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Una donna – Annie Ernaux

Annie Ernaux inizia a scrivere questo libro pochi giorni dopo la morte della madre. Racconta la sua vita, l’ambiente in cui è cresciuta, il rapporto che si era creato tra loro e la malattia, l’alzheimer, che se l’è portata via, prima nella mente e poi nel corpo.

E’ la vita di una donna normale, che si è sempre data da fare per uscire dall’ambiente contadino e dalla povertà, per farsi una cultura e per far studiare la figlia.

La Ernaux ha una scrittura concisa che tratteggia le situazioni con neutralità e precisione: scrive per fissare la vita della madre, perché se non lo facesse, di lei non resterebbe niente, e questo è il carattere che più ci fa riflettere sulla nostra essenza.

Segue un andamento cronologico, con paragrafi quasi diaristici, senza nessun tema da dimostrare né alcuna scaletta preimpostata: i ricordi vengono messi su carta man mano che li richiama alla mente.

E’ una storia drammatica perché universale, ci riguarda tutti, da vicino o da lontano.

Al Gruppo di Lettura molti hanno sottolineato la mancanza di giudizi: la Ernaux ti mette davanti ai ricordi senza darti appigli morali per valutarli, lascia fare a te.

Leggendola, mi ha dato l’impressione che sia lei che sua madre abbiamo vissuto senza poter davvero scegliere, come se ogni loro comportamento sia stato dettato dall’ambiente o dall’epoca.

Perché? Dopotutto, entrambe si sono date da fare, non si son trovate la strada spianata: lavoro, studio, famiglia, la morte di un figlio e di un marito/padre, un divorzio…

Credo che la risposta stia proprio nello stile: la scrittura è così scevra da giudizi, che da nessuna parte vengono esternati i desideri che erano all’origine dei comportamenti.

Mi spiego: i comportamenti sono descritti; i pensieri che hanno portato a quelle azioni, invece, no. Riportare i pensieri, infatti, avrebbe significato fare ipotesi, e l’ipotesi porta in sé un giudizio, o comunque qualche tipo di valutazione.

Durante la lettura, dunque, quando mi trovo la madre che apre un negozio di alimentari e che si fa in quattro per mandarlo avanti, posso intuire la motivazione che c’è dietro, ma se mi fermo alla parola scritta, questa motivazione non è esplicitata, e il comportamento sembra eruttare da un corpo senza volontà propria.

Il libro piace, non può lasciarti indifferente.

Quello che è mancato, secondo me (ma non era nell’intenzione della Ernaux) è il piano, la scaletta, un tema di fondo che mi aiuti a far entrare il libro nel novero della grande letteratura.

E’ un’opera d’arte, perché è una forma di comunicazione consapevole (molto consapevole), ma forse è un po’ troppo personale, troppo legato alla sfera intima.

(Ehi, qui sto facendo le pulci a un bellissimo libro… non ci badate)

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L’isola di due mondi – Geraldine Brooks @NeriPozza @Pulitzerprizes

E’ un romanzo basato sulla vera storia del primo indiano d’America che si è laureato, raccontata dal punto di vista di una ragazzina di quindici anni, Bethia, figlia del pastore della comunità puritana nell’isola di Marta’s Vineyard.

Bethia, come ogni donna che si rispettasse al tempo, era esclusa, suo malgrado, dallo studio e dai libri: la sua vita si dipanava tra la cura della famiglia e le passeggiate nella sua amata isola. E’ durante una di queste passeggiate che conosce Caleb, della tribù Wampanoag: da lui impara la lingua dei locali, ma lo fa di nascosto, perché la sua comunità non approverebbe certe frequentazioni.

Il padre di Bethia è dedito alla conversione degli indiani e a tal fine accoglie in casa sua proprio Caleb, al fine di convertirlo e di farsi aiutare nella missione.

Alla fine Caleb riuscirà davvero a laurearsi ad Harvard, tra mille difficoltà, sebbene l’epilogo della sua storia vera sia un pugno in faccia alla nostra voglia di lieto fine.

Il romanzo è davvero bello: la mentalità di Bethia è resa molto bene tra la sua voglia di ribellione e la sua acquiescenza indotta, tra la sua attrazione per Caleb e le vicende amorose con lo studioso che poi diventerà suo marito.

