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Non volare via – Sara Rattaro @GarzantiLibri

(Attenzione: spoiler)

Le aspettative sono importanti.

Se il risvolto di copertina mi parla di Matteo, un bambino sordo, e della sua paura che il padre voli via per seguire l’amore della sua vita, io mi aspetto che il libro parli di Matteo e delle sue paure.

Non dico che non voglio la storia dal punto di vista del padre che, da diciottenne, si innamora, ricambiato, della bellissima Camilla, e che perde di nuovo la testa quando è sposato con due figli, di cui uno sordo… ma dico che il risvolto di copertina poteva essere un po’ più inerente alla storia raccontata.

Tornando al libro in sé: la Rattaro sa scrivere, certo; però, leggere un suo romanzo dopo aver letto Philip Roth non è stata una buona idea… mi saltavano all’occhio tutti i difetti (sui quali avrei sorvolato in altri momenti, perché, alla fine, questa è una lettura piacevole).

Passiamo alle ovvietà e gli scivoloni…

L’Alberto diciottenne, per sua ammissione postuma, è insignificante: non è una bellezza, non è simpatico, tutti lo ignorano. E appena arriva Camilla, bellissima e popolarissima, lei si innamora subito di lui. I want You, sembra dirgli ogni volta che gli rivolge la parola. Conoscendo i ragazzi (di oggi o di ieri, non importa), vi sembra verosimile?

Poi: quale è il sogno di Camilla? Fare la ballerina, come faceva la madre morta. E già qui…

Ma poi ci sono un paio di scene che sembrano copiate e incollate dall’immaginario televisivo. Ad esempio, quella in cui Camilla balla solo per Alberto in un teatro deserto, di notte. E poi, quella in cui lei, di notte, in spiaggia, si spoglia senza tanti pudori per correre a tuffarsi in acqua, tirando per il braccio un riluttante quanto banale Alberto.

Un altro elemento stonato, è l’atteggiamento di Sandra, la madre di Matteo e moglie di Alberto: è isterica. Alberto non fa altro che lodarne la forza e la resistenza, dicendo che è grazie a lei se la famiglia resta unita, eppure questa donna pianta crisi isteriche ai dottori e agli insegnanti perché non condivide i loro metodi o perché ritiene che il figlio non sia seguito/curato nel modo adeguato.

Ecco: queste sono scene cinematografiche. Ci possono stare in un romanzo, se è il pathos che cerchi (ognuno ha il diritto di cercare quello che vuole, in un romanzo!), ma sono troppo televisive.

Mio malgrado, li frequento, gli ospedali; e madri di figli disabili ne vedo tante, ma tante, tante. Crisi isteriche non ne ho mai viste; di solito vedo donne molto controllate: meno attirano l’attenzione e meno ansia lasciano trasparire.

Altro difetto: l’abbondanza di “tesoro mio, amore, piccolo… ecc…”. Siamo sicuri che la gente parli così?

Sì: in TV.

Punto incompreso: le parti in corsivo…

All’inizio credevo che le parti in corsivo riportassero verità rivelate, frasi che uscivano dal testo per attaccarsi alla vita del lettore, ma non era così. Erano frasi pensate dal personaggio, sue riflessioni; e allora… perchè in corsivo!!??

Alcuni esempi:

E’ come nelle foto, vieni sempre benissimo se sai quando avviene lo scatto.

Certe cose sono straordinarie solo per chi le racconta.

Non importa quanto cerchi di allontanarti. Prima o poi ritorni sempre dove ti eri fermato.

Se c’è un blackout o sbagli la direzione del treno, non puoi fare altro che aspettare.

La fiducia è qualcosa di fragile, ha sempre i minuti contati e raramente accetta scuse.

Sono solo io che le trovo frasi banali? Forse mi sembrano più banali proprio perché messe in corsivo, come nel tentativo di farle risaltare allo scopo di creare l’aforisma che l’adolescente possa poi trascriversi nei social.

