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Denti bianchi – Zadie Smith

Tanto di cappello a Zadie Smith che ha scritto un libro del genere a 23 anni.

Non mi piacciono i romanzi con una vena comica troppo marcata, ma questo l’ho finito perché la Smith ha certe trovate linguistiche davvero intelligenti.

La storia spazia in un arco di tempo di un paio di secoli, perché si risale spesso alle radici di alcuni dei personaggi, radici che sono interrate sul suolo inglese, indiano, pakistano, giamaicano ecc…

I protagonisti sono due amici: Archie, inglese che non ha mai preso una decisione in vita sua (evviva le monetine che si lanciano in aria!!) e Samad, bengalese musulmano convinto ma pieno di rimorsi per come il mondo occidentale lo sta fuorviando dalla Via.

Sono amici dal tempo della guerra, anche se la loro, di guerra, è stata tutta sui generis

Ma è sui generis tutta la storia, la loro, quella delle loro famiglie e quella dei loro amici: testimoni di Geova, estremisti musulmani, animalisti pazzoidi, adolescenti in crisi, ristoratori con problemi di pelle, genetisti che perdono la testa per un topo, coniugi che se le danno di santa ragione… Per questo è difficile delineare una storia vera e propria.

Attraverso le vicende tragicomiche delle due famiglie allargate, tuttavia, la Smith riesce a tessere diversi fili riunificatori: il bisogno di eroi, ad esempio.

Archi non ha eroi. Eppure è inglese: ha la sua storia alle spalle.

Samad ha scelto per eroe un antenato che nessuno ricorda e che la Storia vera snobba.

Questa differenza di fondo guiderà le varie scelte o non scelte dei due (ma anche quelle dei figli di Samad), fino all’epilogo finale.

Un altro filo, è il rapporto tra gli inglesi e gli immigrati: la paura di essere razzisti e la paura di perdere le proprie radici (Radici: parola chiave, nel romanzo).

Altro punto che mi pare degno di nota è l’impossibilità di distinguere le varie etnie in base a dei comportamenti razionali. Qui sono tutti fuori di testa. Ben delineati, non c’è dubbio, ognuno ha le proprie motivazioni per fare quello che fa, ma a guardarli dall’esterno, un passante direbbe: Questi sono fuori di testa. “Estremi” è la parola giusta. E l’estremismo infatti è un altro filo unificante, non importa di che matrice: religiosa, scientifica, morale, alimentare…

Neanche i denti, bianchi, cariati o finti che siano, sono sufficienti a identificare un ceppo etnico: se ci si fa caso, a volte i denti entrano nella storia per indicare la gente di colore, altre volte sono in bocca a inglesi e bianchi… non c’è un criterio distintivo.

Credo sia un effetto voluto: gli esseri umani non possono venir distinti, così come non si possono riprodurre in laboratorio. E il topo geneticamente modificato che, alla fine, riesce a scappare in barba a un salone pieno di gente, rappresenta bene questa impossibilità di catalogazione. E’ inutile che i protagonisti tentino di mettersi delle etichette, definendosi “chalfenisti” o “bowdenisti”: non esiste uno spazio neutro sul quale incontrarsi, né fisico né culturale, perché tutti sono intrecciati gli uni agli altri.

Il romanzo tende ad essere un po’ troppo comico, per i miei gusti (ma solo per i miei) ma non si può negare che sia pieno di spunti di riflessione.

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Fuoriclasse – storia naturale del successo (Malcom Gladwell)

E’ interessante vedere come vengono tradotti i titoli nelle varie lingue. In tedesco, il titolo è Ueberflieger, che vuol dire sì fuoriclasse, ma indica più precisamente qualcuno che vola più in alto. E in tedesco è più significativo anche il sottotitolo: Perché alcune persone hanno successo e altre no (mentre in italiano leggiamo “Storia naturale del successo”: dove quel “naturale” è un’aggiunta arbitraria rispetto alla versione originale in inglese).

Ad ogni modo, questo libro non è un saggio di self-help. Anzi, ammetto che ti smonta un po’. Siamo lontani dalle visioni di Tony Robbins, che ti dice che puoi fare tutto ciò che vuoi se ti applichi.

No, Gladwell è molto più realistico: i fuoriclasse sono arrivati dove sono non solo grazie al loro talento e alla loro determinazione (leggi: capacità innate e buona volontà), ma anche, se non soprattutto, grazie a una concomitanza di… possibilità e vantaggi.

Non usa la parola “fortuna“, né tantomeno “culo“, ma il concetto è questo…

Facciamo un confronto con il tormentone dei manuali di autoaiuto che si leggono in giro, e prendiamo l’esempio delle 10.000 ore: ti dicono che puoi diventare un virtuoso di violino, un eccelso giocatore di pallacanestro, un famosissimo scrittore se ti applichi con costanza all’attività che hai scelto. Diecimila ore è la quantità di tempo indicativo che ti serve per arrivare ovunque nella vita.

Dicono.

Ma Gladwell ci fa notare: ok 10.000 ore. Ma per avercele, queste 10.000 ore, devi trovarti nella situazione adatta. Come ci arrivi ad avere tutto questo tempo a disposizione se non sei di buona famiglia, se non hai chi ti aiuta, se devi lavorare dodici ore al giorno per guadagnarti la pagnotta?

Oppure, prendiamo l’esempio dei geni matematici. Gladwell ci fa fare conoscenza con un ragazzo americano, Langan, le cui competenze di calcolo sono eccezionali: un quoziente intellettivo che fa vergognare Einstein, superiore anche a quello di Oppenheimer; Langan si è fatto conoscere al pubblico americano grazie a un quiz televisivo. Eppure questo ragazzo svolge un lavoro umile, uno di quelli con cui hai difficoltà a pagarti il dottore quando serve. Non ha saputo mettere a frutto le sue abilità.

Perché? Perché venendo da un ambiente svantaggiato, non possedeva le competenze sociali necessarie per farsi strada nel mondo universitario. E non è colpa sua se è nato in una certa famiglia e in un certo ceto.

Altri esempio di “condizioni favorevoli” sono l’anno di nascita (a volte anche il mese, per la scelta dei ragazzi nelle squadre di hockey), il ceto di appartenenza, il periodo in cui si frequenta l’università o si apre una certa attività, ecc…

Gladwell porta esempi molto dettagliati, mini-biografie, alla maniera americana.

Non so però se è un libro che può aver… successo. Credo di no, perché questo saggio è uscito in un momento in cui vanno alla grande i libri di self-help che ti dicono che puoi fare tutto quello che vuoi se lo vuoi (addirittura alcuni ti dicono che puoi fare quello che vuoi solo pensandoci), libri scritti da guru che danno speranza, che ti galvanizzano, che ti fanno uscire di casa per andare a correre e perdere quei trenta chili di sovrappeso che ti hanno chiuso le possibilità di trovare la bonazza di turno.

Gladwell è più equilibrato. Più realista.

La massa non vuole realismo, vuole reazioni di pancia, estremismo.

Ecco, in questo io facevo parte della massa.

A me piace la speranza.

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