Niente è dato per scontato: né il suo futuro, né quello degli indiani. Non ci sono smancerie, ma ben si sente la tensione tra lei e Caleb.

Interessantissima la descrizione dell’Harvard dei primi tempi, in cui c’era un settore dedicato agli indiani per la cui manutenzione venivano raccolte offerte da molti benefattori; offerte che non di rado venivano intascate dai baroni universitari.

Un’altra prova che i premi Pulitzer sono affidabili (molto più di uno Strega o di un Campiello).

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Cesare padrone di Roma – Conn Iggulden @edizpiemme

Ma quanto noioso era studiare storia romana a scuola? Forse non è un caso che una volta lontana dai banchi io mi sia dimenticata tutto. Ecco perché ogni tanto devo leggermi un romanzo storico o qualche biografia: se non mi appassiono a una storia, non imparo… la Storia!

Cesare, dunque!

Il libro ci racconta cosa ha combinato dalla campagna spagnola fino al passaggio del Rubicone.

Non erano tempi facili, quelli, ma una cosa è certa: gli uomini erano stupidi come quelli di oggi. Cesare incluso, eh?! Alla fine il suo scopo era quello di conquistare paesi e popoli per la gloria… di Roma? Macchè, non ci crede nessuno. Era la sua, di gloria, che gli interessava.

Idem per Pompeo, Crasso… Alessandro (morto da un pezzo), che era i suo idolo… e tanti altri. Ammazzamenti, squartamenti, stupri, omicidi di donne e bambini, incendi, furti. E tutto per cosa? Per ottenere più potere, più visibilità, più concessioni commerciali, un posto in senato, per diventare console, per ottenere i trionfi.

Patetici.

Il libro inizia quando la ribellione degli schiavi è già stata sedata: è stata uno shock per la classe dominante.

Insomma, il popolo di Roma andava tenuto tranquillo, con spettacoli regolari e regolari distribuzioni di soldi e cibo. Quello che facevano i politici, ai livelli più alti, lo sapevano solo loro: scambi di favori, ricatti, appropriamenti, debiti… (vi suona familiare?)

Cesare non era meglio degli altri. E’ solo diventato più famoso perché ha vinto… è il vincitore che scrive la storia. Ma anche lui si è allontanato da Roma per non pagare i debitori, anche lui si è appropriato delle ricchezze della Spagna per finanziare la campagna elettorale, anche lui ha mandato in giro per Roma migliaia e migliaia di sostenitori “pagati” per raccogliere consensi… Funzionava così, allora (e oggi? Oggi abbiamo la TV, ma il popolo non è molto più intelligente dopo duemila anni).

Interessante è vedere come si sviluppa il rapporto tra Cesare e Bruto: amici intimi fin da piccoli, tutto si incrina quando Cesare incomincia una relazione con Servilia, la madre di Bruto, tenutaria di bordello e vent’anni più vecchia dell’amante.

Vorrei vedere voi al posto di Bruto… insomma, alla fine Bruto era un uomo italiano, la mamma non si tocca.

Al di là dei dettagli storici, insomma, la lezione è che gli uomini non cambiano (le donne si son fatte un po’ più furbe. Un po’).

Quanti altri millenni ci servono per evolverci un pochino?

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Jade, di Lisa Huang

Gli scrittori cinesi sono facilitati nel compito di trovare ambientazioni interessanti per le loro storie: le trovano nel proprio paese, nell’arco di un solo secolo, il Novecento. Hanno tutto lì!

Gliene sono capitate di tutti i colori, ai cinesi.

La storia di Lisa Huang si incentra su Jade, una bambina di buona famiglia che perde il padre in tenera età: con esso, se ne va tutta la ricchezza e la sicurezza della famiglia. Per permettere al fratello di entrare nell’esercito con un buon grado, sposa il rampollo di una famiglia nobile: peccato che poco dopo il matrimonio si accorge che il maritino è dedito all’oppio e che i suoi genitori si sono venduti tutti pur di assecondarlo.