Vogliamo parlare di Camilla? Di questa ballerina che ha avuto un successo strepitoso ma che (non si capisce bene perché) torna dopo qualche lustro di assenza e subito va a rompere le palle al suo ex, senza storcere un ciglio quando scopre che lui è sposato? Un minimo di rimorso, un ripensamento, un qualcosa, non si poteva lasciar trapelare?

Suo padre, quando lei frequentava le superiori, la picchiava: Alberto scopre i lividi sul suo corpo. Ma non fa niente. Niente. Neanche domande. Vi sembra verosimile?

Un altro punto che considero una debolezza, sono le coincidenze.

Alberto, adulto, ascolta sempre un certo Davide alla radio. E guarda caso, dopo che lui ha tradito la moglie Sandra e ci è tornato assieme, scopre che lei si è innamorata proprio di questo Davide che ha, pure lui, un figlio sordo.

Mi fermo qui.


Eh, ma che pignola, che sei… direte.

Vero.

Ho elencato molti dei difetti che mi sono saltati all’occhio (o quelli che io considero difetti), dunque è mio dovere ribadire che è una lettura piacevole (magari, non dopo aver letto Philip Roth), leggera, nonostante i temi caldi, e, sì, meritevole, considerata l’età dell’autrice: se non si lascia trascinare dal mercato, è una che può migliorare molto.

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La carrozzina e il presidente, Franco Piro e Lia Gheza Fabbri @MarsilioEditori

Leggendo l’introduzione a questa biografia sono incappata in una frase che mi ha fatto notare una cosa:

In Svezia, in Norvegia, in Germania, ma soprattutto negli USA, questi cittadini handicappati si vedono circolare per le loro città, qui da noi è raro vedere qualcuno in carrozzina.

Il libro è del 1986. In più di trent’anni non mi pare sia cambiato molto. Ad ogni modo…

Parliamo del presidente degli Stati Uniti Franklin Delano Roosevelt, che dall’età di 39 anni è rimasto infermo in una carrozzina a causa della poliomielite (by the way, anche i due autori, entrambi professori universitari, ne sono stati colpiti).

Premettiamo che Roosevelt era ricco di famiglia, si è potuto pagare carrozzine, tutori, busti, medici, terme ecc… ciò non toglie, che quando gli è piovuta dal cielo questa malattia, la sua vita è cambiata.

Eppure è riuscito a diventare presidente degli Stati Uniti, uno dei paesi più attenti e pignoli sulla forma fisica del loro capo. Come ha fatto?

Bè, considerate che su 35.000 foto circa che lo ritraggono, solo due lo mostrano in carrozzina. Bisogna inoltre considerare che allora lui parlava alla radio, non andava alla TV.

Si sapeva della sua malattia, ma lui, aiutato da famiglia e amici, ha sempre cercato di non farla apparire come un handicap. Riusciva, a costo di altissimi sforzi, a raggiungere con le proprie gambe i palchi da cui doveva parlare: erano gambe ingabbiate in pesanti ferri, lente, ma, appoggiato al braccio di un figlio o di un amico, Roosevelt non mostrava la carrozzina in pubblico. C’è un episodio del libro in cui Roosevelt, che aveva sviluppato robusti muscoli nella parte superiore del corpo, per raggiungere il luogo da cui deve tenere la conferenza, sale, pian piano, aiutandosi con le braccia, per le scale antincendio di un palazzo. Arriva sudato e accaldato in cima, ma ci arriva, e nessuno degli astanti se ne accorge.

Nel libro si parla del suo amore per la natura (fa piantare milioni di alberi durante le sue candidature) e per il nuoto. Ma si parla anche degli esercizi che lui inventava per se stesso e per gli altri, e di come li insegnasse ai malati quando andava alle terme.

L’attenzione per i deboli e i malati non era dunque casuale. Il New Deal, forse, non è stato casuale.

