiaotong è la causa del presente onirico, stravolto, fuori asse, grottesco e a rischio di crollo in cui ora si trova a vivere con tutti i suoi compaesani.

Di carne si muore, vuole dirci l’autore; come è morta la piccola sorellina di Luo Xiatong, avvelenata dal botulino. Ma la carne diventa la metafora di qualcosa di ben più grave, nella Cina moderna, qualcosa che disgrega le famiglie e i valori morali.

Mi piacerebbe sapere come è stato recensito questo libro dai critici cinesi!

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Le storie di Giacobbe – Thomas Mann

Se l’interesse per le storie bibliche precipita in caduta libera, non è perché esse siano noiose: sono, al contrario, piene di pathos, avventure, colpi di scena; ma il modo in cui vengono raccontate oggi negli ambienti religiosi è tutto fuorché avvincente.

Per fortuna ci sono gli scrittori…

“Le storie di Giacobbe” è il primo capitolo di una tetralogia. Inizia con un colloquio tra Giacobbe e il figlio Giuseppe vicino a un pozzo, di notte. Nessun dettaglio è superfluo: il pozzo rappresenta il passato, il regno dei morti, il mistero. La notte, con la luna, ammanta l’esistente di una luce particolare che ci permette di vedere le vicende passate in modo nuovo (e qui sorvolo sui richiami alle varie divinità lunari).

Qui è tutto un risalire alle origini (perfino delle piante e degli animali), al proprio passato: il mito si ripete, ci dice Thomas Mann, e i protagonisti stessi a volte, parlano al presente di eventi già trascorsi o usano i pronomi in prima persona quando in realtà stanno parlando di avi defunti molto tempo prima. Il mito è, non fu.

I personaggi biblici, che dalle letture in chiesa ci risultano così piatti e monotoni, qui sono descritti con tutti i loro pregi e difetti.

Giuseppe è un chiacchierone e spione: suo padre gli dice di non riferire certe cose ai fratelli, e lui fa il contrario. I fratelli combinano guai (più o meno gravi), e lui va a riferirlo al padre. Proprio di una simpatia unica.

Giacobbe ne ha fatte anche di peggio. Intanto, ha fregato la primogenitura al fratello Esaù imbrogliando il padre cieco (e pure, diciamolo, un po’ stupidotto).

Poi, a Schekem, non accetta di dare in sposa la figlia Dina al figlio del signorotto locale e questi la rapisce (faccio presente che a questo ragazzo era stato detto che avrebbe potuto avere la ragazza se si fosse fatto circoncidere, cosa che lui fece, ma inutilmente). I figli di Giacobbe, per vendicare l’onore della sorella, massacrano tutta la popolazione locale: Giacobbe non poteva non sapeva, ma li ha lasciati fare.

Quando i figli sono tornati da lui dopo aver compiuto scempi inenarrabili, Giacobbe ha brontolato, ha fatto la sua scenata, ma è comunque scappato portandosi dietro tutte le mandrie e il bottino (e questo signore qui si faceva chiamare Benedetto, perché diceva che le sue fortune gli venivano dal Signore… ah benon!)

Ah, per la cronaca: Dina è stata riportata in seno alla famiglia, ma era incinta. Giacobbe l’ha costretta ad abbandonare il figlio nel deserto appena nato…

Giacobbe non è neanche un mostro di intelligenza: si fa prendere per il naso per anni dal suocero Labano, che lo costringe a lavorare gratis per lui con la promessa di dargli in sposa la figlia Rachele, e quando arriva la notte delle nozze, non si accorge neanche che nel letto non c’è Rachele, ma sua sorella… (stesso imbroglio sull’identità che lui aveva fatto alle spalle di Esaù: chi fa la l’aspetti – ancora: il mito si ripete).

Insomma, questa gente non è proprio un modello di virtù.

Un altro messaggio che Thomas Mann vuole sottolineare (e lo fa spesso nel corso di questo romanzo) è che sono le passioni a muovere la storia: ecco perché la storia si ripete. Perché si ripetono le passioni. Ed ecco perché è necessario conoscere il passato, entrare nel pozzo, per capire meglio come comportarsi oggi.

Però una domanda mi sorge spontanea. Questo libro è uscito nel 1933, in piena ascesa dell’antiebraismo hitleriano. Considerando che brutta figura ci fanno qui gli ebrei, il romanzo va a rimpinguare la scorta di odio che già era notevole nel paese.

Perché Thomas Mann ha scelto proprio questo argomento in un periodo così poco consono?

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