Siamo in Cina all’inizio del Novecento: Jade rimane col marito e lo accudisce fino alla morte, fare diversamente avrebbe significato lo stigma. Dopo esser rimasta vedova, rimane addirittura coi suoceri, che la odiano e cercano di avvelenarla, ma lei non se la sente di abbandonarli finché non è costretta (anzi: anche dopo essersene andata ad abitare da un’altra parte, ogni mattina porterà ai vecchi una porzione di cibo per la giornata).

Inizia a insegnare (vergogna: una donna che lavora!), ma attorno a lei infuriano invasioni giapponesi e guerre civili.

Si sposa con un funzionario del Kuomintang, ha due figlie, ma non riesce a dargli il maschio. Decidono di adottarne uno: non è difficile, in un’epoca di battaglie e macellazioni umane. Il problema si pone quando il bambino, ormai cresciuto, scopre di non essere davvero il loro figlio…

Ho iniziato il libro a novembre 2018 e l’ho finito solo ieri, ma la lentezza era dovuta alla lingua tedesca, non al libro, che, ripeto, è affascinante per ambientazione, storia e descrizioni di luoghi e sentimenti.

Jade è una donna che rispetta le tradizioni ma che non può far nulla contro i cambiamenti che stanno travolgendo lei, la sua famiglia e tutto il suo paese. La sua stessa migliore amica, che si è dedicata al comunismo con anima e corpo, nonostante tutti i suoi sforzi resta travolta dalla storia: ne viene fuori un’immagine desolata, di esseri umani che non possono nulla contro le grandi forze che li avviluppano.

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E l’eco rispose – @KhaledHosseini

Dopo aver letto “Il cacciatore di aquiloni” e “Mille splendidi soli”, eccomi qui a dirvi che “E l’eco rispose” è il migliore dei tre.

Meravigliosa la sua struttura narrativa, dove la storia principale viene narrata da più personaggi, tutti uniti da legami parentali o, semplicemente, da eventi e luoghi.

La storia principale riguarda Abdullah e la sorellina Pari: la bimba di tre anni viene venduta dal padre a una famiglia molto ricca. Non è un atto semplice, compiuto per ingordigia: il padre, uomo di poche parole, ha sacrificato il dito per salvare la mano, data la situazione di estrema povertà in cui vivono (un neonato gli è morto pochi mesi prima).

E qui la storia parte: racconta dal punto di vista di Abdullah, dello zio che ha avviato la trattativa, della madre adottiva dei bambini, di Pari, della madre adottiva di Pari, di un dottore che è entrato in contatto con lo zio, dei figli di un vicino di casa, della figlia di Abdullah, del figlio di un signore della guerra che uccide uno zio di Abdullah…

Di solito non mi piacciono i romanzi corali, li trovo dispersivi, ma qui ogni personaggio ha la una storia intrigante e tutto si snoda dal 1952 fino ai giorni nostri intrecciandosi con avvenimenti storici…

La storia che mi ha colpita di più, è quella di Idris, un figlio dei vicini di casa dello zio. Dopo le varie guerre che hanno coinvolto e devastato l’Afghanistan, l’uomo, diventato adulto, torna insieme al fratello per cercare di recuperare la casa di famiglia, visto che ora Kabul è piena di volontari e organizzazioni e i prezzi immobiliari sono saliti alle stelle.

A Kabul conosce, in un ospedale, Roshi, una bambina che ha la testa completamente rovinata: è così malridotta che è difficile a guardarsi, e ha bisogno di un’operazione altamente sofisticata per poter sperare in una vita normale. Non è una vittima della guerra, ma di uno zio che ha ucciso tutta la sua famiglia a colpi d’ascia a causa di una faida di lunga data.

Idris, che è medico, promette di prendersi cura della bambina, di tornare negli Stati Uniti e di raccogliere i fondi che le permetteranno di essere operata in America. Solo che una volta tornato a casa sua, un po’ alla volta, il volto di Roshi si scioglie nella sua memoria.

E questa è la parte più umana: tutti siamo bravi a infervorarci davanti alle storie tristi, ma una volta immersi nella nostra quotidianità i bei propositi si sfaldano.