E’ esemplare leggere alcuni dei suoi discorsi di allora, farebbero vergognare gli Stati Uniti di oggi:

Intendiamo infine ottenere la libertà dalla paura, perché nessun uomo, nessuna famiglia, nessuna nazione viva perpetuamente sotto l’incubo del pericolo delle bombe, delle invasioni e delle relative distruzioni.

(Tacciamo dunque di tutte le intromissioni, armate e non, che gli odierni Stati Uniti impongono a paesi su tutta la superficie del globo…)

Sentite quando parla di libertà:

La prima è la libertà di parola e di espressione, ovunque nel mondo. La seconda è la libertà di ogni persona di adorare Dio alla propria maniera, ovunque nel mondo. La terza è la libertà dal bisogno che, tradotta in termini mondiali, significa intese economiche che garantiscano ad ogni nazione una esistenza sicura e pacifica per i suoi abitanti, ovunque nel mondo. La quarta è la libertà dalla paura, che, tradotta in termini mondiali, significa riduzione degli armamenti su tutta la terra.

Detto negli anni Quaranta a una nazione dove oggi non c’è più giornalismo indipendente, dove non si può abortire perché ti sparano in testa e picchettano le cliniche, dove le armi vengono vendute pure ai bambini.

E ricordiamoci che gli Usa dobbiamo tenerli sotto controllo, perché noi italiani prima o poi finiamo sempre col copiarli.

Certo, il libro tace di certi lati oscuri. Non nomina ad esempio, i campi di internamento per giapponesi che furono istituiti dopo l’attacco di Pearl Harbour. Ma sono rimasta affascinata dal grado di idealismo dei discorsi di Roosevelt (sebbene ce ne siano troppi, nel libro, alla lunga diventano noiosi; e sebbene sappia che l’applicazione pratica poi abbia avuto i suoi lati oscuri).

Una bella politica, insomma. Almeno a parole: da signori.

 

 

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Vivere al buio, Mauro Marcantoni

Un libro che è una specie di galateo per il vedente nei confronti del cieco. Uso la parola cieco, perché lo fa Marcantoni, che è cieco, ma è anche sociologo e giornalista.
Vi meravigliate? non siete i soli: stupirsi che un cieco possa raggiungere certi traguardi è un atteggiamento molto diffuso.

E’ il concetto di handicap che bisogna pensare in termini nuovi, spogliandolo dei pregiudizi; come quelli per cui i ciechi sono tutti tristi, bisognosi di aiuto, titolati solo per lavori di basso profilo.
Certo, non si devono negare le difficoltà, ma l’assenza di un senso non impedisce di diventare pittori o avvocati, né di viaggiare o andare in bici.
Tutto si gioca sull’ascolto e l’autostima.

Ci sono tante pagine del libro in cui ho dovuto sforzarmi per ricordare che si parlava di ciechi:

“La normalità non è uno standard a cui dobbiamo adeguarci, ma un modo originale e del tutto personale di perseguire diversamente gli stessi obiettivi di vita e di lavoro”.

L’impegno, il controllo, il gusto per le sfide sono tre approcci che riguardano certo il cieco, che dovrà applicare tutta la sua creatività (e memoria!) per vivere nel mondo delle immagini; ma sono atteggiamenti che tutti dovremmo far nostri.

Ognuno è diverso.

La realtà quotidiana è fatta di un’inestricabile rete di possibilità mancate per distrazione, per paura, per un’incapacità di riconoscere quello che si presenta davanti a noi.

E questo riguarda sia i ciechi che i vedenti.

E tu, che sei normale, sei davvero come tutti gli altri? Non hai pensieri solo tuoi? La tua identità è uguale a quella degli altri?

E ancora:

La normalità dovrebbe essere la soggettiva possibilità di vivere la propria esistenza con dignità e senza doversi confrontare con modelli preconfezionati, standardizzati o socialmente riconosciuti.

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