Lo ritroviamo molti anni dopo, quando Roshi, scritta la storia della propria vita, presenta il suo libro al pubblico dei lettori. Lui si metterà in fila per farsi fare l’autografo, ma arrivato davanti alla donna, pieno di rimorsi e vergogna, non troverà il coraggio di dirle chi era.

Voto: 5/5.

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Ruggine americana, Philipp Meyer

Gli Stati Uniti potenza mondiale?

Stando alla quotidianità dei suoi cittadini, non si direbbe. Ed è proprio la quotidianità provinciale che ci viene raccontata da Meyer in questo suo primo romanzo (pluripremiato).

Isaac è un ventenne con geniali doti matematiche e scientifiche, tanto da renderlo un po’ incomprensibile alla media delle persone che può frequentare. Isaac vive in una zona degli Stati Uniti che ha vissuto un periodo di prosperità nel passato ma che ormai, a causa della dismissione delle acciaierie che avevano reso possibile il breve miracolo economico, è costellata di ruderi di fabbriche e magazzini.

Sua madre si è suicidata. Anche lui ci prova, ma viene salvato da Billy Poe, un suo coetaneo che è più portato per il football che per le… analisi filosofiche.

La sorella di Isaac, anche lei dotata di un altissimo quoziente intellettivo, è riuscita ad andarsene da quei luoghi, è andata al college e si è sposata “bene”, ma vive nel costante rimorso di aver abbandonato fratello e padre (disabile in seguito a un incidente sul lavoro).

Tutto il romanzo nasce da un omicidio: Isaac, il timido e intellettuale e mingherlino Isaac, uccide un uomo, un barbone (ce ne sono di barboni, in questa storia!) per salvare la vita a Billy Poe. Però poi Isaac parte, a piedi, verso la California, come aveva intenzione di fare fin dall’inizio, e Billy Poe rimane inguaiato, perché tutti credono che sia stato lui ad uccidere il senzatetto.

Billy Poe ha molti difetti, ma non vuole denunciare l’amico.

E qui si intersecano le storie di tutti i personaggi: a quelli già nominati si aggiungono Harris, il poliziotto; Grace, la madre di Poe che ha avuto una storia con Harris; il padre di Isaac e Lee, sua sorella.

Il romanzo ci mostra il cittadino americano in difficoltà. E’ un’analisi psicologica, sociologica e quasi storica di come la crisi economica vada ad incidere nelle vite dei singoli e di come la disoccupazione comporti problemi a catena.

Ma è anche molto più di questo.

Ad esempio, prendiamo Billy Poe, che è uno sempre pronto a menare le mani, uno grande e grosso che sembra non aver paura di nulla: ebbene, è molto più fragile di quanto pensiamo; non può mangiare cibo industriale, tanto per dire: un panino del McDonald gli causa problemi intestinali. Perché anche il cibo, negli Stati Uniti, è in crisi.

Chi si salva?

  1. Chi se ne va. E infatti il desiderio di andarsene dalla valle è diffuso. Tutti ne parlano, ma solo pochi ci riescono (e non tutti quelli che se ne vanno riescono poi a risollevarsi davvero).
  2. L’ambiente naturale, che è quello che si riappropria dei propri spazi in un territorio abbandonato da industriali e ditte di trasporto.
  3. Chi rimane fedele a pochi e solidi rapporti interpersonali (familiari o sentimentali).

Chiusa l’ultima pagina del romanzo, ci resta l’amarezza di un’esperienza di difficoltà: gente che fa fatica ad arrivare alla fine del mese e a pagare i propri debiti. Non è una questione solo economica, né solo individuale.

Quando leggi che non sono rimasti neanche i soldi per smantellare come si deve le acciaierie, lasciate là ad arrugginire, e che i dipendenti comunali sono pagati in obbligazioni, e che le armi sono oggetti comuni in ogni famiglia americana, e che un giovane non riesce ad uscire dalla spirale della violenza neanche impegnandosi, bè, ti fai delle domande, perché noi italiani, fino ad ora, abbiamo sempre copiato gli Stati Uniti a qualche anno di distanza.

Al di là della storia, cruda e realista (vi raccomando le pagine che raccontano di Billy Poe in prigione), di Philipp Meyer bisogna lodare anche lo stile, soprattutto la sua capacità di cambiare registro; ad esempio, quando segue il punto di vista di Isaac, il genio incompreso, la scrittura si fa frammentata, diventa quasi un dialogo schizofrenico tra due personalità interne allo stesso corpo, e la frammentazione aumenta di capitolo in capitolo, finché Isaac non giunge a una decisione risolutiva.

Voto: 4,5 su 5.

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Nel ventre della balena e altri saggi (G. Orwell) e alcune riflessioni sulla politica italiana

C’era una volta, tanti, tanti anni fa, Repubblica Romana: quando i consoli non erano in grado di gestire una situazione di crisi, nominavano un dittatore che aveva poteri assoluti e restava in carica sei mesi. Solo sei mesi. Poi basta.

La dittatura non possedeva quell’alone negativo che possiede oggi.

Oggi, il problema italiano sono i politici “democraticamente” eletti. Non se ne vanno più. E se ne arrivano di nuovi (vedi Movimento 5 Stelle e Lega ora al governo), dopo poco, diventano come i politici che hanno sostituito: dimenticano le promesse elettorali, mettono radici, e tutto ciò che fanno lo fanno solo per mantenere la sedia.

In una situazione del genere, ti viene il pensiero che sia meglio una rivoluzione di qualche tipo, e che l’unica soluzione sia uno tsunami politico che spazzi via parlamento e le tenie che ci sono dentro… anche se sei pacifista, questo pensiero si insinua nel cervello. Perché qui, in Italia, non si salva nessuno, dei politici (e quindi, neanche noi).

Poi prendi in mano un libro di Orwell e leggi

Non è solo il fatto che “il potere corrompe”, ma sono anche i modi stessi di conseguirlo.

E allora neanche l’idea della rivoluzione funziona più.

Resta l’emigrazione…?

Ma torniamo a Orwell.

I saggi di questo libro sono vari: si passa dalla lettura, alla politica, ai ricordi di scuola e di guerra.

Dico subito che alcune sue affermazioni, alla luce del tempo, si sono rivelate errate. Ad esempio, quando dice:

I libri americani interessano sempre meno.

(…) Neppure i supermarket riescono a soffocare il piccolo librario indipendente come hanno soffocato il droghiere e il lattivendolo.

Ma mi fa anche riflettere sulla mia voglia di lavorare tra i libri quando dice

(…) il vero motivo per cui non mi piacerebbe fare il libraio di mestiere è che, mentre lavoravo in una libreria, persi il mio amore per i libri. Un libraio deve mentire sui libri, e questo glieli rende antipatici. Anche peggiore è il fatto che passa il suo tempo a spolverarli e a spostarli di qua e di là.

E io che pensavo che il libraio fosse il mio lavoro ideale!

Orwell combatte contro tutti i totalitarismi, sia di destra che di sinistra, ma è sospettoso anche nei confronti della democrazia quando l’opinione pubblica prende il sopravvento:

(…) l’opinione pubblica, a causa della fortissima tendenza al conformismo degli animali gregari, è meno tollerante di ogni altro sistema di legge.

E che dire della chiesa romana?

(…) Durante un periodo di 300 anni, quante persone sono state contemporaneamente buoni cattolici e buoni romanzieri?

(…) le chiese cristiane forse non sopravvivrebbero solo sui loro meriti se le loro basi economiche fossero distrutte.

Più in generale, sulla libertà di pensiero ed espressione, Orwell sottolinea spesso quanto l’intellighenzia (o quella che vorrebbe farsi chiamare “intellighenzia”) ricorre all’autocensura:

L’immaginazione, come alcuni animali selvaggi, diventa sterile sotto cattività.

Il grande nemico di un linguaggio chiaro è l’insincerità. Quando esiste uno scarto tra lo scopo reale e quello dichiarato, ci si rivolge istintivamente ai paroloni e a vecchi luoghi comuni.

I buoni romanzi sono scritti da gente che non ha paura.

Alcune di queste riflessioni si sono rivelate profetiche.

Guardiamoci oggi: teoricamente godiamo dei diritto di libera stampa e riunione ma

Ciò che è realmente in questione è il diritto di riportare gli eventi contemporanei in maniera veridica, o almeno tanto veridicamente quanto lo consenta l’ignoranza, il pregiudizio e le autoconvinzioni di cui ogni osservatore necessariamente soffre.

Quanti giornalisti davvero liberi abbiamo in Italia oggi? E romanzieri? Abbiamo ancora intellettuali impegnati politicamente che non siano accecati da pregiudizi e autoconvinzioni? O, più semplicemente, romanzieri che tocchino, anche di striscio, la situazione politica italiana nelle loro opere?

Ogni scrittore e giornalista che voglia salvaguardare la propria integrità si trova impedito più dall’andamento generale della società che da un’attiva persecuzione.

Quando mi siedo a scrivere un libro, non mi dico: “Adesso farò un capolavoro”. Lo scrivo perché c’è qualche menzogna che voglio denunciare, qualche fatto sul quale voglio attirare l’attenzione (…).

Scrivere un libro è una lotta orribile ed estenuante, come un lungo periodo di dolorosa malattia. Nn bisognerebbe mai intraprendere un’attività del genere a meno di non essere guidato da un qualche demone incomprensibile al quale non si può resistere.

Non c’è altro da aggiungere.

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Cleopatra – Joachim Brambach

Sapete perché ogni tanto leggo libri storici? Per ricordarmi che gli esseri umani sono sempre gli stessi, e dunque è inutile arrabbiarsi quando qualcuno cerca di passarti sopra come un TIR.

Sapete perché non leggo libro storici troppo spesso? Perché mi ci arrabbio lo stesso…

Guardiamo i giorni nostri: se i parenti non si avvelenano e strozzano e pugnalano fra loro come facevano i Tolomei, è solo perché non sono Tolomei, e non godono di alte probabilità di farla franca. Molti assassinii non vengono perpetrati solo per paura della punizione, non per remore morali. Per noi è più facile togliere la parola a uno zio per via di un’eredità o rovinare la reputazione di un amico parlandone male alle spalle.

Gli ammazzamenti di figli, genitori, fratelli non sono prerogative dei monarchi orientali: anche noi abbiamo avuto i nostri. E’ stato Ottaviano a uccidere Cesarione, il figlio di Cesare e Cleopatra, e Ottaviano (l’Augusto) era romano. Non parliamo poi dei Borgia…

Cos’altro ci insegna la storia? Che la religione viene sempre sfruttata a fini di potere: Cleopatra e, prima di lei, Alessandro Magno lo avevano capito benissimo: siamo noi, nel 2019, che siamo ancora convinti che la Religione sia Buona e l’ateismo cattivo.

Un’altra lezione dalla storia? Certo: è che non sappiamo quasi niente. Pensate alla relazione tra Cleopatra ed Antonio. Cosa vi viene in mente? Liz Taylor e Richard Burton, immagino. Amore romantico, drammatico, tragico… Bè, dimenticate tutto.

Se c’è uno che ha rischiato di più nel suo rapporto con Cleopatra, è stato Cesare, che ha compiuto alcuni atti sconsiderati durante la relazione. Antonio, invece, era molto meno succube della regina egiziana, sebbene ne fosse affascinato.

Di lei, poi, quando la sua faccia non si sovrappone a quella della Taylor, abbiamo un’immagine da sovrana orientale onnipotente, capricciosa e sanguinaria.

Tutto vero?

Non proprio: la storia la raccontano i vincitori. Gli storici antichi dovevano far passare un’idea del genere, perché Ottaviano l’aveva sfruttata per attaccare Antonio, suo rivale nell’ascesa all’Impero. Antonio era ancora molto amato dal popolo e Ottaviano avrebbe perso in popolarità se lo avesse affrontato di petto: meglio farlo passare come la vittima succube della perfida regina orientale.

Ah: come è morta Cleopatra?

Suicidio con il serpente velenoso, vero?

No, falso.

In realtà, non si sa.

Sì, lo so che l’immagine della donna disperata per l’amante morto fa audience, ma non ci sono prove che lei si sia suicidata con l’aspide.

Dopo la morte di Antonio, lei rimane tredici giorni prigioniera di Ottaviano. Si sapeva che aveva tendenze suicide: una regina di quel calibro non avrebbe accettato di sfilare sulle strade romane in veste di bottino di guerra di Ottaviano. Tuttavia, neanche l’Augusto ci avrebbe guadagnato molto a far sfilare una donna (si dice) annienta e disfatta dal dolore: il popolo ne avrebbe provato pietà, e tutta la pubblicità negativa di Ottaviano sarebbe scoppiata come una bolla di sapone.

Diciamo che Ottaviano Augusto non ha fatto poi molto per evitarne il suicidio (se suicidio c’è stato). Sarebbe bastato metterle qualcuno alle costole a tenerla d’occhio…

Machiavelli non ha inventato niente.

E neanche Berlusconi.

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Quel che resta del giorno – Kazuo Ishiguro

Era da un po’ che non provavo più un tale piacere nella lettura. In questo libro, Ishiguro usa una prosa splendida! Splendida, ho detto!

Il maggiordomo Stevens, durante una vacanza in auto (la sua prima vacanza), ripercorre i ricordi della sua vita. Stevens è completamente dedito al suo lavoro, ossessionato dall’obiettivo di raggiungere una non meno identificata dignità professionale.

Al suo ruolo ha sacrificato tutto: non è stato presente alla morte del padre, anch’esso maggiordomo; non ha intessuto nessun legame sentimentale; non si è mai fatto domande sull’attività dei suoi padroni.

Un suo precedente titolare era filonazista? Non importa, lui lo ha servito senza mai metterlo in dubbio, neanche quando gli ha fatto licenziare due cameriere solo perché erano ebree.

La governante cerca di attirare la sua attenzione donandogli fiori? Non importa, lui non può permettersi di mostrare lati deboli, non starebbe bene.

E quello che più colpisce, è la sua capacità di autogiustificarsi e di nascondere a se stesso che anche lui è un essere umano, che anche lui soffre, che anche lui potrebbe amare. La sua maschera gli si è incancrenita addosso, e se alla fine Stevens esprime il desiderio di imparare a far battute ironiche, è solo perché potrebbe dar piacere al suo nuovo padrone.

Da leggere, da leggere!!!

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The game, Alessandro Baricco @einaudieditore

Non avrei mai creduto di appassionarmi così a:

a) un libro di Alessandro Baricco

b) un libro sul mondo digitale.

Eppure…

Baricco si è messo a ricercare le radici (la spina dorsale, i reperti archeologici) del mondo digitale di oggi risalendo agli anni Settanta e ha fatto una serie di scoperte interessanti.

Intanto: perché il mondo digitale è nato? Perché chi lo ha creato (ingegneri/scienziati maschi bianchi della controcultura americana) venivano dal Novecento, uno dei secoli più sanguinosi della storia umana. Per evitare il ripetersi di una tale tragedia, nelle loro menti, forse a livello inconscio, bisognava:

a) distribuire a tutti le informazioni e impedire, tramite la velocità, che le ideologie si fossilizzassero in pericolose direttive d’azione.

b) togliere il potere alle vecchie élites (professoroni, sacerdoti & C.)

(…) l’immobilismo culturale dei popoli e il ristagno piombato delle informazioni avevano portato i loro padri a vivere in un mondo in cui si poteva fare Auschwitz senza che nessuno lo sapesse, e sganciare una bomba atomica senza che la riflessione sull’opportunità di farlo riguardasse più di una manciata di persone.

Nel far ciò, è nata una certa ossessione per il movimento, per l’abbattimento delle barriere: in fondo, se si facevano le guerre era per mantenere o allargare i propri confini, in senso materiale e non.

Per allargare la base degli utilizzatori delle informazioni, l’unico modo era cambiare i tools, gli strumenti che usavano (perché, ricordiamoci che le persone non le cambi con interventi diretti, devono cambiare da sole): da qui ecco l’importanza data alla facilità d’uso.

Nel Novecento, infatti, le élites ci rappresentavano il mondo come un iceberg alla rovescia, dove la base, enorme, sopra l’acqua rappresentava il caos, il reale, e sotto, la puntina che solo alcuni potevano scoprire, stava la Verità.

I creatori del mondo digitale, invece, hanno fatto il contrario: l’iceberg tiene l’enorme base sotto l’acqua (la complessità dei devices) e lascia emergere solo la semplicità offerta all’utilizzatore (l’I-phone che si lascia gestire con un dito).

Questo può creare delle storture, certo. Ad esempio, viene rivisto il concetto stesso di verità: non è più vero ciò che è vero, ma è vero ciò che viene meglio raccontato (ecco l’importanza dello storytelling). D’altronde, se il movimento delle informazioni deve essere veloce, è normale che nella corsa alcuni dettagli si perdano per strada.

Altra stortura è la creazione di nuove élites: chi sa usare i nuovi strumenti. Chi non lo sa fare (o chi, semplicemente, non può permetterselo), resta indietro. Ricchezza e povertà, nel mondo digitale, sono ancora molto novecenteschi. E come le élites novecentesche, quelle digitali sono difficili da controllare (solo per fare un esempio, i bestioni digitali non pagano tasse o non le pagano come dovrebbero fare).

Altra stortura: la privacy è costantemente violata, checché ne dicano i sistemisti aziendali. Pensate alle cloud: non sono nuvolette nel cielo azzurro. Sono altri computer. Di chi? Dove? Mah. E i nostri dati, siamo noi: non è così difficile orientare le nostre scelte.

Baricco però mi ha fatto notare una cosa:

Il fatto che la Rete bene o male ti faccia arrivare solo le notizie che vuoi leggere, e che ti rafforzano nelle tue convinzioni, è una cosa che può davvero temere gente che ha conosciuto le parrocchie, le sezioni di partito, il Rotary, il telegiornale di quando non c’era la Rete e i giornali degli anni ’60?

Insomma, mi fa pensare il fatto che l’unico paese in cui oggi non arriva il segnale digitale è la Corea del Nord… è la prova che la rete fa paura a certi poteri.

Certo, c’è anche il problema dei millennials, che viaggiano veloci ma senza profondità, e che non hanno conosciuto i drammi del Novecento, e dunque non sanno perché è nato il mondo digitale.

Certo, gli umani aumentati, con gli smartphone in tasca, si sentono potenti, rifiutano il parere degli esperti perché pensano di poter fare da soli anche quando non è vero, e hanno sviluppato nuove forme di egoismo di massa.

Ma allora, se consideriamo tutte queste storture, che ci stiamo a fare ancora qui? Perché non ci solleviamo in blocco e smettiamo di usarle il cellulare e i computer e di ordinare tramite Amazon e di prenotarci le vacanze da soli? In fondo i fautori della rivoluzione digitale non sono solo i vari Jobs e Zuckenberg, è da idioti presentarla come una metamorfosi imposta dall’alto e dalle forze del male!

Qualcuno ce l’ha PROPOSTO semmai, e noi ogni giorno torniamo ad accettare quell’invito.

E infatti, chi si solleva davanti al mondo digitale, non lo fa per tornare indietro all’analogico.

Ebbene, la rivoluzione digitale è, appunto, una rivoluzione: un cambio repentino e violento del gioco. Ma le regole si costruiscono man mano che si gioca. E giochiamo tutti.

Se devo trovare un difetto al libro, è che Baricco a volte si lascia prendere dalla prosa e dalle immagini, e si dimentica di presentare qualche esempio che potrebbe rendere più concreta la tesi specifica.

Per il resto, questo è un libro facile da leggere ma illuminante che, attraverso la storia (anche se al limite della contemporaneità) ci fa capire l’oggi.

Ottimista ma non semplicistico, tocca, attraverso la realtà digitale, tutti i campi del nostro vivere quotidiano, dagli acquisti online alla politica interna ed internazionale, dalla famiglia ai passatempi.

Lo devono leggere assolutamente gli ingegneri, soprattutto italiani, che non sono come gli ingegneri della controcultura americana degli albori del digitale; ma anche chi usa tutti i giorni la piccola bomba atomica che ci teniamo in tasca/borsetta.

Un invito all’Einaudi: per favore, questo libro fatelo andare oltreoceano, non aspettate troppo a farlo tradurre………………………………

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